Politica Internazionale

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mercoledì 21 settembre 2011

Fine del ruolo USA come gendarme del mondo

Obama rende ufficiale la sua dottrina in politica estera. L'intenzione americana di cessare di essere il gendarme del mondo, più volte sottolineata ed iniziata ad essere praticata con la guerra libica, è ora diventata linea ufficiale del governo di Washington. Questa decisione non è il frutto della situazione economica attuale, ma è l'attuazione, sul lungo periodo, di quello programmato da Obama già in campagna elettorale. La tragedia dell'undici settembre, dopo l'eliminazione di Bin Laden, pur restando nella storia degli Stati Uniti, con questo passo appare superata; come è superata la dottrina interventista che ha caratterizzato l'azione diplomatica americana nel secolo scorso. Obama, di fatto, riposiziona gli USA nel panorama internazionale, pur restando nazione di riferimento, Washington si avvia a dare supremazia agli organismi internazionali per la risoluzione delle dispute internazionali. E' una direzione, quella intrapresa, che rafforza l'importanza dell'ONU, dove peraltro gli USA siedono come membro permanente del Consiglio di sicurezza, ed anche della NATO, nel quadro di potenziali interventi decisi in modo collegiale. L'intenzione di Obama è di mettere e sopratutto di fare percepire, gli USA, come una nazione al pari delle altre e che con le altre si rapporta non in maniera univoca ed autonoma, ma seguendo delle vie, che dovrebbero essere comuni. Allo stesso tempo si tratta di una rivoluzione ed anche una auto dismissione di responsabilità non più sostenibili, sia dal lato politico diplomatico, che economico. Il mondo dovrà abituarsi a vedere gli USA in modo differente, tramontata la figura imperialista, Washington non accorrerà più dove vi è l'ingiustizia, effettivamente rilevata o frutto di un'analisi di convenienza, ma, semmai, adirà ad organismi terzi investiti di autorità legittima per dirimere le questioni. L'apporto americano potrà esserci ma solo come contributo e sotto il mandato di organizzazioni internazionali. Tale decisione sposa l'opinione maggioritaria dei cittadini americani, comprendente quindi anche elettori non democratici, che sono stanchi dell'alto costo sociale, in termini di vittime e dei grandi costi finanziari che l'amministrazione USA ha sostenuto fino ad ora. Il guadagno ottenuto non è stato percepito in modo sufficiente per giustificare tale impegno. Quello che viene richiesto è, viceversa, una maggiore attenzione ai problemi interni, il che non vuole dire che gli USA si ripiegheranno su se stessi, ma significa, innanzitutto una razionalizzazione delle risorse economiche e politiche verso la politica estera, da cui consegue una nuova dimensione dell'approccio ai problemi internazionali. Ma gli USA non abdicheranno a quelli che ritengono i loro punti chiave, soltanto in determinate situazioni non agiranno in prima persona come l'esperienza libica ha chiaramente insegnato.

martedì 20 settembre 2011

Fronte UE per la Turchia

Le minacce turche alla UE, per la carica della prossima presidenza a Bruxelles, di Cipro, parte greca, nascondono, in realtà, altri fini ed hanno una responsabilità da cercare dentro all'Europa. Erdogan, dopo il rifiuto all'ingresso nella UE, ha rivolto lo sguardo della Turchia verso oriente, riscuotendo successi sia diplomatici che economici. Agendo fuori da un contesto normativo rigido, come poteva essere quello comunitario, Istanbul è riuscita a trarre maggiori vantaggi ed ha capito di potere prendere un ruolo da protagonista. L'occasione della primavera araba ha rappresentato la possibilità di incrementare ulteriormente la strategia diplomatica di aumentare l'influenza turca, tanto da fare pensare ad un chiaro fenomeno di neo ottomanesimo. Quando era in auge il dibattito sulla opportunità di fare accedere alla UE la Turchia, nessuno ha mai preventivato che lo sbocco, in caso di rifiuto, fosse di trasformare Istanbul, se non in un nemico, un avversario. Le tante obiezioni proposte, peraltro maggiormente di natura religiosa o sociale, provenienti dai gruppi di estrema destra o localistici, non hanno mai analizzato i costi ed i benefici dell'esclusione turca. Il dibattito si è focalizzato su temi troppo ristretti che ne hanno fatto perdere la visuale complessiva. La Turchia è da tempo un paese in crescita, che ha tentato di canalizzare le proprie capacità ed attitudini verso quello che doveva essere l'approdo naturale del più occidentale dei paesi islamici. Poteva trattarsi di una opportunità sia per Istanbul che per tutta la UE, l'allargamento verso l'oriente dell'Unione Europea avrebbe permesso, oltre ad un maggiore e più vasto mercato, anche una potenzialità diplomatica di ben altra portata. Inserire il paese turco, nell'alveo del vecchio continente, voleva dire allargare la sfera d'influenza comunitaria verso zone più restie all'ingerenza occidentale. Al contrario trattare il problema come un mero fatto religioso ha troncato pesantemente i possibili sviluppi positivi, creando gelo tra le due parti. Anche il recente confronto con Israele, dettato, al di là dei tragici fatti dello scorso anno, dalla necessità di figurare come rappresentante in tutto e per tutto del popolo arabo, si spotrebbe risolvere in altro modo, senza tenere costituire una minaccia per la pace. Ora la Turchia ha innestato una marcia, sul piano internazionale, contraria alla politica della UE, che tende al protagonismo nell'area araba del Mediterraneo del sud, nell'area del vicino oriente e fino oltre la pianura mesopotamica. Questa sorta di ritorno all'impero ottomano, non deve essere guardato con sufficienza dall'occidente, la Turchia possiede strutture politiche e strumenti di affinità tali da potere influenzare le nascenti democrazie arabe, prive praticamente di tutti gli strumenti per fare il salto nella nuova forma di stato. Istanbul si è preparata con dovizia a diventare il principale concorrente dell'Europa sul terreno del meridione del mediterraneo, dove si giocherà una partita fondamentale per il futuro del Mare Nostrum. La questione cipriota è in parte strumentale, perchè serve ad alzare la temperatura contro l'Europa in chiave di espansione verso i territori arabi ed in parte oggettiva, perchè riguarda la comunità e lo stato filo turco dell'isola. Se Cipro assolve il suo mandato di sei mesi alla guida della UE, acquista una visibilità troppo elevata per quello che vuole apparire Erdogan, che ne risulterebbe sminuito. Per il capo del governo turco costringere la UE ad abdicare rappresenterebbe una vittoria notevole da gettare sul tavolo del prestigio nel mondo arabo. Tuttavia appare difficile che Erdogan possa vedere le sue richieste esaudite, ciò non impedirà comunque, di intraprendere con la UE una battaglia diplomatica da cui ha tutto da guadagnare.

L'unificazione europea non è più procrastinabile

Alla fine qulacuno lo ha detto: senza l'Euro crolla la UE. Si tratta di una equazione inevitabile, una eventuale morte della moneta unica, mette fine ad anni di sforzi per favorire l'integrazione del continente, si torna irrimediabilmente indietro nel tempo e sopratutto fuori dalle esigenze temporali attuali, che richiedono unità contro divisione ed aggregazione contro isolamento. L'economia mondiale impone scelte drastiche, prima di tutto politiche. Una guida unificata dei problemi del continente è la prima cosa da fare, per imporre una linea politica unica, i personalismi ed il mancato riconoscimento in un organismo superiore devono cedere il passo ad una accettazione convinta di un centralismo maggiormente veloce e capace di prendere decisioni univoche, lineari e determinanti. Occorre mettere linee e regole chiare, dalle quali deve essere impossibile derogare, chi non accetta, rinunciando anche a parte della propria sovranità, deve essere messo fuori dal sistema politico e finanziario. Il momento impone scelte nette dalle quali ripartire, ma che devono essere accettate con piena convinzione. La necessità di una svolta importante è scritta negli avvenimenti che si susseguono: il possibile default greco, pur essendo una sconfitta per la zona euro ed un dramma per Atene, non inficierebbe il nocciolo duro della moneta unica. Non così se si arrivasse a situazioni altrettanto pericolose per Italia, fortemente indiziata su quella strada, e Francia, di cui non si parla, probabilmente per paura di alterare in modo ancora più grave le borse, ma che ha valori tali da non scongiurare situazioni altrettanto nefaste. L'effetto domino che si andrebbe ad innescare andrebbe a gravare sulla totalità dell'economia mondiale. Non è un caso che la Cina sia vicina ad acquistare titoli italiani e che anche Brasile, India e Sud Africa intendano gettare consistenti dosi di liquidità nel sistema finanziario europeo. Si tratta di aiuti ben accetti, che risolvono momentaneamente situazioni di grande difficoltà, ma che, andando ad alleggerire situazioni incancrenite, non permettono un aiuto strutturale al sistema, perchè non vengono investiti per sviluppare progetti, ma vanno a rifinanziare il costo degli interessi. Senza stabilità politica a livello continentale ed il ridisegno delle regole finanziarie, in ambito europeo, si alimenta soltanto la speculazione. Tra l'altro non è da escludere che proprio la rete degli speculatori abbia preso di mira la zona euro per distruggere la moneta unica, che potenzialmente può rappresentare il loro nemico peggiore, proprio per gli strumenti a disposizione. Mai come ora l'accelerazione necessaria per l'unificazione è stata più vitale.

domenica 18 settembre 2011

Considerazioni sul debito pubblico cinese

Il debito delle amministrazioni provinciali cinesi ammonterebbe a 2.300 miliardi di dollari. La stima sarebbe corroborata dal fatto che diverse amministrazioni locali cinesi sono vicne al default. Se si trasferisce questa somma, da sola, al debito dello stato cinese, la Repubblica Popolare diventa il secondo stato al mondo ad avere il più alto debito pubblico, dietro agli USA. La ragione del debito pubblico delle amministrazioni locali è dovuta in gran parte al fatto, che tali amministrazioni devono farsi carico della costruzione delle infrastrutture, strade, ferrovie, aeroporti, metropolitane, che costituiscono parte integrante dei motivi dello sviluppo cinese. Quindi lo stato centrale non può permettere, in ultima analisi, che le amministrazioni più esposte falliscano e deve quindi intervenire con la propria liquidità a coprire i buchi del debito. Ma così facendo toglie capitale da destinare alla crescita industriale, finora sostenuta in modo massiccio e chiave di volta per l'affermazione a potenza di rango mondiale. La questione del debito delle amministrazioni locali costituisce una sorta di debito occulto per il dragone, che Pechino non rende pubblico, cercando di mantenerlo il più nascosto possibile. Ma l'entità accumulata ha ormai raggiunto livelli di guardia, che non permette la continuazione della politica dello struzzo. Il PIL cinese ha già iniziato a contrarsi ed una delle cause è proprio l'alto tasso di indebitamento presente nel mercato finanziario globale del paese. Del resto anche i fenomeni inflattivi si sono presentati in maniera massiccia, rendendo il sistema cinese tutt'altro che immune dalle patologie dei sistemi capitalistici. Oltre a riflessi di tipo sociale, che si stanno acuendo e che sono dovuti a questa situazione economica, la Cina deve rivedere la propria politica finanziaria per non restare intrappolata nella spirale generata da debito ed inflazione, che può portare a situazioni che Pechino potrebbe non essere preparata a gestire. In questo momento pare difficile comprimere le opere pubbliche, che sono necessarie per completare le infrastrutture necessarie al paese, quindi resta la stretta sul credito per l'industria, con un conseguente abbassamento della produzione, dettata anche dalla minore richiesta di beni, proveniente dai paesi esteri sottoposti alla crisi mondiale. La contrazione della produzione però può metere in moto fenomeni di disoccupazione interna a cui si dovrà dare necessariamente risposta. Le masse che premono dall'interno del paese non si possono disperdere con semplici operazioni di polizia, volente o nolente Pechino dovrà ripensare il proprio atteggiamento sul welfare investendo maggiore risorse per il benessere dei propri cittadini. Socialmente la Cina, ha quindi davanti due strade per affrontare la crisi: o inasprire le misure restrittive o assumere, pur nel quadro del regime al governo, modifiche che introducano un mix di riforme che permettano ad almeno parte dell'economia di sfuggire al rigido controllo. Ma pur essendo la seconda strada la più logica per noi occidentali, le vie prese dal governo cinese paiono andare nella prima direzione, gettando il paese verso un abisso di terrore, che però avrà nelle leggi immutabili del mercato finanziario, uno dei peggiori nemici.

sabato 17 settembre 2011

Israele-Palestina: problema coloni

Mancano pochi giorni al venti settembre, data fatidica della discussione dell'assemblea dell'ONU sul riconoscimento dello stato di Palestina e si fanno più forti i timori di disordini, in special modo in Cisgiordania, il nucleo forte dei seguaci OLP e di Abu Mazen, da dove è partita l'iniziativa della richiesta di riconoscimento presso le Nazioni Unite. I maggiori timori vertono su quello che sarà l'atteggiamento dei coloni israeliani che hanno impiantato i loro insediamenti in modo irregolare, fuori dai confini fissati dai trattati. Le loro paure di essere sfrattati rischiano di trasformarsi in atti violenti contro gli arabi, innescando, così, pericolosi focolai di violenza. I coloni che stanno in questi insediamenti irregolari, sono spesso appartenenti all'estrema destra confessionale ebraica e ritengono il territorio di cui si sono impossessati loro proprietà in forza dei precetti religiosi, proprio per queste ragioni sono molto determinati e diapongono di interi arsenali militari. Il loro atteggiamento verso gli arabi è di ripulsa totale ed in più di una occasione si sono resi protagonisti di atti di vandalismo contro proprietà arabe. Il loro metodo è creare terra bruciata intorno ai propri insediamenti, in modo da tenere un perimetro di sicurezza da eventuali intrusioni arabe. Se lo stato di Palestina dovesse essere riconosciuto sarebbe difficile anche per lo stato israeliano continuare a difenderli, se non violando, come già fatto, le leggi internazionali nei confronti di uno stato sovrano. I coloni rappresentano in effetti una pericolosa anomalia per il diritto internazionale, essendo cittadini di altro stato, stanziati in forma abusiva su territorio straniero. La questione è uno dei punti caldi dei rapporti tra Israele e Palestina e l'ottuso atteggiamento del governo di Tel Aviv, rappresenta la prova della mancata volontà di proseguire nelle trattative. Non bastano, infatti le poche demolizioni di facciata operate dal governo, per sanare la situazione. Anzi il metodo del fare finta di niente rappresenta la strategia governativa per guadagnare terreno in modo illegale al nascente stato di Palestina. Lo stato di Israele è stato più volte sollecitato a fare rispettare i confini ai suoi cittadini, anche da USA ed UE, ma ha solo fornito rassicurazioni di circostanza, non seguite da azioni concrete. Se la dichiarazione dell'assemblea ONU sarà positiva per la Palestina è facile immaginare azioni di ritorsione immediate contro gli arabi, cui seguiranno rappresaglie arabe, sarebbe opportuno che Israele prevenisse questa facile ipotesi, ma Tel Aviv ha interesse ha soffiare sul fuoco per delegittimare da subito lo stato di Palestina con le solite argomentazioni ed aggiungendo anche l'incapacità di mantenere il controllo sulla propria popolazione. Il fatto dei coloni è quindi una vera e propria testa di ponte, che Israele usa per aumentare il proprio territorio in modo subdolo e contrario al diritto internazionale. Eliminare questo problema metterebbe Israele dalla parte giusta per ripartire per la risoluzione del problema palestinese.

giovedì 15 settembre 2011

L'aiuto interessato della Cina

Il debito pubblico europeo crea opportunità per la Cina. Le difficoltà degli stati europei, che non riescono a districare la matassa del proprio debito pubblico, aprono spazi di manovra enormi per Pechino. Si va dal possibile acquisto di partecipazioni ad aziende ritenute strategiche per l'economia cinese, al potere diplomatico che si può ricavare comprando quote di debito pubblico, come ben sanno gli USA costretti a rimangiarsi quote consistenti della loro politica sui diritti civili. Ma esiste un obiettivo ancora maggiore, che se raggiunto consentirebbe alla Cina il raggiungimento di un vero e proprio ossimoro: la definizione di economia di mercato. In sostanza è questo che più preme a Pechino e che la Cina ha pubblicamente richiesto a Bruxelles. In cambio dell'aiuto, in parte già accordato a paesi come Ungheria, Grecia, Portogallo e Spagna e della possibilità di accordarlo all'Italia, la Cina chiede la fine dell'embargo della vendita di armi, ma sopratutto il riconoscimento formale di economia di mercato. La richiesta rappresenta una vera e propria trappola per l'economia europea, mettersi allo stesso piano della Cina, significa avvalorare le pratiche produttive di Pechino, che sono costituite da un insieme di regole che sfociano nella concorrenza sleale. L'assenza dei diritti sindacali e di leggi sulla sicurezza determinano un notevole abbassamento del costo del lavoro, per recuperare il quale l'Europa può solo allinearsi verso il basso, provocando un avvitamento della qualità della produzione e del calo dei consumi. Esistono solo due risposte da dare a Pechino: il rifiuto oppure la contro richiesta di allineare le condizioni di lavoro degli operai ed impiegati cinesi agli standard occidentali. Ma ciò è irricevibile dai dirigenti cinesi perchè richiede uno sforzo legislativo contrario alla direzione intrapresa da Pechino ed abbatte uno dei punti di forza dell'economia cinese: il basso costo del lavoro. Tralasciando il discorso sui diritti civili e fondamentali, che deve comunque sempre essere una pietra di paragone da non spostarsi mai, anche la convenienza economica, al di la del beneficio istantaneo del placare gli indici di borsa, non pare essere un buon affare cedere alle richieste cinesi. Si può obiettare che la situazione è già questa, le aziende occidentali già combattono con queste condizioni di finta concorrenza, ma ciò è vero solo per la produzione di bassa qualità, dove vi è necessità di produzione affidabile o di lusso, sono ancora le azienda occidentali a tenere le quote di mercato maggiori, il tutto con il costo del lavoro più elevato, in un quadro normativo più rigido e sicuro.
Tutto questo deve essere ben chiaro ai governanti che devono decidere se accettare questi aiuti. Mettere al nemico le chiavi di casa in mano non è mai un buon investimento.

mercoledì 14 settembre 2011

Le ambizioni turche

Per la Turchia si aprono ben due fronti militari. In realtà si tratta di due problemi già conosciuti, ma che, al momento subiscono una accelerata pericolosa. Le dichiarazionidi provenienti dal governo di Ankara, infatti, ribadiscono la chiara volontà di schierare le proprie navi militari al fianco della prossima flottiglia umanitaria diretta a Gaza. Per il momento, però non è prevista alcuna partenza ed i discorsi turchi sono funzionali all'innalzamento della tensione con Tel Aviv. Dietro queste dichiarazioni vi è la volontà turca di affermarsi come potenza regionale e diventare il faro dell'islamismo moderato che sta andando ad affermarsi nelle primavere arabe. Il progetto è chiaro, aggregare i movimenti moderati attraverso un facile nemico comune e diventarne leader. Politicamente ed economicamente è un grosso investimento, la Turchia rifiutata dall'Europa guarda al altri alleati ed altri mercati da posizione privilegiata. Israele, con le dichiarazioni caute, molto caute, del proprio vice primo ministro, mostra di affrontare la situazione con molto pragmatismo, al contrario dei metodi soliti praticati da questo governo. La presa d'atto che i due paesi sono strategici per gli USA, ed un conflitto aperto non sarebbe sopportbile per i due paesi, porta Tel Aviv a mettersi di fronte alla situazione con cautela, nella speranza di recuperare l'amicizia turca. L'atteggiamento israeliano, questa volta potrebbe portare ad una soluzione del problema, che risulta strategico più per Tel Aviv, alla fine, che per Ankara. Dietro a tutto ciò vi è il silenzio USA, che non vuole dire disinteresse, ma, anzi, massima preoccupazione, trattata con iniziative molto riservate. L'altro fronte turco è il Kurdistan, regione autonoma iraqena, da dove vengono diretti gli attacchi contro i militari turchi e più volte violato da azioni di ritorsione dell'esercito di Ankara. Il problema del passaggio senza permesso di militari di un'altra nazione, ha destato più di una lamentela in sede internazionale. Per altro la posizione iraqena non è troppo preoccupata, la questione curda crea preoccupazioni anche a Bagdad. Tuttavia l'intenzione della Turchia è di concordare proprio con le autorità iraqene le azioni che prevedono lo sconfinamento in territorio straniero. Comunque la Turchia non tralascia neppure l'opzione diplomatica per arginare il fenomeno del terorismo curdo: inontri con le autorità del Kurdistan iraqeno sono previsti per i membri del governo di Ankara. L'attivismo turco diventa così il cavallo di battaglia di Erdogan, che dopo avere avuto discreti successi riguardanti l'economia, con una crescita del PIL apprezzabile, grazie al lungimirante sguardo gettato verso l'oriente della regione, punta ora a ritagliarsi uno spazio diplomatio e militare degno di una media potenza. Ciò che Erdogan vuole è una Turchia che conti di più, non solo nell'area regionale ma anche a livello mondiale, estendendo la propria influenza verso le nascenti democrazie arabe. Si tratta di un progetto ambizioso che ha qualche possibilità di riuscita perchè l'elemento fondamentale su cui punta è quello religioso e sociale.