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giovedì 10 ottobre 2019

Le nuove rivolte ripetizione delle primavere arabe?

Le manifestazioni contro i governi che si stanno effettuando in medioriente e nord Africa possono fare pensare ad una sorta di riedizione delle primavere arabe. Ciò che ha contraddistinto le rivolte iniziate nel 2011 era una situazione economica difficile, unita alla volontà di manifestare contro regimi non democratici; sopratutto questo secondo fattore ha indotto, specialmente nelle democrazie occidentali, ma non solo, a credere che fossero pronte classi dirigenti orientate a queste forme di stato, classi dirigenti prodotte dall’insieme degli strati sociali presenti nei paesi coinvolti nelle proteste. Così non è stato: quello che è seguito alle primavere arabe non ha stabilizzato le economie, rimaste nelle medesime difficoltà, ma, sopratutto, non ha creato le condizioni per un passaggio a stati dove la democrazia diventava lo strumento condiviso per la gestione del potere statale. Dei riti democratici è soltanto sopravvissuto e solo in una prima fase, il passaggio elettorale, spesso disatteso o che ha destinato al potere forze anti democratiche, che hanno provocato colpi si stato, anche militari. Tranne il caso tunisino, tutte le primavere arabe hanno disatteso le aspettative occidentali e non hanno creato le condizioni per un miglioramento della vita delle popolazioni coinvolte. Le rivolte attuali sembrano nascere per le medesime ragioni di quelle di otto anni prima: grave condizione dell’economia, elevata corruzione e metodi di governo profondamente anti liberali. I gruppi che partecipano a queste manifestazioni sono contraddistinti da un minore impegno politico classico, inteso come partecipazione o appartenenza a forme di partito, ma risultano apolitici e contraddistinti da forme di populismo condizionato da elementi religiosi, quindi influenzato dalla religione islamica, più spesso di matrice sunnita. Il fattore religioso era stato fondamentale nel 2011, perchè nelle società attraversate dalle proteste, spesso era vietata qualsiasi forma di associazione ed i gruppi religiosi, anche fuori legge, avevano riempito questo vuoto sociale con un impegno diretto, sopratutto verso gli stati sociali più disagiati. Ancora adesso l’importanza della religione rimane l’aspetto più rilevante, ma deve essere inteso come flusso di pensiero con il maggiore peso specifico, rispetto ad eventuali, quando ci sono, partiti politici, anch’essi sempre meno importanti a favore dei movimenti, come accade spesso anche in Europa. Tuttavia la sensibilità delle popolazioni mediorientali e nordafricane verso la democrazia non è stata favorita, né da un processo storico lungo, né ha potuto crescere in questi pochi anni a causa di repressioni massicce. Queste rivolte sono guardate con distacco dai paesi occidentali, che cercano di sfruttare situazioni contingenti a loro vantaggio, più che offrire sostegno, perchè ricordano gli effetti nefasti dei loro interventi degli anni precedenti (si veda l’esempio libico). Bisogna anche riconoscere che, seppure sia di un altro tipo, il populismo ha già dimostrato notevoli capacità di avanzamento nelle democrazie occidentali, portando instabilità e minore certezza del processo democratico nei luoghi dove queste prassi erano ormai assodate. Questo fattore, sommato alla delusione delle aspettative di undici anni fa, ha generato un distacco che ha creato un vuoto culturale e politico nei paesi dove le manifestazioni sono più frequenti. Questa assenza può essere riempita, oltre che dalla religione islamica, anche da agenti esterni dove la democrazia è assente ed hanno grandi disponibilità finanziarie. E’ una certezza che la Cina e la Russia, mantengano rapporti sia con i dittatori che con i rivoltosi, grazie ad una maggiore adattabilità politica con regimi non certo democratici. Se ciò è scontato per i rapporti con i governi non democratici, spesso questa capacità è esercitata anche con i movimenti protagonisti delle rivolte, o parte di essi, proprio grazie alla grande elasticità che permette il fatto di essere dei regimi non democratici. Certamente ciò è fatto in maniera funzionale ai propri interessi e quasi sempre pensando a ritorni economici. Questo però pone un grande dilemma per l’occidente: se gli USA hanno inaugurato una politica di ritiro entro i propri confini, l’Europa non si è dimostrata pronta a sostituirli, colta di sorpresa dall’arrivo inatteso di Trump. Per Cina e Russia, ma anche per Iran o Turchia, riuscira ad influenzare i paesi meno stabili appare molto più facile di un tempo e ciò può significare soltanto un allontanamento dell’allargamento dell’ideale democratico, sempre più confinato nel recinto dei paesi ricchi.       

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