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venerdì 24 aprile 2015

L'Arabia riprende l'attività militare nello Yemen

Nonostante le dichiarazioni dei sauditi, le incursioni aeree sono riprese nello Yemen, con l’obiettivo di colpire un campo militare nella zona sud occidentale del paese. La base militare colpita sembra che appartenesse ad unità vicine ai ribelli houti. Questa ripresa dei bombardamenti, che ha contraddetto l’annuncio della fine dei bombardamenti aerei, può significare due eventualità nella strategia saudita. Da una parte potrebbe essersi trattato di una dichiarazione avventata, che non ha tenuto conto della forza che gli houti possono ancora disporre, d’altro canto la capitale Sanaa è ancora in mano ai ribelli sciiti. Ciò potrebbe essere in conseguenza di errate valutazioni, che non hanno tenuto conto della disponibilità militare dei ribelli e della loro capacità di trovare alleati anche dentro le forze governative. Viceversa , i nuovi bombardamenti della coalizione guidata dai sauditi potrebbe essere una  tattica per fare allentare la guardia a nemici di cui si è compreso a fondo la pericolosità e la forza a disposizione. Gli scontri si sono verificati anche sul terreno, nella città di Aden dove gli houti hanno combattuto contro i sostenitori del presidente in esilio in Arabia Saudita.  La situazione torna, quindi , ad essere grave, dopo che, con l’annuncio della sospensione dei bombardamenti si sperava di trovare una soluzione, che permettesse, almeno, di aprire una fase di negoziati per fermare un conflitto che ha già provocato, secondo i dati presentati dall’Organizzazione mondiale della Sanità, più di 1.000 morti in un mese di combattimenti.  La mancata interruzione del conflitto riporta lo Yemen al centro della scena internazionale e riapre la possibilità di un confronto tra Arabia Saudita ed Iran per la supremazia regionale ed entro la religione islamica, se Riyadh ha continuato con l’azione militare significa che la sensazione prevalente all’interno del regno saudita è quella di sentirsi minacciato ancora dalla possibile instabilità che un passaggio di potere nello stato yemenita potrebbe provocare a livello regionale. Tuttavia il rischio è quello di fare coincidere la questione politica con quella religiosa: la matrice sciita dei ribelli houti potrebbe provocare una reazione iraniana, innescando scenari pericolosi ben oltre l’ambito della regione. All’appello mancano le reazioni degli Stati Uniti, preoccupati dall’influsso che i combattimenti possono dare al chiusura del negoziato per il nucleare iraniano, previsti per la fine di Giugno, dopo che il trattato preliminare di Losanna si è chiuso in maniera positiva. Interpretazione, però, non condivisa dai sauditi e dagli altri stati sunniti, che hanno trovato una intesa in maniera veloce per combattere i ribelli houti.  In tutto questo scenario l’Arabia Saudita non è riuscita a coinvolgere in modo completo il Pakistan, che è l’unico stato musulmano sunnita ad essere una potenza atomica. Il particolare non è irrilevante: se Islamabad dovesse schierarsi apertamente contro i ribelli sciiti, avrebbe un impatto psicologico sul conflitto che potrebbe essere enorme, anche per le reazioni che potrebbe innescare.  Non è escluso che dietro la cautela pachistana possano esserci proprio gli Stati Uniti, che nell’eventualità opposta potrebbero essere messi molto in difficoltà a gestire la situazione. Per il momento Washington ha mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti della situazione yemenita, ribadendo soltanto con sicurezza il suo appoggio alla lotta contro Al Qaeda. Riguardo alle azioni militari contro gli houti, dopo un momento di appoggio è subentrato un maggiore distacco, che non può non segnalare come la Casa Bianca intenda mantenere una certa distanza tra Riyadh e Teheran. Le ragioni americane riguardano anche l’apporto fondamentale che gli iraniani stanno fornendo alla lotta contro lo Stato islamico, condotta sul terreno dai militari di Teheran. Un fattore che i sauditi, malgrado le parole di condanna al califfato, non hanno ancora fornito. Nonostante, infatti, la pericolosità dello Stato islamico anche per l’Arabia Saudita, che ha schierato un gran numero di truppe sul confine irakeno, non vi è stato alcun impegno pratico contro i fondamentalisti sunniti. L’impressione, che vale anche per la Turchia, è che gli stati sunniti, salvo alcune eccezioni, non vogliano impegnarsi in prima persona, contro i combattenti del califfato, per non perdere un alleato occulto nella conquista della Siria e per non innescare una guerra tra appartenenti alla stessa religione, difficile da giustificare ai seguaci sunniti. D’altro canto gli unici sunniti che fino ad ora hanno usato le armi contro il califfato sono stati gli egiziani, che hanno al governo una giunta militare. La situazione yemenita, quindi,  potrebbe avere ripercussioni molto pesanti in tutto lo scacchiere arabo e mediorientale, con gli USA in attesa di sviluppi.

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