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venerdì 16 novembre 2012

Israele miope di fronte al cambiamento internazionale

Le operazioni militari scatenate nella striscia di Gaza dall'esercito israeliano, hanno assunto la dimensione di carneficina elettorale, ad uso e consumo, non della nazione israeliana, dove non tutti sono concordi nella politica intrapresa dal primo ministro della coalizione al governo, di esclusiva raccolta voti. Si tratta, infatti, di una campagna elettorale improntata all'uso della forza contro il nemico palestinese, che deve evidenziare come il programma elettorale sia incentrato nella difesa del territorio. Ciò deve essere inteso anche in senso più ampio, quando si affronteranno situazioni analoghe, come il caso iraniano, che saranno risolte con l'impiego dell'azione bellica. Se questo è il programma politico interno, impresso sulle pallottole e sui missili anzichè sulla carta dei depliants, che sarà la linea della campagna elettorale della coalizione che siede già al governo di Tel Aviv, non è difficile pronosticare un isolamento internazionale ancora più spinto per lo stato che ha la stella di David nella propria bandiera. Infatti se in Europa ed anche negli Stati Uniti, insomma nell'occidente sempre tollerante con Israele anche quando ciò è chiaramente controproducente, le reazioni di sdegno sono unanimi anche sui giornali conservatori, ben diverse sono e saranno le conseguenze che questa azione a Gaza produrranno nel mondo arabo. La miopia politica, o la scarsa lungimiranza, come si vuole definire, sul piano internazionale, di Benjamin Netanyahu, appare disarmante per le conseguenze che si stanno abbattendo sugli equilibri regionali e sulla stabilità stessa del proprio stato. Provare a ripetere una operazione analoga a quella del 2008 significa non tenere assolutamente in conto del radicale mutamento avvenuto nella regione e nel mondo arabo in generale, con l'avvento delle primavere arabe. Israele, di fronte agli sconvolgimenti politici che hanno attraversato il mondo arabo, è sempre stato critico perchè individuava il pericolo della caduta di quello status quo, che gli permetteva, grazie alle alleanze con i dittatori in carica e sopratutto con Mubarak, un adeguata assicurazione sulla propria libertà di movimento ed una immunità alle sue azioni. La transizione democratica non era apprezzata in quanto tale, singolare per la nazione che si è sempre dichiarata l'unica democrazia del medio oriente, ma era avvertita, come poi si è puntualmente verificato, come l'instaurazione al potere di partiti di matrice islamica e quindi contrari ad Israele quasi per definizione. Il dialogo balbettante con i nuovi governi non ha permesso l'instaurazione di rapporti su basi nuove, perchè inficiati dal peccato originale della mancata risoluzione della questione palestinese. In questo errore, di cui più volte l'amministrazione americana ha giustamente sollecitato la riparazione, Israele ha continuato a perseverare praticando la politica, al di fuori degli accordi internazionali e quindi fuori dalla legge, degli insediamenti abusivi delle colonie, per quanto riguarda la Cisgiordania, e della repressione, al limite della ferocia, nella striscia di Gaza. La continuazione imperterrita di questa strategia è però avvenuta in un contesto troppo mutato per non cambiare l'approccio, che non poteva più essere consentito dal periodo storico attuale. Il cambio di atteggiamento egiziano, dopo i raid su Gaza, è il segnale più eloquente di tutta questa situazione. Se il Presidente egiziano invia il suo premier direttamente a Gaza per condividere la tragedia con quelli che chiama i propri fratelli ed apre i varchi al confine con l'Egitto, che Mubarak in ossequio a Tel Aviv teneva ben sigillati, siamo di fronte ad un cambiamento epocale nella regione. Aldilà della retorica usata dalle istituzioni egiziane, che devono rispondere ad un sentimento generale della popolazione, prima soffocato, di comunanza con i palestinesi, questi fatti dimostrano come Israele abbia agito, per le ripercussioni sullo scacchiere internazionale, in modo avventato e sia rimasto sorpreso dalla visita ufficiale del premier egiziano a Gaza, tanto da sospendere i bombardamenti programmati per non incorrere in un pericoloso incidente diplomatico con il paese delle piramidi. Ma ancor più preoccupante è la rabbia che è cresciuta in maniera esponenziale nei popoli arabi e sopratutto nei movimenti più estremi: i valichi con l'Egitto sono aperti nei due sensi: se verso Il Cairo viaggiano i profughi, verso la striscia potrebbero viaggiare armi o, peggio ancora, kamikaze disposti a tutto per immolarsi alla causa palestinese su istigazione di qualche potenza o movimento che non aspetta migliore occasione per dichiararsi come paladino della lotta contro Israele. Lo schema degli attentati contro i civili israeliani è una risposta tragicamente ben conosciuta da Tel Aviv, sopratutto dopo azioni dimostrative come quella appena compiuta. Non solo, dalla parte opposta Hezbollah potrebbe innescare un confronto che rischierebbe di impegnare Israele su due fronti contemporaneamente, senza tralasciare la questione siriana, che ha provocato lo stato di allerta nel Golan. Vista in questo modo l'imperizia del premier israeliano appare evidente, scegliere la via delle armi anzichè quella del dialogo, secondo la logica, dovrebbe essere fortemente penalizzante come elemento di valutazione in una tornata elettorale ormai prossima, se non fosse che Benjamin Netanyahu ha puntato tutto sulle paure ataviche dell'elettorato israeliano, sul quale, però si spera in una maggiore ragionevolezza.

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