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mercoledì 31 luglio 2013
Gli USA vogliono concludere entro nove mesi il processo di pace tra Isreale e Palestina
L’accordo per trovare un compromesso che possa instaurare la pace tra israeliani e palestinesi entro nove mesi, costituisce la premessa per affrontare in tempi celeri quello che non è riuscito in diversi anni. L’affermazione, sottoscritta dalle due parti in causa, potrebbe suscitare enorme entusiasmo se non si fosse consci dell’enorme difficoltà, non solo della tempistica predisposta ma anche degli ostacoli oggettivi che ci sono sul percorso del progetto di pace. I primi a rendersi conto di queste difficoltà sono proprio coloro che spingono maggiormente per la conclusione definitiva delle trattativa: gli Stati Uniti. Obama, fin dal suo primo mandato, ha messo tra i suoi obiettivi di politica estera la pacificazione e quindi la conclusione della questione tra Israele e Palestina. I ripetuti fallimenti del processo di pace, che ha subito numerose interruzioni, sono però dovute, anche all’atteggiamento troppo morbido del presidente americano nei confronti dell’esecutivo di Tel Aviv, che con la politica degli insediamenti ha compromesso il dialogo con i dirigenti palestinesi. Quello che ne è conseguito è esplicitato dalla quantità di tempo trascorso, quasi tre anni, di interruzione dei negoziati, che sono stati soltanto il culmine di un conflitto storico che dura ormai da troppo. Il Segretario di Stato statunitense, John Kerry, ha incontrato i rispettivi rappresentanti delle due parti, Tzipi Livni per Israele e Saeb Kerat per i palestinesi, in un clima definito positivo e costruttivo, rimandando il prossimo incontro entro due settimane in territorio israeliano o palestinese. Il requisito fondamentale sul quale si deve basare la trattativa, è per gli americani, la creazione dei due stati indipendenti, soluzione a grandi linee appoggiata anche dai palestinesi, mentre per gli israeliani occorre fare qualche distinzione. Se i settori della società di Israele più progressisti sono pienamente a favore di questa soluzione, i dubbi più forti, malgrado le dichiarazioni della Livni, riguardano il governo di Tel Aviv, che non appare coeso sulla creazione di uno stato palestinese. Occorre ricordare che i punti fermi per i palestinesi per la creazione del proprio stato sono l’unione geografica, in modo da creare la continuità territoriale, tra Cisgiordania e Gaza e la restituzione dei territori indebitamente presi dagli israeliani per la costruzione delle colonie. All’interno del governo di Israele c’è, però, un partito che è stato fondato proprio per la difesa degli insediamenti ed inoltre alcuni esponenti dell’esecutivo riterrebbero addirittura superata la soluzione dei due stati all’interno dello stesso territorio. La presenza di queste posizioni, ampiamente conosciuta dagli USA, renderebbe, evidentemente, più difficile e meno lineare la trattativa, soprattutto nei tempi indicati e preferiti da Washington, che ha necessità, per ragioni di politica internazionale legati agli sviluppi mediorientali, a chiudere più in fretta possibile e trovare quindi un accordo che assicuri stabilità alla regione. Un fattore ulteriore di possibile turbativa è il comportamento delle parti più estreme delle due parti, che possono compiere azioni di provocazione per minare sul nascere il fragile equilibrio sul quale si basa l’avvio delle trattative. Il pericolo è concreto perché esistono settori politici, sia in Israele, che in Palestina, contrari ad ogni accordo con la parte avversa, in nome di una battaglia da portare avanti per annientare l’avversario. Non si tratta della maggioranza ne dell’una, ne dell’altra parte, tuttavia esistono movimenti fortemente motivati in entrambi gli schieramenti, che non gradiscono la convivenza dei due popoli. Il primo passo per avviare in modo sicuro e positivo le trattative è isolare queste parti minoritarie, ma che detengono una grande capacità di azione e mobilitazione, in grado di influenzare negativamente il processo di pace appena iniziato.
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