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lunedì 29 ottobre 2012
Il modello cinese in crisi, tra fuga di capitali e delocalizzazioni
Tra i problemi che attanagliano l'economia cinese vi è quello della fuga di capitali, che sta innescando ulteriori problematiche per Pechino. Soltanto nel corso dello scorso anno ben 472.000 miliardi di dollari, somma che corrisponde all'otto virgola tre per cento del PIL cinese, ha lasciato in maniera illegale il paese. Anche per i numeri enormi della Cina, si tratta di cifre capaci di creare danni al sistema economico e di aggravare la già precaria stabilità sociale, andando ad acuire l'enorme differenza tra poveri e ricchi. Il fenomeno non è comunque nuovo, ma l'incremento registrato fin dal 2000 sta assumendo proporzioni capaci di incidere sulla politica dello stato. Questi flussi finanziari illeciti vengono deviati su conti presenti in paradisi fiscali, ma una parte considerevole viene fatta rientrare in patria sotto forma di investimento straniero, godendo così delle agevolazioni fiscali e degli aiuti di stato previsti per i finanziatori esteri. Questa prassi assomma così un doppio reato che si traduce in una doppia perdita per lo stato cinese. Si capisce chiaramente come tale sistema alimenti il malaffare, la corruzione e crei gravi scompensi sociali, che contribuiscono ad alimentare il clima difficile presente sia nei conglomerati urbani, che nelle periferie del paese. Inoltre la concentrazione di tale ricchezza in una parte piccola della società, crea uno squilibrio di potere pericoloso per lo stesso apparato. Non è un caso che le lotte intestine in seno al comitato centrale si sono svolte proprio tra membri del partito comunista cinese, che più potevano disporre di ingenti patrimoni, la cui provenienza non è mai stata del tutto chiara. Malgrado il controllo ferreo del partito, applicato, per la verità, in maniera molto rigida agli strati più bassi della popolazione, il problema della corruzione è stato implicitamente riconosciuto anche da fonti ufficiali, che hanno avvertito da tempo l'influenza negativa di forme eccessive di arricchimento, capaci di regalare quote consistente di potere, specialmente nelle zone più remote dello stato. Dietro ai numerosi casi di scioperi e rivolte provocate dal malgoverno degli apparati locali, vi è sempre una volontà di maggiore arricchimento del potente di turno, che reinveste capitali di provenienza sovente poco chiara, in imprese che vanno a ledere la dignità dei popoli locali spesso vittime di espropri di forzati, sia di terra che di tradizioni. Ma ciò è conseguenza della politica cinese intrapresa negli ultimi anni che ha creato un'etica comunista del lavoro, capace di valorizzarsi con l'arricchimento personale, inteso come misura del successo dell'impresa. Una tale visione sociale, nata e cresciuta in un contesto di assenza di regole e diritti ha finito per favorire quelle forme di accumulo di capitale capaci di sfuggire al controllo dello stato, che hanno contribuito, allo stesso tempo, sia alla fortuna, che alla deviazione del sistema. Il fatto è collegato alla crisi del lavoro cinese, che si sta concretizzando drammaticamente in una fuga dei maggiori marchi in altre nazioni dove le condizioni della vita dei lavoratori ed il minor costo del lavoro, che comprende anche i costi sostenuti dalle imprese per fare fronte alla corruzione, hanno un impatto, anche emotivo, di maggior favore per i consumatori. Del resto il fenomeno riguarda anche marchi cinesi ormai affermati, che iniziano a praticare la delocalizzazione al pari dei produttori occidentali. In questo modo interi distretti industriali si stanno svuotando, creando disoccupazione e tensioni sociali sempre più pesanti. Tutti questi fattori contribuiscono a fornire l'idea che il modello cinese, stia entrando in crisi perchè avvitato su se stesso e non in grado di aggiornare la sua struttura apparentemente granitica, ma in realtà sorpassata dai tempi e sopratutto dai fatti.
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