Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

giovedì 3 marzo 2011

L'assassinio del ministro pakistano Bhatti

L'omicidio del ministro pakistano per le minoranze, Bhatti, unico cristiano nella compagine governativa, pone serie riflessioni sul processo di pacificazione nell'area delicata della zona che comprende il confine con l'Afghanistan. E' un brutto segnale perchè colpisce chi era preposto alla tutela delle minoranze, argomento delicato in una zona di profondo integralismo e fanatismo religioso di matrice musulmana ed inoltre di una fede che la maggioranza religiosa ritiene avversa ed in combutta con le potenze occidentali. La causa scatenante dell'omicidio è ritenuta la posizione del ministro a favore di Asia Bibi cristiana condannata a morte per frasi contro Maometto, ed in generale contro la legge che punisce la blasfemia. Il governo Pakistano è in una posizione delicata perchè schiacciato tra le pressioni occidentali, in prima fila gli USA, e gli integralisti, di cui non riesce ad arginare la forza. Sul piano diplomatico questo assassinio è un brutto biglietto da visita per il governo, ma non è, purtroppo il primo. Ufficialmente il Pakistan è alleato con gli USA nella lotta contro i Talebani, che usano la zona di confine con l'Afghanistan, come base per i loro raid nel territorio di Kabul. Praticamente il governo pakistano non è in grado di controllare la zona, ma non da il permesso alle forze NATO di oltrepassare i propri confini, diventando di fatto complice delle milizie talebane. Inoltre il governo di Islamabad è sospettato dagli USA di contenere delle infiltrati nelle proprie forze, in primis i servizi segreti, che fanno il doppio gioco con i talebani. In questo quadro l'assassinio dell'unico ministro cristiano aggrava sicuramente i rapporti con l'occidente e pone il Pakistan ulteriormente sotto una luce non troppo positiva.

mercoledì 2 marzo 2011

L'Unione Mediterranea: uno strumento già pronto per l'integrazione

Esiste uno strumento finora sottovalutato, che può portare un contributo notevole nel futuro del Mediterraneo. Nel 2008 è stata fondata l'Unione del Mediterraneo con l'intento di promuovere la cooperazione su temi di carattere ambientale, energetico, della logistica, dell'antiterrorismo e della protezione civile. In questa fase storica, quindi è già pronto un organismo che nell'immediato futuro può assicurare la partenza di quell'integrazione per risolvere a livello comune i postumi della primavera araba. Per l'Unione del Mediterraneo potrà configurarsi un ruolo chiave nell'affrontare e risolvere le problematiche dei paesi del Mare Nostrum mediante l'assunzione di un ruolo guida nella fornitura di risorse e conoscenze, razionalizzando energie e processi nell'interesse di tutti i membri. Con l'augurata risoluzione delle emergenze, che non sarà comunque breve, e dell'acquisita stabilità delle nuove democrazie, ancora meno breve, l'attività dell'Unione potrà assumere primaria importanza se si sarà capaci di investire in questo organismo sfruttando le sue potenzialità già presenti. Promuovere le sue competenze potrà permettere da subito di gestire l'emergenza emigrazione mediante un uso ad hoc delle funzioni di protezione civile previste nei suoi obiettivi. Un ruolo attivo immediato è necessario per affermarne l'importanza e generare l'affidabiltà necessaria ad operare. E' chiaro che non sono ammessi sprechi, non deve essere un organismo duplicato di altri enti sovranazionali, ma deve specializzarsi nell'area di sua competenza: quella mediterranea. Potenziando ed usando correttamente questo organismo si possono coinvolgere su di un piano paritario i paesi arabi della costa sud per fare incontrare bisogni e speranze delle popolazioni. L'importanza dell'assenza di una subalternità tra le nazioni permetterà la risoluzione di conflitti religiosi e commerciali, prevenendo anche il fenomeno del terrorismo. Insomma uno strumento da non trascurare ma su cui investire per avere grandi probabilità di successo.

Dopo i paesi arabi toccherà all'Africa

Quello che la primavera araba ci sta mostrando è soltanto l'inizio di trasformazioni politiche che riguarderanno il futuro mondiale. Finito il tempo del colonialismo, sta finendo anche il postcolonialismo basato su regimi fantoccio o su dittature di comodo all'occidente. Le rivolte arabe hanno preso di sorpresa la diplomazia e gli analisti, non dovrà più succedere per il futuro. Per i prossimi appuntamenti non dovrà esserci impreparazione. Dietro la fascia dei paesi del sud Mediterraneo vi è immediatamente tutta l'Africa, che la fine del colonialismo ha lasciato con stati inventati di sana pianta, fonte continua di lotte tribali ed etniche. Spesso i regimi che si sono alternati in questi stati sono stati governi di comodo per asservire interessi di altri stati o, addirittura di multinazionali. Negli ultimi tempi vi è un risveglio favorito dall'introduzione di forme di democrazia, che seppure inquinate da corruzione e malgoverno, hanno introdotto nelle coscenze nazionali la presa d'atto della necessità di un autogoverno che vada a determinare le sorti delle nazioni in maniera autonoma. L'esempio arabo non tarderà ad arrivare e l'onda della richiesta dei diritti, in un continente di profonde diversità e diseguaglianze come quello africano, potrà generare fattispecie pericolose per un mondo occidentale che non saprà farsi trovare preparato all'appuntamento. Pur con tutti i distinguo possibili l'esempio da seguire c'è già: la nascita dello stato del Sud Sudan ha, infatti, segnato un punto di svolta nella martoriata storia degli stati africani. Nonostante tutte le lotte armate, che hanno generato migliaia di morti, alla fine si è riusciti, tramite un referendum, ha dare vita ad un nuovo stato omogeneo per la sua cultura comune e quindi fuori dai canoni di creazione postcoloniali, basati essenzialmente sull'aspetto puramente territoriale. Il distacco pacifico del nuovo stato va salutato ed incoraggiato come metodo da seguire e favorire sopratutto da parte occidentale con appoggio materiale di know how democratico. La fase nuova del mondo va sfruttata per riparare torti antichi.

martedì 1 marzo 2011

Le vie di uscita di Gheddafi

La difficile situazione libica squarcia il velo sulla tattica di Gheddafi per uscire in qualche modo dall'impasse che si è creata. Mantenendo Tripoli il dittatore rimane con un territorio sotto la sua potestà, che ne fa ancora un governante in carica; ciò può permettergli una qualche possibilità di trattativa, sia con gli insorti che con la comunità internazionale. Tripoli resta un punto chiave nello scacchiere delle migrazioni e mantenerne il controllo significa avere ancora un potere di ricatto. La situazione di stallo è dovuta alla divisione dell'esercito, qui non siamo in Egitto, dove le forze armate, astenendosi, hanno di fatto determinato la vittoria della rivolta. L'esercito libico si è diviso, con Gheddafi le forze armate attorno a Tripoli, più i mercenari, e gran parte dell'aviazione, anche in forza del fatto che l'arma aerea è in mano alla tribù più vicina al dittatore; con gli insorti i militari di Bengasi e Tobruk. Di fatto a questa divisione corrisponde la ripartizione del paese in questo momento. Esistono difficoltà logistiche che ostacolano l'appoggio dei ribelli cirenaici a quelli di Tripoli, la distanza, 900 chilometri, è il primo di questi. Peraltro Gheddafi può contare su risorse finanziarie ingenti che permettono di pagare forze mercenarie consistenti ed anche i depositi di armi sono forniti per una guerra di tipo convenzionale come quella in corso. Tuttavia, nonostante i tentativi di sfondamento le truppe del dittatore non possono riconquistare il terreno perduto, l'organizzazione ed il numero degli insorti non permettono previsioni rosee per Gheddafi. Il leader libico può quindi solamente puntare sul mantenimento delle proprie posizioni, con una guerra di logoramento che gli permetta di arrivare ad una contrattazione con gli insorti per sfinimento, e di conseguenza intavolare un negoziato internazionale che gli permetta una via d'uscita. I prossimi sviluppi diranno in quale direzione saranno dirette le possibili soluzioni.

Turchia: il PKK annuncia il cessate il fuoco

Il PKK, partito Curdo, annuncia, unilateralmente il cessate il fuoco in Turchia. E' un fatto nuovo nelle relazioni tra i curdi della Turchia, potrebbe rappresentare la volontà di cercare soluzioni alternative al processo di indipendenza del popolo curdo. La questione curda, con questa mossa, pare dirigersi verso una strategia pacifica anche alla luce del buon momento dell'economia turca, di cui trae beneficio la zona curda: il benessere che si sta diffondendo favorisce una visione meno violenta della questione. In Turchia si apprende con qualche perplessità questo passo, non si ancora sicuri della veridicità della decisione, la strategia della tensione creata dai Curdi ha lasciato strascichi pesanti, tuttavia gli osservatori espserti della questione vedono con positività la decisione; anche se sono consapevoli che potrebbero esserci gruppi più piccoli di intransigenti che potrebbero staccarsi dal PKK per continuare, seppur in minoranza, la lotta armata. Lo stato turco, dal suo canto deve prevedere una soluzione che coinvolga forze politiche curde nell'alveo istituzionale, ora impossibilitate ai seggi per la norma che un partito può essere rappresentato se passa la soglia del 10% dei suffragi. La norma era stata varata anche per escludere in forma legale rappresentanti dei curdi, ma la novità del cessate il fuoco può essere colta come segno di buone intenzioni ed aprire a nuove soluzioni per le istanze del popolo curdo, coinvolgendolo nelle istituzioni di Istanbul.

La democrazia come fattore per sconfiggere il terrorismo islamico

Una delle implicazioni, non secondarie, anzi, delle rivoluzioni nei paesi arabi è che il coinvolgimento diretto del popolo nel processo di democratizzione toglie materia prima all'incremento dell'integralismo islamico, che spesso sfocia nel terrorismo. Il meccanismo di reclutamento delle organizzazioni terroristiche parte dalla raccolta tra i più poveri, che, attraverso l'indottrinamento delle scuole coraniche passano nelle fila dei martiri imbottiti di tritolo. La ricostruzione, semplificata, indica come il materiale umano venga pescato tra situazioni di povertà e mancanza di organizzazioni statali, che non forniscono altra alternativa alle scuole coraniche ed ad una visione limitata e manichea tra bene e male. Senza una offerta articolata di mezzi sociali, tra cui media, organizzazioni ricreative ma anche una rete sociale a cui dovrebbe sovrintendere lo stato, il cittadino delle dittature è preda dell'unica offerta disponibile che spesso coincide con l'anticamera del martirio. Le dittature tengono nell'ignoranza i propri popoli, non consentendo, se non in forma clandestina, una crescita sociale come cittadini; ciò ha permesso un controllo totale e costante delle possibili opposizioni ma nel contempo ha favorito il terreno di coltura delle organizzazioni terroristiche, che hanno facilmente accolto nel loro seno gli arrabbiati ed gli scontenti. Del resto sono proprio le dittature che spesso hanno fatto perno sulla dicotomia male-bene occidente-paesi arabi, creando quella visione manichea di facile presa su masse forgiate in ambienti senza alcuna rete sociale e di fatto spianando la strada alla filosofia di base delle organizzazioni terroristiche islamiche. La novità delle rivoluzioni è la partecipazione delle masse, una partecipazione dal basso dove l'elemento religioso è parte ma non la maggior parte, e comunque l'aspetto integralista è rimasto limitato. Gli aspetti sociali che hanno favorito i moti sono essenzialmente di due fattori: l'emigrazione nei paesi occidentali, che ha permesso di ampliare le conoscenze sul campo delle democrazie avanzate, seppure con tutte le difficoltà del caso, e permettendo di conseguenza la creazione di una coscienza critica che ha elaborato una visione finalmente chiara della situazione; poi le novità tecnologiche, giunte al fattore di cui sopra, sono state il braccio per attuare i propositi di libertà. L'occidente deve comprendere questo meccanismo ed investire su di esso: solo così si potrà aprire una fase nuova nel mondo in cui viviamo.

lunedì 28 febbraio 2011

Chavez avverte le opposizioni: in Venezuela non sarà come in Egitto

La paura che le proteste valichino l'0ceano e vadano a colpire i regimi, deve essere stata presa in grande considerazione da Chavez, che in discorso pubblico ha affermato che in Venezuela non succederà come in Egitto e negli altri paesi arabi. Il solito ritornello della responsabilità americana, buono per ogni occasione ha fatto capolino dal palco del comizio del presidente del Venezuela. Chavez ha affermato che è errato paragonare la situazione della sponda sud del Mediterraneo, come un possibile sviluppo anche in Venezuela, ma che il paragone corretto è con quello successo con la sua ascesa al potere, portatrice di libertà e democrazia nel paese. Riguardo alla Libia, non ci sono state parole di condanna, ma soltanto di augurio per una pacificazione nazionale perseguita senza la violenza. La posizione di Chavez all'interno del panorama della politica estera è spesso sbilanciato verso nazioni ritenute pericolose, come l'Iran, a cui fornisce prodotti derivanti da raffinazione. Sul fronte della politica interna Chavez ha dovuto spesso avere a che fare con scioperi e critiche per la sua politica definita populista; sicuramente l'affermazione che in Venezuela non succederà come in Egitto, suona come avvertimento al fronte interno delle opposizioni.