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lunedì 12 novembre 2012

La Cina teme i gesti estremi dei tibetani

La strategia estrema dei tibetani sta creando non pochi problemi e molta irritazione alla Cina. La particolare attenzione mediatica mondiale, concentrata sullo svolgimento del Partito Comunista Cinese, offre una occasione ed una platea enorme per chi lotta per l'indipendenza tibetana. La forma di protesta è sempre tragicamente la stessa: immolarsi dandosi alle fiamme. Dall'inizio del congresso sono già stati sette i tibetani che si sono sacrificati contro l'oppressione cinese e per il ritorno del Dalai Lama. L'ultima vittima risale allo scorso sabato ed ha avuto come protagonista un ragazzo di appena diciotto anni, Gongo Tsering, bruciato di fronte ad un monastero nella provincia di Gansu. Il giorno prima nella provincia di Qinghai, le manifestazioni per la libertà del Tibet hanno assunto proporzioni forse mai raggiunte fino ad ora. Il governo tibetano in esilio, ha affermato che le proteste sono intensificate per inviare un esplicito messaggio alla nuova dirigenza cinese, che uscirà dal congresso, affinchè la questione tibetana sia trattata sotto una diversa ottica, che non contempli più la rigidità attuale. Le autorità cinesi si trovano sempre più spiazzate di fronte alle proteste non violente, se non verso se stessi, dei monaci tibetani, per l'eco che riescono a suscitare, sopratutto nell'opinione pubblica mondiale, in un momento in cui la Cina ha sempre più bisogno di consensi a livello internazionale. Molto temute sono le eventuali azioni dimostrative che potrebbero compiersi nel luogo simbolo della protesta cinese: Piazza Tiananmen, dove sono stati schierati stabilmente poliziotti dotati di estintori. Ma di fronte alla strategia dei tibetani, quasi settanta persone si sono immolate dandosi fuoco dal 2011, anche la potente Cina appare praticamente impotente e più di accusare il Dalai Lama di essere il fomentatore del fenomeno e di equiparare questi atti di ribellione ad azioni terroristiche Pechino non può fare. Tuttavia, se lo stato di disagio imposto dalla dominazione cinese obbliga a tali gesti estremi, la tanto invocata, dai burocrati del partito, armonia sociale, appare soltanto una formula priva di ogni significato. Nella scorsa settimana la Cina ha ricevuto una pesante valutazione ufficiale sul suo operato in Tibet: l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha parlato espressamente di "continua violenza perpetrata contro i tibetani che cercano di esercitare i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e di religione", chiedendo la presenza di esperti dell'ONU nella zona. Ma già il mese scorso l'ambasciatore USA, durante un viaggio nella provincia del Sichuan, in pieno Tibet, ha invitato la dirigenza cinese a riconsiderare la propria politica nella regione, caratterizzata da troppe restrizioni. Pechino ha sempre reagito con rabbia a dichiarazioni di questo tenore, che, però, purtroppo non si discostano affatto da una realtà costituita da dominazione e repressione. Secondo il Dalai Lama, la massima autorità dei tibetani costretto a vivere in esilio, quello messo in atto dai cinesi è un vero e proprio genocidio culturale, praticato anche favorendo una emigrazione di altri gruppi etnici, con lo scopo di sgretolare l'identità e la cultura tibetana. Resta il fatto che spesso durante le sue visite all'estero il Dalai Lama sovente non è stato ricevuto dalle autorità locali, per non urtare Pechino e la sua grande forza economica, tacitamente avallando il comportamento cinese. Pare difficile che la Cina riesca ad avere ragione di un popolo così fiero, malgrado tutta la potenza messa in campo, sembrerebbe più ragionevole arrivare, tramite un nuovo atteggiamento, ad una situazione che sappia tenere conto delle esigenze dei tibetani senza insistere in questo processo di annessione perseguito con la ricerca della cancellazione delle tradizioni ed identità del paese. Ma senza una revisione globale che comprenda una maggiore apertura verso i diritti, questo auspicio resterà tale.

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