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martedì 3 settembre 2013
La religione nel conflitto siriano
Una delle motivazioni maggiori che hanno concorso ha causare la guerra in Siria è l’accresciuta rivalità religiosa tra i componenti delle due principali correnti dell’Islam: sciti e sunniti. Questi contrasti profondi si riflettono nel mondo arabo ed anche oltre, ed impediscono alla Lega Araba di interpretare un ruolo unitario che possa portare ad una risoluzione diplomatica condivisa della crisi. Il tutto è aggravato dalla posizione geografica del paese siriano, contiguo ad Israele, che costituisce una fonte di minaccia, che Assad, paventando l’allargamento a tutto il medio oriente del conflitto, usa come deterrente contro gli Stati Uniti. La minoranza alawita, che come credo religioso deriva dagli sciti, mantiene il potere in Siria ed ha proprio nel paese iraniano, una teocrazia dove gli sciti sono il 90% della popolazione, il suo maggiore alleato, supportato dal gruppo radicale Hezbollah, al potere in Libano, anch’esso composto da sciti. Negli sciti, che pure hanno punte di radicalismo estremo, non vi pare essere, per quanto riguarda la questione siriana, contatti con Al Qaeda, che, anzi, si schiera contro il regime di Assad a fianco dei sunniti. L’Iran è pienamente coinvolto nella guerra siriana fin dagli inizi, con propri combattenti che hanno affiancato le truppe regolari; per Teheran la Siria è imprescindibile, sia per legami culturali, che ragioni geopolitiche, giacché rappresenta il territorio contiguo ad Israele, ciò significa avere una strada aperta verso il nemico storico ed, allo stesso tempo un territorio di sicurezza che separa il paese iraniano da qualsiasi azione che Tel Aviv voglia intentare contro la nazione iraniana. La situazione dell’Iraq, che dalla caduta di Saddam è governato dagli sciti, maggioranza nel paese, appare più complessa per l’avversione della parte sunnita, discriminata dai gruppi che detengono il potere. I numerosi attentati che stanno martoriando il paese, che finora ha evitato una guerra civile, testimoniano come la pace sociale all’interno dello stato sia ancora lontana da raggiungere. Nei confronti della guerra siriana gli schieramenti religiosi corrispondono agli schemi generali: gli sciti stanno con Assad ed i sunniti con l’opposizione. Dall’Iraq sono partiti combattenti che sono andati ad ingrossare le parti opposte nel conflitto. Sul fronte sunnita si collocano Turchia, Arabia Saudita e Qatar. I primi due stati si sono detti da subito favorevoli ad un intervento armato, sostenendo gli Stati Uniti, in realtà hanno già fornito aiuti consistenti, in collaborazione con il Qatar agli insorti siriani. L’orientamento di questi stati è di annientare il regime di Damasco, per eliminare l’influenza scita sul paese, in maniera da costringere l’Iran ad un isolamento politico e religioso. Le differenze di vedute sul futuro dello stato siriano sono marcate con la Turchia ed il Qatar, che spingono per un insediamento religioso, che possa favorire al potere movimenti tipo i Fratelli Musulmani, di cui sono grandi sostenitori in Egitto, mentre l’Arabia Saudita non vuole queste formazioni troppo permeate di influenze religiose, perché teme una contaminazione entro il suo territorio. Il problema dei sunniti è che tra le fila dei combattenti che hanno inviato in Siria ad affiancare gli insorti, sono presenti elementi permeati da forte radicalismo, provenienti anche da Afghanistan e Pakistan, spesso in stretto contatto, se non appartenenti di fatto di Al Qaeda, che lottano nella speranza di creare nella Siria un califfato destinato a diventare una base dell’islamismo più radicale, dove la politica si identifichi con le idee del gruppo terrorista. Se numericamente questi combattenti sono una minoranza, è altrettanto vero che hanno una determinazione che sconfina con il fanatismo ed una preparazione militare qualificata, proprio perché, spesso, maturata nelle valli al confine tra Afghanistan e Pakistan, quei territori capaci di tenere in scacco anche le forze armate sovietiche, prima, ed americane, poi. Queste presenze mettono in secondo piano gli oppositori originari, gli autoctoni che hanno iniziato la ribellione sperando di insediare una forma di democrazia al posto della dittatura di Assad. Forse l’errore occidentale maggiore è stato quello di non capire le istanze originarie ed appoggiarle in maniera convinta, mossa che avrebbe potuto arginare la deriva religiosa che ha preso il conflitto, anche se le ostilità tra sciti e sunniti erano già presenti prima dell’inizio del conflitto. Questo quadro della situazione, caratterizzato da una profonda differenza religiosa, pur nell’ambito della stessa confessione, rappresenta il maggiore ostacolo per gestire la crisi, sia dall’interno, che dall’esterno. Risulta infatti difficile credere che si possibile conciliare una avversione così profonda, causata da motivi religiosi, con la sola pratica della diplomazia, tuttavia anche una vittoria determinata dalla armi, darebbe luogo ad una repressione, in entrambi i sensi, che scatenerebbe ulteriori episodi di violenza, impedendo una qualsiasi possibile stabilizzazione tale da portare il paese all’equilibrio. I negoziatori internazionali dovrebbero prendere in esame anche l’eventualità di un paese siriano smembrato, per permettere una pacificazione, su cui lavorare per una eventuale riunificazione. Dividere in tre parti il paese, una sunnita, una scita ed una curda potrebbe avere il risultato di fare sedimentare il conflitto e fermare lo spargimento di sangue. Non si tratta, però, di una soluzione facilmente praticabile, perché costringerebbe Assad a rinunciare alla sovranità di una parte del paese, mentre le potenze confinanti con la zona curda temerebbero la nascita di uno stato curdo, in grado di intraprendere la direzione della creazione del Kurdistan. Problematico è anche il necessario dialogo tra le autorità religiose scite e sunnite, che stanno giocando un ruolo importante, seppure celato dalla posizione di retrovia, senza un accordo tra i religiosi, anche con una eventuale fine della guerra, il conflitto resterà latente, senza soluzione effettiva.
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