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Politica Internazionale
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giovedì 5 settembre 2013
Con la Siria ritorna la guerra fredda
Il G 20 che si sta per inaugurare parte sotto il segno di una rinnovata guerra fredda. Non siamo ad una riedizione dell’equilibrio del terrore, ma, piuttosto, di fronte ad una schermaglia diplomatica che può, però, avere sviluppi pericolosi, non tanto sulla pace del mondo, anche se obiettivamente la regione medio orientale sta correndo seri rischi sotto questo punto di vista, quanto sull’evoluzione verso uno stato di instabilità generale, che può avere seri riflessi sull’economia e sugli equilibri geopolitici. Putin è conscio che la Russia è inferiore agli Stati Uniti e non può oggettivamente impedire con la forza un attacco militare contro la Siria, ma è, altresì al corrente che Washington è obbligata a questo passo, pena la propria credibilità internazionale, in uno stato di quasi totale isolamento. Dal lato del diritto internazionale, Mosca si fa forte della legislazione delle Nazioni Unite, che permette un atto bellico soltanto per difesa o autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, di cui, peraltro la Russia è uno dei cinque stati che può esercitare il diritto di veto. Con le recenti dichiarazioni di Putin, che si è detto pronto a sanzionare la Siria, se verrà accertato l’uso di armi chimiche, la Russia si è collocata in una posizione di legittimità, che non è contestabile e che gli permette di guadagnare tempo. Anche se Mosca fosse di questo avviso da sola, sarebbe comunque in una posizione di forza politica, che le consentirebbe un vantaggio diplomatico sugli USA. Ma nella comunità internazionale, sebbene per motivi diversi, la maggioranza dei membri condivide l’idea che il regime di Damasco, ancorché sicuramente sanguinario, debba essere colpito soltanto attraverso l’autorizzazione dell’ONU. Questa posizione è condivisa anche dagli altri paesi dei BRICS, da paesi appartenenti alla NATO e quindi alleati degli USA, tra cui, Germania ed Italia, dalla Gran Bretagna, il cui parlamento ha costretto ad un poco onorevole ritiro dalla contesa il proprio premier Cameron e, naturalmente, dagli avversari degli americani, come gli iraniani; inoltre sulla stessa linea si attesta il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, che non può certo sminuire il ruolo dell’organizzazione a cui appartiene. Come si vede è una platea piuttosto vasta, che favorisce il ruolo che ha deciso di giocare Putin e la Russia, nella partita. Anche chi è al fianco degli Stati Uniti, per varie ragioni, non consente a Washington quella sponda politica pienamente convinta, che possa assicurare un sostegno in grado di oltrepassare la netta impressione dell’isolamento internazionale. La Francia è alle prese con la scarsa convinzione del suo corpo elettorale, conscio che il paese non ha i mezzi per sostenere una azione di tale portata, la Lega Araba, che potrebbe costituire un valido sostegno, appare tutt’altro che unita, perché attraversata da dissidi interni, la Turchia è troppo impegnata a recuperare il terreno perduto nell’arena internazionale e le sue ragioni appaiono poco lucide, resta forse l’Australia, ma il paese dei canguri, con tutto il rispetto, costituisce poca cosa per contro bilanciare le nazioni sfavorevoli. Questo scenario favorisce, quindi, chi vuole giocare, seppure da leader, in difesa, aspettando la mossa dell’avversario. Ed è proprio quello che sta interpretando la Russia, che nel suo progetto di rientrare di nuovo tra le potenze mondiali, sceglie nell’occasione della guerra siriana un approccio morbido, basato sull’attesa e sull’orientamento generale del panorama internazionale. Con queste premesse appare chiaro che chi ha tutto da perdere sono soltanto gli Stati Uniti: se Washington non mette in pratica le minacce, la sua credibilità internazionale, già molto provata, scende sicuramente, provocando una calo di influenza che può riverberarsi in altre situazioni mondiali, se, invece, gli USA attaccano la Siria, ma non danno il colpo di grazia al regime, la percezione degli Stati Uniti sarà comunque quella di un paese che ha ridotto la sua capacità militare, anche se Obama afferma che l’attacco non ha l’intenzione di rovesciare Assad, ma soltanto di punirlo; esiste, poi, la terza possibilità che consiste in un successo di portata tale da raggiungere il risultato di abbattere la dittatura di Damasco, in questo caso entrano in gioco le conseguenze di tale caduta, dovuta alla composizione delle forze ribelli, costituita da una mescolanza di movimenti ad indirizzo laico con altri ad indirizzo confessionale, i quali, a loro volta, si dividono in moderati e radicali. Ogni sbocco possibile, tranne forse l’insediamento di forze soltanto democratiche, se ciò si potrà verificare, mette gli Stati Uniti in una posizione molto scomoda di fronte al mondo, in conseguenza di cui sarà molto facile muovere ogni sorta di critiche a Washington. Resta però l’aspetto umanitario, che è l’unico su cui può fare leva la Casa Bianca, anche se al momento è stato scartato a favore della non ingerenza, assoluta novità nella politica estera americana. Obama può salvarsi da conseguenze negative soltanto se fa leva sulla volontà di fermare i massacri e la violenza, ma per fare ciò deve intensificare l’azione diplomatica in prima persona, come finora non è stato ancora fatto. Significa coinvolgere tutti i soggetti possibili, anche quelli sgraditi, in estenuanti trattative, convincere paesi arabi, estranei alla contesa, ad impegnare i propri eserciti nella qualità di forze di interposizione tra le parti ed, infine, trovare soluzioni di compromesso che possano non scontentare alcuna parte in causa. Solo così la credibilità americana può riguadagnare terreno e mettere la Russia in una posizione di secondo piano, mettendo fine al simulacro di guerra fredda che pare ricominciata.
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