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mercoledì 28 ottobre 2020

La situazione del Nagorno Karabakh resta incerta

 

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Le ostilità, ma sarebbe più appropriato definirle guerra, nel Nagorno Karabakh sono iniziate da un mese e la triste contabilità delle vittime è tutt’altro che precisa, il numero reale e preciso dei morti non è conosciuto dai due contendenti, esiste la stima di Putin, che ha parlato di circa 5.000 vittime; gli armeni hanno aggiunto circa 1.000 caduti tra i propri combattenti e 40 civili, mentre l’Azerbaigian non ammette deceduti tra le proprie forze armate ma 60 civili morti a causa dei missili armeni. Politicamente sia l’Armenia, che l’Azerbaigian rimangono sulle rispettive posizioni, fattore che denuncia come il conflitto possa diventare una logorante guerra di posizione. Fino ad ora il confronto in Nagorno Karabakh era definito come un conflitto a bassa intensità, caratterizzato da una continua ostilità tra le parti, senza sviluppi diplomatici ma con scontri sporadici; nell’opinione pubblica internazionale non era visto come un focolaio potenzialmente più pericoloso, non si prevedeva, cioè, il passaggio a scontri continuativi e su più larga scala. Questa opinione era dovuta alla stasi internazionale sul confronto e non era previsto l’ingresso di alcun attore esterno in grado di fare salire il livello dello scontro. La situazione è mutata con la volontà turca di ristabilire la situazione antecedente al crollo dell’impero sovietico in favore degli azeri. Il sospetto che nel piano di Erdogan ci sia una sorta di parallelismo della situazione curda con quella degli armeni, che storicamente restano nemici di Ankara; ma se per i curdi sulla frontiera siriana si tratta, nell’ottica turca, di una minaccia perché in grado di risvegliare il senso di appartenenza dei cittadini turchi di etnia curdi, per l’Armenia sembra trattarsi più di un simbolo per ingraziarsi una opinione pubblica interna particolarmente sensibile alla politica ottomana del presidente turco, una causa che serve anche a distrarre i turchi dai gravi problemi economici del loro paese. L’Azerbaigian non vuole desistere dal proposito di riconquistare il territorio che reputa di propria appartenenza, ma l’Armenia non è disposta ad arretrare perché vede in una sua sconfitta il ritorno del pericolo del genocidio turco. La sensazione degli analisti è che, malgrado gli sforzi di Ankara, che hanno portato un vantaggio incontestabile agli azeri, questo sia un conflitto che nessuno possa vincere. Ciò, se possibile, aggrava la situazione delle zone di guerra, perché le potenze internazionali non pare abbiano intenzione di impegnarsi in una azione diplomatica che non presenta grandi possibilità di soluzione. Uno sviluppo che non giova neppure alle ambizioni turche, Ankara è impegnata già sia sul fronte libico e quello siriano e per un impegno prolungato anche nel Nagorno Karabakh non sembra essere sufficientemente attrezzata; se questa valutazione riguarda l’aspetto sia economico che militare, sul piano politico la conseguenza per la Turchia è un maggiore isolamento con l’aumento dei propri avversari. Nonostante questa situazione ci sono stati sforzi per il cessate il fuoco, il problema è che questa misura viene costantemente violata con accuse reciproche sulle responsabilità della ripresa dell’uso delle armi. Ci sarebbe il Gruppo di Minsk, struttura della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che dovrebbe, come compito istituzionale, trovare una via pacifica alla soluzione del Nagorno Karabakh, fin dalla sua fondazione del 1992. La guida del gruppo è composta da una presidenza a tre, espressa da Francia, USA e Russia; questa istituzione svolge un ruolo da mediatore tra le due parti e non possiede i poteri per interrompere il conflitto, inoltre per gli Azeri la Francia dovrebbe essere sostituita dalla Turchia, mentre per gli armeni dovrebbe essere compreso tra i membri dei negoziati anche un rappresentante del Nagorno Karabakh, che, però, non è riconosciuto a livello internazionale. Per queste ragioni il gruppo di Minsk pare una istituzione superata, se non altro per non avere evitato il conflitto, meglio sarebbe una pressione a livello singolo da parte degli USA, ed anche dell’Unione Europea, sulla Turchia per fermare la situazione attuale con l’intervento dei caschi blu ad assicurare la tregua. Dopo dare il via a negoziati in grado di definire una volta per tutte il problema; certo con la pandemia in corso e le imminenti elezioni americane questo auspicio pare difficile, tuttavia uscire dall’attuale situazione è necessario per evitare potenziali ricadute negative sull’intera regione. 

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