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martedì 6 novembre 2012

La Cina irritata con il Commissariato ONU per i diritti umani per le denuncia sul trattamento dei tibetani

Dopo le dichiarazioni del Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che hanno espressamente denunciato il governo cinese per la ripetuta e sistematica violazione di tali diritti, ai danni del popolo tibetano, la reazione di Pechino non si è fatta attendere. Complice l'attenzione mediatica a cui la Cina è sottoposta per la celebrazione del congresso del Partito Comunista Cinese, l'accusa del Commissariato ONU, ha assunto una rilevanza ancora maggiore, che è stata accusata molto dai dirigenti cinesi, come si comprende dal tono della risposta. Infatti Pechino ha opposto la più ferma opposizione, esprimendo delusione profonda per le accuse rivoltegli, affermando che la comunità tibetana gode di tutta la libertà politica, religiosa, culturale ed economica, come il resto dei cinesi. Se in altre occasioni sulle accuse rivolte all'azione repressiva sul popolo tibetano, Pechino ha, in molti casi, glissato o usato frasi di circostanza, tendenti a limitare la propria reazione per fare cadere la questione, la reazione di questi giorni è il sintomo di un nervosismo crescente tra le fila del governo, dovute, in parte all'attenzione rivolta da tutto il mondo alla transizione di potere ed in parte dovute al sempre più crescente interesse sulla questione tibetana, che rischia di essere la prima spina nel fianco della nuova dirigenza. Tuttavia lo schema difensivo ricalca quello classico usato da sempre: addossare la colpa delle dimostrazioni suicide dei monaci tibetani all'azione politica del Dalai Lama, il quale viene accusato di uso spregevole della vita altrui. Se la Cina crede di avere ragione sul suo comportamento in Tibet, risulta incredibile come possa difendersi con argomenti così poco convincenti, è chiaro che le dimostrazioni dei monaci stanno ottenendo una attenzione al problema tibetano, che Pechino ha troppo a lungo sottovalutato, sia dal punto di vista interno, che da quello esterno. La continua negazione dei diritti civili poteva essere attenuata con forme di riconoscimento della cultura tibetana, che potessero portare ad un compromesso sostenibile di convivenza per entrambe le parti, ma il rigido atteggiamento cinese ha portato all'esasperazione i tibetani, che, pur tra una censura molto ferrea ed impermeabile al passaggio delle notizie, hanno messo in pratica una protesta tremenda e tradizionale, capace di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale, già di per se molto attenta al problema, grazie all'azione incessante e pacifica del Dalai Lama. La politica che uscirà dal Congresso del Partito Comunista in corso dovrà per forza misurarsi e confrontarsi con la questione tibetana, che potrà essere anche un termine di paragone molto probante per valutare il grado di apertura che il nuovo direttivo vorrà concedere a tutte le popolazioni e minoranze etniche presenti sul suolo cinese. In presenza di una continuità contraddistinta da una rigidità come l'attuale, la Cina è destinata ad avere grossi problemi, se, viceversa, verrà attuata una politica di aperture, certo graduali, per Pechino sarà più agevole amministrare la questione dei diritti umani; ma ciò non vale soltanto per i popoli di etnia differente, ma deve essere esteso a tutta la platea del popolo cinese e non può non essere esteso al mondo del lavoro, dove, finora, i diritti sono stati calpestati in nome della produttività. Il Tibet non sarà l'unico fronte per i nuovi dirigenti cinesi, gli scioperi e le dimostrazioni per ottenere migliori condizioni di vita, sono in costante aumento e segnalano la volontà delle classi più povere di avere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi aspetti, etnico, economico e della rivendicazione dei diritti, non sono slegati perchè fino ad ora hanno subito un trattamento analogo improntato alla negazione ed alla repressione, ma l'evoluzione delle coscenze dei cinesi non permetterà più a lungo uno stato di eterna sudditanza.

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