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martedì 31 dicembre 2013
Kerry vuole arrivare ad un accordo di pace definitivo tra Israele e Palestina
Il prossimo viaggio in Israele del Segretario di stato USA, John Kerry, avrà lo scopo di presentare le linee guida della proposta di Washington per la conclusione del processo di pace in medio oriente. Negli incontri previsti con Netanyahu e Abbas dovranno essere affrontate tutte le questioni più difficili, che rappresentano gli ostacoli all’accordo tra israeliani e palestinesi. Kerry spera di rispettare i tempi prefissati dalla Casa Bianca per concludere lo storico negoziato, che dovrebbe quindi essere firmato ad Aprile o Maggio 2014. In realtà tale data pare ancora lontana, non si sono visti i progressi attesi e, nonostante il grande impegno americano, la fine della trattativa non pare essere ancora in vista. Senza una accelerazione, che allo stato dei fatti sembra essere assente, l’obiettivo americano sarà difficilmente raggiunto. Non bastano certo allo scopo le liberazioni dei prigionieri palestinesi, che Israele rilascia più che altro per giustificare preventivamente l’incremento della sottrazione di territori della Cisgiordania. Infatti è questo il punto essenziale che rappresenta l’ostacolo maggiore al negoziato, il rifiuto del rispetto degli accordi sui rispettivi confini, costantemente violato dallo stato israeliano. Per Israele, alle prese con una crisi economica considerevole che si intreccia con una altrettanto grave crisi degli alloggi, reperire sempre nuovo terreno per gli insediamenti è diventato una priorità di politica interna, giustificata dalle spinte nazionaliste e da quelle religiose. Non a caso nella compagine di governo siedono proprio rappresentanti politici di partiti espressione di questi indirizzi. Tuttavia la mancanza maggiore risulta essere quella americana: Washington si è impegnata a fondo nella vicenda per onorare il programma di politica estera di Obama, ma lo ha fatto, finora, soltanto a parole; senza sanzionare, cioè, Tel Aviv nella sua politica espansionista. Il governo di Netanyahu ha approfittato costantemente di questo lassismo USA ed ha usato la tattica di rimandare i colloqui di pace con il chiaro intento di fare avanzare lo stato israeliano sul territorio palestinese, sottraendo costantemente terreno. Se i palestinesi, fiaccati anche loro da una crisi economica in parte imputabile proprio al comportamento di Israele, sono rimasti finora fermi di fronte alla sfrontatezza di Tel Aviv, questo non ha significato accettare passivamente le imposizioni che Washington e Tel Aviv avevano intenzione di applicare: prima fra tutte il mantenimento della presenza delle forze armate israeliane sul suolo del futuro stato sovrano di Palestina. Tuttavia,oltre ad un fermo rifiuto, che implica il fallimento dei piani americani, Abbas non è potuto andare, perché la Cisgiordania non è protetta da alcuna forza internazionale che possa scoraggiare l’avanzata delle colonie. L’atteggiamento palestinese appare senz’altro maggiormente responsabile perché non risponde alle provocazioni, ma senza una opera di convincimento su Israele, che può avvenire soltanto dagli Stati Uniti, il negoziato resta sostanzialmente fermo. Resta da vedere se Kerry saprà produrre degli argomenti convincenti per entrambe le parti, che sappiano giustificare l’ottimismo americano, che nell’attuale stato delle cose pare soltanto di facciata. Senza comunque una risoluzione della questione delle colonie la trattativa rimarrà ferma e per Obama si tratterà di una ulteriore figura non certo bella in campo internazionale.
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