Politica Internazionale

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giovedì 3 febbraio 2011

Nel 2030 gli islamici maggioranza del pianeta

Il Pew Research Center, istituto di ricerca statunitense ha condotto una ricerca sull'espansione della religione mussulmana entro il 2030. Nei prossimi vent'anni viene stimato che la crescita della popolazione di religione islamica crescerà a passo doppio rispetto al resto del mondo. Il rapporto di crescita previsto medio è di 1,5 islamici contro 0,7 non islamici. Il paese con maggiore crescita sarà il Pakistan che sorpasserà l'Indonesia come nazione con più islamici del mondo. Le ragioni di questo aumento su scala mondiale si individuano nella maggiore natalità, nella crescita di aspettativa di vita e nelle migliori condizioni economiche dei paesi ad orientamento mussulmano. Per l'Europa è prevista una crescita più contenuta e nessuna nazione dovrebbe essere a maggioranza mussulmana. La religione cattolica sarà, secondo questa previsione, al secondo posto per numero di fedeli. Può portare problemi questa espansione religiosa? Occorrerebbe disporre di dati più precisi sul peso specifico delle varie tendenze all'interno di questa crescita costante, è chiaro che se un paese come il Pakistan non migliora dal punto di vista democratico e non risolve il problema delle basi talebane sul suo territorio, una crescita islamica non può non andare nella direzione di tendenze integraliste. In altre parole alle condizioni attuali la crescita religiosa che avviene in una nazione dove le madrasse orientano il credo o dove comandano gli ayatollah non può non andare in una direzione tutt'altro che moderata, con conseguenze facilmente immaginabili. Purtroppo la tendenza degli ultimi anni dell'integralismo islamico, pur non essendo la maggioranza numerica, è stata quella di costituire il nucleo più motivato dell'azione contro gli stessi moderati e l'occidente, diventando una riserva di uomini e di idee cui attingere per fini tutt'altro che pacifici. E' chiaro che non si deve intraprendere alcuna lotta di natura religiosa o peggio di cultura, tuttavia occorrerebbe prendere alcune contromisure, di natura pacifica e libertaria, per impedire che questo sviluppo vada incanalato verso le zone grigie dell'estremismo. Diventa così vitale sviluppare il dialogo e la cooperazione culturale, politica ed economica con le parti più moderate dell'islam a partire dalle nazioni fino alle associazioni più radicate sui territori. Si tratterebbe di un investimento per la pace futura che deve passare per lo sviluppo economico che deve favorire la prosperità delle nazioni, nel benessere è più difficile reclutare un martire di Allah, ed incentivare un dialogo che faccia comprendere le ragioni di tutte le parti in gioco arrivando ad una sintesi che scarti ogni opzione armata.

Panarabismo: prospettive e realtà

Le rivolte di popolo della sponda sud ripropongono la questione del panarabismo sebbene in una nuova ottica. Il movimento panarabo originale si proponeva una sorta di unione tra gli stati arabofoni in chiave laica da contrapporre al comunitarismo islamico di matrice ottomana. Il movimento, in realtà non ha mai avuto troppo fortuna per le divisioni di base religiosa che hanno contraddistinto l'universo mussulmano, troppo profondo il solco tra gli sciti ed i sunniti per trovare un punto d'incontro. Maggiore successo ha avuto presso i sunniti propugnatori di una unionealmeno culturale del popolo arabo. Nel corso della storia il panarabismo è stato usato anche come bandiera contro il colonialismo europeo. I recenti fatti dei paesi costieri del mediterraneo del sud hanno sollecitato la riflessione di alcuni osservatori inquadrando i fatti come un possibile risveglio del movimento panarabo, sebben su scala più ridotta. In effetti ci sono caratteri comuni nelle rivolte di Algeria, Tunisia, Egitto e in parte minore di Giordania e Siria che possono ricondurre agli elementi degli albori del movimento panarabo. La mancanza di connotazione religiosa, se non in parte marginale, il moto popolare esogeno dal proprio paese, la problematica economica, sono tratti comuni che però non bastano a connotare in senso di panarabismo le rivolte di questi giorni. Un tratto comune può essere identificato sulla base territoriale, anche se manca la continuità per la presenza della Libia, dove la natura più ferrea delle dittatura ha impedito, almeno per ora, una sollevazione popolare. La mancanza più importante è però un movimento su base sovranazionale che possa organizzare la protesta in senso comune, non dovrebbe intendersi come prospettiva di stato unitario perchè le differenze tra i popoli sono tali da precludere questa soluzione, ma potrebbe essere intesa come alleanza economica ed in futuro politica. Ma sono congetture troppo avanti per la fase attuale, la transizione dei regimi oggetto di rivolta, non solo non è ancora avvenuta, ma non è detto se avverrà e con che modalità ed in quali tempi; per il momento il movimento panarabo è solo unìesercitazione sulla carta.

mercoledì 2 febbraio 2011

Sponda sud del Mediterraneo, Iran ed Israele

Sia Washington che Teheran hanno reagito allo stesso modo ai moti di piazza di Tunisi e del Cairo; in sostanza hanno appoggiato entrambi il popolo insorto per non essere associati ai vecchi regimi. Ma le similitudini terminano qui, la strategia Iraniana cerca di favorire l'ascesa al potere della parte più integralista dei mussulmani. Poco importa che a Tunisi la rivolta non sia stata caratterizzata da esponenti religiosi e a Il Cairo il partito dei Fratelli Mussulmani ha ammesso di essere solo una parte delle componenti della totalità delle manifestazioni. Nonostante questo il vero interesse di Teheran è di circondare Israele con un cordone di stati islamici e mettere in seria difficoltà il processo di pace, se non di scatenare una guerra su base regionale. Il sogno iraniano è che si ripeta quello avvenuto sul suo territorio, dove un dittatore, lo Scià di Persia, è stato abbattuto e sostituito da una repubblica teocratica, peggiorando alla fine le condizioni del popolo. Ahmadinejad non ha nulla da perdere perseguendo questa strategia, anche se non ci fosse la presa del potere da parte degli integralisti avrà comunque guadagnato a costo zero, grande credito in termini di immagine presso le flangie più oltranziste della religione mussulmana e presso i gruppi estremisti. Per Israele la soluzione è di accelerare il più possibile il processo di pace con la Palestina, il tempo stringe e non è il momento di indugiare ancora. L'attualità quotidiana dei fatti nella sponda sud del Mediterraneo ha distolto l'attenzione dal processo di pace per la Palestina, la speranza è che i due argomenti non abbiano incroci pericolosi per la pace mondiale.

Mediterraneo del sud: autodeterminazione e politica internazionale

La situazione nella sponda sud del Mediterraneo offre un notevole strumento di analisi politica non solo internazionale. Ci sono diversi ingredienti che meritano una attenta valutazione già come eventi singoli, ma ancor più spunti offrono se guardati nel quadro d'insieme. Queste rivolte che paiono nascere spontanee, ed in parte sicuramente lo sono, a causa, in prima battuta della situazione economica che va a legarsi in seconda battuta sul tema dei diritti negati, devono focalizzare il tema dell'autodeterminazione dei popoli. E' una banalità dire che non siamo nell'800 europeo quando ad esempio nacque l'Italia e non siamo neanche di fronte alla disgregazione dell'impero ottomano o di quello austro-ungarico con la conseguente nascita degli stati mitteleuropei. Quella situazione storica, che in quel particolare momento era di grande movimento sia culturale che sociale non si può certo paragonare all'era globalizzata nella quale viviamo. Inoltre siamo in stati già territorialmente definiti, quindi manca l'elemento della ricongiunzione con porzioni territoriali sotto ad altri ordinamenti e manca anche la lotta di liberazione da invasori stranieri, fase già vissuta anche in epoca recente, da tutti gli stati protagonisti dei sommovimenti attuali. Ci troviamo di fronte a rivoluzioni che appaiono esogene di popoli intenti a cercare una via alternativa a quella che stavano percorrendo, stanno cercando, cioè, di autodeterminare il proprio destino. La fase è molto delicata perchè più è prolungata più vi sono possibilità che organizzazioni non orientate alla soluzione democratica vadano a riempire il vuoto creato, andando, di fatto a peggiorare la situazione precedente (il caso Iraniano è eloquente e si caratterizza per molte similitudini con i casi attuali). Naturalmente non ci si muove in condizioni asettiche, di laboratorio, ogni paese non è isolato dal contesto internazionale e quindi sono da valutare le ripercussioni che questa autodeterminazione va a creare. Quello che si sta modificando è uno status quo, anche a livelllo di relazioni tra stati, frutto dell'incrocio di molteplici variabili: politiche, economiche e sociali. La domanda è questa: si può pensare che possano essere lasciati sgombri i campi di intervento da parte di attori esteri? No, non è possibile, per le implicazioni economiche (la presenza di gasdottti ed oleodotti o anche la presenza di giacimenti culturali patrimonio dell'umanità), politiche (occorre evitare l'insediamento di partiti religiosi estremisti per la pace della regione)ed anche culturali perchè vi è la necessità di costruire da zero una nuova classe dirigente. La variabile estera non è unica, sono diversi gli stati interessati a vedere come andrà a finire. Il più coinvolto appare Israele che sente farsi concreto il pericolo di essere circondato da paesi dove il peso politico mussulmano rischia di aumentare pericolosamente, ciò crea apprensione anche negli USA per il filo doppio che li lega a Tel Aviv; proprio per questo Obama sollecita una soluzione veloce e democratica che non consenta spazio ad integralismi di sorta, sopratutto in Egitto, paese chiave perchè confinante direttamente con Israele. La fluidità della situazione non consente previsioni certe, anche se il coinvolgimento di attori esterni si fa sempre più pesante, nessuno parla dell'Iran ma appare impossibile che dietro le fazioni mussulmane la spinta di Teheran sia assente, sopratutto dopo la politica di Ahmadinejad praticata al confine con Israele. In conclusione nel teatro globale nessun popolo può veramente autodeterminarsi in maniera totale ed anzi nel contesto attuale ogni pedina deve rientrare in uno schema o in un altro per fare quadrare il risultato finale.

martedì 1 febbraio 2011

Le due Coree aprono ad incontri preliminari di tipo militare

Le due Coree si sono accordate per una serie di incontri tra responsabili militari, la natura degli incontri è stata definita preliminare. E' curioso che gli incontri si svolgano a livello di responsabili militari e non conivolgano, invece politici e diplomatici. Non si capisce su cosa debbano conferire militari di forze avverse, nella normalità possono incontrarsi per stabilire le condizioni tecniche immediatamente dopo la fine dei combattimenti, negoziare un armistizio al primo livello, non possono certo occuparsi di questioni più profonde come, ad esempio, le condizioni riguardanti territori, confini ed eventuali danni di guerra. Il livello dell'incontro tra militari è una fase rapida del negoziato tra due nazioni nemiche immediatemente dopo subentrano i politici ed i diplomatici. E' vero che la situazione coreana appare ancora fluida ma fortunatamente il momento delle cannonate è finito da qualche tempo, ora dovrebbe essere l'ora dei negoziati per gli addetti ai lavori. L'unica eventualità è che i colloqui militari preliminari vertano attorno alle modalità di riconoscimento delle frontiere in caso di passaggi fortuiti, occorre ricordare che la frontiera marina, argomento che ha dato il via agli scontri, è materia di non chiara definizione per le diverse interpretazioni dei trattati da parte dei due stati. In questo caso gli incontri potrebbero avere una ragione propedeutica per gli addetti dei settori militari, determinerebbero cioè una prevenzione all'evenienza di ritorsioni belliche in casi di sconfinamenti fortuiti, un accordo cioè che possa prevedere un'applicazione delle frontiere marine più elastica per il mantenimento della pace. In questo caso saremmo in presenza di un'operazione tesa ad evitare ricadute comprendenti opzioni militari e quindi a favore della pacificazione.

lunedì 31 gennaio 2011

Israele preoccupato per la situazione in Egitto

Israele esprime vive preoccupazioni per la situazione egiziana e conferma il suo appoggio a Mubarak. La dichiarazione esplicita e chiara nei tempi e nei modi esprime lo stato di agitazione che si vive nel paese della stella di David. Fino a questa dichiarazione ufficiale Israele ha tenuto un basso profilo non solo sulla crisi egiziana ma riguardo anche a quelle che si stanno sviluppando nella sponda sud del Mediterraneo. Basso profilo non significa però disinteresse, l'attività diplomatica di Tel Avivè stata diretta ed intensa verso quei paesi occidentali che, in qualche modo con le loro dihiarazioni hanno portato sostegno alla rivolta popolare al Cairo. Per Israele Mubarak rappresenta la garanzia del rispetto degli accordi di Camp David in vigore dal 1978 e mai messi in discussione da parte egiziana. Ciò ha permesso, su quel fronte, una situazione sicura ed assodata per Tel Aviv, da non mettere più in discussione.Israele nelle comunicazioni diplomatiche ha asserito che è preferibile la stabilità che la mancanza di democrazia. E' chiaro che questa visione è maggiormente funzionale allo stato israeliano che teme la possibile affermazione, in una competizione elettorale scevra da controlli, di movimenti islamici di natura integralista. Tuttavia la preoccupazione appare legittima, Israele potrebbe ritrovarsi ai confini un paese dove lo status quo è stato sovvertito e che quindi potrebbe volere ridiscutere da capo un accordo ormai consolidato nel tempo, questo creerebbe una pericolosa falla nel sistema difensivo del paese. Tel Aviv teme di essere stretta in un abbraccio mortale da vicini pesantemente influenzati da posizioni integraliste, con la minaccia sempre viva dell'Iran teocratico. I paesi occidentali hanno di fatto appoggiato la rivolta egiziana, bisogna vedere, se come pare c'è qualcosa di più; quello messo in moto nelle vie del Cairo appare un processo inevitabile da cui non si torna indietro quindi non pare peregrina l'idea di cercare di influenzare la transizione democratica verso soluzioni che salvaguardino il mondo intero da una pericolosa escalation in senso religioso. Per il momento appare difficile fare un pronostico data la molteplicità degli attori in campo e la situazione è di totale incertezza; rimane da augurarsi che la vicenda prenda una direzione che sia conveniente al popolo egiziano ma che non comprometta delicati equilibri che risultano decisivi per la pace mondiale.

Il Pakistan aumenta il suo arsenale nucleare

Il Pakistan ha accelerato la produzione di testate nucleari portando il numero in suo possesso a più di cento; fino a quattro anni fa sia calcola che il numero fosse tra le trenta e sessanta unità. La maggior parte di queste testate sono schierate lungo la frontiera con l'India, la quale, a sua volta dispone di un proprio arsenale nucleare, seppure valutato in misura leggermente minore. Mentre l'India cresceva economicamente, forte di una progressiva democratizzazione tesa a modernizzare il suo tessuto economico e sociale, il Pakistan restava impigliato in una fase di riforme incompiuta ed ostaggio di gruppi religiosi estremisti. Certo ha pesato la linea di confine con l'Afghanistan rifugio delle milizie Talebane e teatro di sempre maggiori scontri, inoltre da non trascurare le catastrofi naturali che hanno messo in ginocchio un paese già in difficoltà economica. Tuttavia malgrado queste condizioni avverse i dirigenti pakistani hanno sempre ostentato un comportamento ambiguo con l'unico alleato potenziale che potesse trarli d'impaccio dalla difficile situazione. Con gli Stati Uniti il rapporto non sempre è apparso leale nella guerra afgana, determinando spesso scontri, anche pesanti sul piano diplomatico. I problemi maggiori sono le relazioni con il servizio segreto pakistano che viene sospettato di attuare una vera e propria politica doppiogiochista in combutta con le milizie talebane. In altre aree il potere effettivo è esercitato su base tribale con modalità completamente distaccate da Islamabad ed in definitiva la nazione pakistana è un territorio dove il potere del governo centrale è limitato e di fatto, come sostengono alcuni osservatori, alla sola capitale e nelle zone immediatamente circostanti. In questo quadro drammatico una ragione di coesione è l'avversione nazionalistica alla vicina India, che suscita ulteriori invidie per la sua crescita economica. Secondo George Perkovich, specialista in non proliferazione nucleare della 'Carnegie Endowment for International Peace' si tratta di una riequilibrazione psicologica per il popolo pakistano perseguitato dal complesso di inferiorità con l'India. In ogni caso siamo di fronte ad una guerra fredda su scala locale che non promette niente di buono: il mondo intero deve interrogarsi sulle misure di sicurezza delle testate pakistane a chi sono in mano e sopratutto a chi potrebbero finire. Sul piano dipomatico l'India ha trovato una sponda nella Russia in virtù della collaborazione economica tra i due paesi, Mosca ha manifestato pubblicamente disaccordo circa la proliferazione pakistana. Va comunque ricordato che nessuno dei due paesi ha sottoscritto il trattato di non proliferazione nucleare, sono le uniche due nazioni in possesso di armi nucleari a non averlo fatto in compagnia di Israele.