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lunedì 22 ottobre 2012
E se vince Romney? Il possibile cambiamento delle relazioni internazionali con gli USA
Secondo gli ultimi sondaggi sulle elezioni presidenziali USA, i due candidati sarebbero sostanzialmente alla pari, con un valore per entrambi di circa il 47% di gradimento. Se Obama pare favorito tra i grandi elettori, Romney dovrebbe, invece, godere, di un maggiore consenso popolare, questo fattore segnala che il comune sentire dell'elettorato americano si sta spostando verso quei valori fondanti dell'ideologia repubblicana, che mettono al centro, oltre al liberismo nel campo economico, la volontà di affermare la supremazia americana nel mondo. Questa incertezza profonda, che ha ribaltato l'andamento delle previsioni, rappresenta un problema per il mondo intero. La percezione nel resto del pianeta, infatti, è ancora per una vittoria di Obama, che resta favorito come lo era effettivamente qualche mese fa. Su questo dato si è fermata, sia la popolazione mondiale, che praticamente la totalità dei governi. Questo vuole dire che il mondo non è preparato ad una vittoria di Romney e che tutti i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti sono ancora impostati con Obama presidente. La politica estera di Obama, pur mantenendo alcuni tratti distintivi della politica estera di Washington, ha subito un cambiamento considerevole nell'impostazione dei rapporti tra gli stati, tramite una azione contraddistinta da una azione maggiormente improntata al dialogo e spesso di secondo piano, sopratutto in quelle crisi regionali che riguardavano paesi dove la bandiera a stelle e strisce non era del tutto ben accettata. Questo non ha voluto dire smarcarsi da un impegno sul campo anche considerevole ed oneroso (si pensi alla Libia), ma lasciando la prima fila ad alleati sicuri, gli Stati Uniti di Obama hanno evitato di alimentare polemiche che potessero avere ripercussioni dirette sull'operato di Washington. Si è trattato, insomma, di un approccio totalmente nuovo, dove la maggiore propensione al dialogo, come nel caso iraniano, anche aspro, ha preso il posto dell'interventismo che ha caratterizzato le presidenze repubblicane precedenti. L'uso di strumenti alternativi all'opzione militare, come la pressione delle sanzioni, ma anche un maggiore uso delle missioni diplomatiche, hanno creato una inversione di tendenza nella politica estera americana, che si è materializzata anche su questioni meno strettamente geopolitiche, ma di uguale importanza come la materia economica, dove con la Cina, non si è mai arrivati a manovre protezionistiche in grado di complicare il movimento delle merci, sebbene inquadrate in una dialettica forte sopratutto riguardo al reale valore della moneta cinese. Anche con la Russia, antico nemico di stagioni passate, pur un interlocutore non certo democratico, il rapporto, anche se spesso contrastato non è mai trasceso fino a sfiorare crisi internazionali. La politica estera e diplomatica dell'amministrazione che sta per scadere e potrebbe non essere rinnovata, lascia un sistema di relazioni incanalate su binari ben determinati, con le strutture statali atte ad interloquire con il sistema centrale di Washington, che sono impostate su di una base di fondo che prevede un confronto delimitato da confini certi e sicuri. Ma se vincesse Romney questa costruzione diplomatica faticosamente elaborata da quattro anni di governo Obama, sarebbe completamente stravolta. Anche se il candidato repubblicano ha superato, perchè abilmente guidato, le gaffes iniziali e si dimostra maggiormente, ma non ancora sufficientemente, preparato in politica estera, i suoi intendimenti sono chiari. Le dichiarazioni, che devono comunque essere adeguatamente soppesate, vanno nella direzione opposta da quanto fatto fin qui da Obama. La volontà più volte ribadita di bombardare l'Iran e di assecondare la politica espansionistica americana, le provocazioni più volte dirette contro la Russia e l'atteggiamento minaccioso contro l'economia cinese, rivelano che la stagione del dialogo avrebbe la sua fine con l'elezione di Romney, il quale, anche se limitato dai diplomatici professionisti, che non gradiscono senz'altro questo tipo di approccio, pare indirizzare la sua politica estera verso una ripresa del protagonismo assoluto degli USA. Il ragionamento si basa sulla volontà di affermare la potenza, anche militare, americana, ma non tiene conto che negli ultimi quattro anni il mondo è profondamente cambiato ed Obama, che è meno progressista di quello che vuole fare credere, si è soltanto adattato al nuovo scenario. Se Romney non comprende, come pare, questo cambiamento si dovrà assistere ad una serie continua di tensioni diplomatiche, che potranno mettere a dura prova le relazioni degli Stati Uniti, indirizzando sforzi verso obiettivi anacronistici e di difficile realizzazione. Tuttavia, ciò che preoccupa è se le cancellerie mondiali saranno attrezzate a sufficienza per ammortizzare questa nuova possibile tendenza. L'impreparazione potrebbe generare reazioni di conseguente difficile gestione, che potrebbero andare a paralizzare diverse relazioni bilaterali con gli USA, creando ricadute sopratutto nell'economia e nella finanza che potrebbero ripercuotersi sul bilancio generale di un mondo sempre più globalizzato, dove gli effeti di un atto compiuto ad una latitudine si propagano alle altre con una velocità imbarazzante. Mancano soltanto poco più di due settimane alle elezioni ed è augurabile che tutti, ma proprio tutti gli stati, elaborino strategie alternative al rapporto con gli USA.
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