Politica Internazionale

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mercoledì 16 novembre 2011

Mentre gli USA si rafforzano in Australia, si delinea il nuovo duopolio mondiale

Gli USA ridisegnano la loro strategia militare, che dovrebbe seguire al progressivo sganciamento, se ciò sarà possibile alla luce dei sempre nuovi sviluppi di politica estera, da Iraq ed Afghanistan. La nuova regione di importanza strategica ritenuta fondamentale è stata da tempo individuata nel continente oceanico ed in Australia in particolare, per fronteggiare quella che è la nuova superpotenza antagonista americana: la Cina. L'alleanza con il paese dei canguri procederà in maniera graduale con un invio di truppe dapprima contenuto e poi in incremento, fino a raggiungere un numero di effettivi intorno a 2.500. Obama ha sottolineato che sia USA che Australia sono due paesi tradizionalmente amici, che sono entrambi nel Pacifico ed hanno interessi comuni sia economici che militari. E' chiaro che l'obiettivo, neanche tanto occulto, di questo messaggio è Pechino, che d'altronde, ha accolto in maniera tutt'altro che favorevole l'iniziativa americana. Del resto per gli USA gli assetti del continente asiatico sono sempre più importanti, per la visione di Obama è preminente tutelare non solo gli alleati presenti nell'area come Giappone e Corea del Sud, ma presidiare anche le importantissime rotte commerciali del Pacifico per non lasciarne alla Cina il predominio. La presenza in Australia si configura quindi come presidio e base logistica degli Stati Uniti in una zona che sta accrescendo la propria importanza nella politica estera di Washington. Quello che si va a delineare è quasi una riproposizione dello scenario bipolare del secondo dopo guerra, mitigato però dalla presenza di altri attori sulla scena che limitano la preponderanza dei due soggetti principali. La UE, la Russia, l'India, il Brasile e la galassia dei paesi arabi che si sta formando a seguito dello sviluppo delle primavere arabe, costituiscono dei soggetti che possono fare pendere la bilancia da una parte o dall'altra, ma non sembrano avere sufficiente autonomia da diventare una potenza tale da inserirsi nel confronto del duopolio sino americano. Inoltre vi è tutta quella fascia di paesi emergenti, sia in Asia che in Africa che dispongono grandi risorse naturali capaci di condizionare i mercati e sui quali si gioca la partita delle influenze delle due superpotenze. La strada imboccata dai rapporti di forza tra i due stati che si pongono come guida del mondo, sia pure in maniera differente, si svilupperà quindi verosimilmente in una continua ricerca di alleanze che diventerà, entro certi limiti mobile, lo scenario non si baserà più su blocchi definiti rigidamente, ma attorno ad alleati più fedeli verranno creati nuovi legami meno rigidi. Un esempio di questa situazione in divenire potrebbe essere l'attuale Pakistan, che da una alleanza mai compiuta con gli USA, sta dirigendosi verso più stringenti rapporti con il colosso cinese. Nell'assetto mondiale che sta nascendo la caratterizzazione della fedeltà, sopratutto per i paesi che si affrancano dalla povertà più estrema, sarà frutto di opportunità da cogliere al volo per capitalizzare le proprie risorse all'interno dello scacchiere internazionale.

Euro ed Unione Europea non sono separabili

La vita della moneta europea è ad un bivio. Nata come collante preventivo all'unificazione politica del vecchio continente, è stata lasciata a se stessa, senza un governo effettivo che ne regolasse la vita e le funzioni, forse anche in maniera deliberata dietro a cui nascondere speculazioni e malfunzionamenti delle economie dei singoli stati. Tuttavia, pur con tutti i limiti imposti da una cattiva gestione, l'Euro ha fornito, fin dove ha potuto e comunque più delle singole monete statali, una protezione efficace contro gli effetti delle svalutazioni selvagge ed ha saputo contenere i valori a due cifre caratteristici dell'inflazione degli anni precedenti alla sua adozione. Certo non è una valuta ben vista da speculatori e finanzieri d'assalto, a cui si aggiungono in un'alleanza inedita, ma non troppo, i leader ed i seguaci dei partiti nazionalistici e localistici, che hanno riscosso tanto successo in Europa. Le ragioni, è logico sono differenti ma non dissimili, per i primi l'euro ha costituito un ostacolo alle manovre speculative generando un argine che purtroppo si sta sgretolando, per i secondi l'impossibilità di agire sulla leva della svalutazione ha impedito pericolose oscillazioni del valore e la conseguente instabilità monetaria. Non è quindi peregrina l'idea che dietro ai demolitori della moneta unica vi siano, oltre che gruppi tesi al mero guadagno, anche soggetti con obiettivi più politici riguardo al ritorno delle monete nei singoli stati. Ciò collima con chi è contrario all'Europa unita, delegittimare e quindi ridurre l'euro all'impotenza, significa stroncare anche l'unione politica fin qui tanto faticosamente costruita. E' una visione che pareva sopita ma rinasce grazie alle disgrazie della moneta unica, forse alimentate anche da chi non vuole l'unificazione europea. La scelta che si impone è un chiaro cambio di passo nella questione dell'importanza delle strutture governative sovranazionali, senza un potere accresciuto di Bruxelles nei confronti delle sovranità statali, la UE resta una mezza figura, facile preda di veti incrociati e senza alcuno sbocco definitivo. La crisi dell'euro, tra i tanti svantaggi, ha anche il pregio di potere mettere fretta a chi crede nell'unione politica, ma finora è rimasto in mezzo al guado, dato che per uscire dalla attuale difficile situazione occorre accelerare sulla preminenza degli strumenti comuni proprio riguardo alla gestione della moneta unica. Si è più volte sottolineato che il punto debole dell'euro è la mancanza di uniformità delle economie aderenti, soltanto quindi regole comuni dell'economia e della finanza possono portare aggiustamenti tali da correggere queste differenze. Ma queste decisioni che vanno ad impattare sull'insieme dei paesi aderenti alla zona euro sono prima di tutto decisioni politiche ed andrebbero quindi a costituire il nucleo fondante di provvedimenti comuni più ampi, tali da gestire una più efficace gestione sovranazionale, capace di integrare in tutte le sue forme l'Europa, come deve essere una federazione compiuta di stati. Però questo impone, finalmente scelte nette e definitive, da dentro o fuori, per tutti. Non dovrà esserci più posto per chi galleggia a metà ed usa l'Europa solo per allargare i propri mercati o intascare i sostanziosi contributi europei. Neppure dovrà esserci posto per chi non aderisce in toto alle istituzioni ma non alla moneta unica, i due aspetti sono inscindibili e non negoziabili, perchè una loro separazione significa mancanza di piena convinzione europeista. E' questa la sfida che devono portare a compimento gli europeisti cominciando l'opera di convincimento a livello locale, dove in definitiva si annidano i principali ostacoli.

martedì 15 novembre 2011

In Siria assalto alle ambasciate

Il regime siriano allarga la linea della repressione dai civili verso le ambasciate estere. L'escalation di Damasco segna un fatto nuovo nei fatti siriani, andando a colpire gli uffici diplomatici di Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Francia, colpevoli agli occhi del regime di condannarne l'operato. L'operato siriano sembra quasi un avvertimento in preparazione della riunione dell'imminente Lega Araba, quando si riuniranno i ministri degli esteri dell'organizzazione sovranazionale, che ha più volte condannato l'operato di Assad. Inoltre, per la Siria si aggiunge anche la posizione pesantemente critica della Turchia, che fino ad ora, pur condannando le violenze del regime di Damasco, non aveva ancora intrapreso passi ufficiali contro il governo. Ankara ha, infatti deciso la completa evacuazione di tutto il proprio personale diplomatico, andando così a sottolineare la completa incapacità di garantire la sicurezza del governo di Damasco alle legazioni diplomatiche. Il passo turco ha il significato di condannare esplicitamente l'amministrazione siriana ed i suoi metodi, gettando sul piano diplomatico tutta la propria importanza acquisita nella regione; tale mossa si completa con il prossimo incontro del ministro degli esteri di Ankara con i rappresentanti dell'opposizione siriana, vertice, peraltro che non rappresenta una novità, dato che si è tenuto già lo scorso mese.
Il mancato rispetto delle sedi diplomatiche in Siria, pare una tattica ormai consueta nella pratica repressiva attuata da Assad, che si concretizza con manifestazioni di appoggio al regime che finiscono per assaltare l'ambasciata di turno del paese che ha espresso o appoggio ai ribelli o reprimende per le repressioni governative. Perfino la sede dell'ambasciata dell'Arabia Saudita è stata violata, pur essendo a pochi isolati dagli uffici dello stesso Assad, una delle zone più sorvegliate della capitale siriana, fatto questo, che sta a dimostrare l'assoluto appoggio del regime alla pratica delle ritorsioni contro le sedi diplomatiche. La palese violazione delle consuetudini del diritto internazionale, che sanciscono il principio di extra territorialità delle sedi diplomatiche, rappresenta la grande difficoltà del regime ha governare sia l'opposizione interna, che quella, ritenuta ben più pericolosa, proveniente dal mondo diplomatico, sopratutto di matrice araba. La pressione su Assad proveniente dal mondo musulmano, specialmente sunnita, mentre l'Iran appoggia apertamente Damasco, ha una sua giustificazione nel timore di un allargamento a macchia d'olio delle proteste, già faticosamente represse proprio in Arabia Saudita ed Oman. Sopratutto Riyad preferirebbe che la situazione siriana andasse a normalizzarsi, anche con aperture che potrebbero essere causa di possibile emulazione di oppositori interni, con una uscita di scena del presidente Assad, in maniera tale da tacitare al più presto la questione siriana. Anche la Francia ha richiamato l'ambasciatore siriano affinchè il suo stato si attenga al rispetto dei reciproci obblighi dettati dal diritto internazionale, mentre si attende ancora l'azione dell'Unione Europea, nella speranza che le questioni economiche non distolgano Bruxelles dal proprio ruolo diplomatico.

lunedì 14 novembre 2011

Politica e mercato: invertire la rotta

Con l'insediamento del nuovo governo greco ed il prossimo insediamento di quello nuovo italiano si sancisce una sorta di sospensione della supremazia della politica a favore dell'economia. E' vero che ora ciò vale per una parte ridotta, per adesso, dell'occidente, ma in futuro la prassi potrebbe allargarsi. Per Grecia ed Italia si è comunque scelto all'interno del proprio ordinamento una soluzione più veloce di quella scelta da altri grandi malati dell'area euro, Irlanda e Spagna, infatti hanno optato per la soluzione elettorale, che preserva la democrazia fino in fondo, ma non assicura quella velocità di aggiustamento dei mercati che le situazioni di Atene e Roma, stanno richiedendo. Beninteso non si tratta di colpi di stato, la transizione governativa è o sta avvenendo, nell'alveo delle regole scritte dalle rispettive leggi fondamentali, pur essendo caratterizzate da dispositivi normativi dettati da una urgenza pressante. Quello che interessa rilevare è che l'influenza del mercato si è spinta talmente avanti da potere condizionare gli assetti politici di una nazione, non più in maniera occulta, ma in modo aperto e chiaro. Questo è un riflesso, innanzitutto di oltre vent'anni di teorie liberiste, che hanno imperato sull'economia, sull'industria, sulla finanza fino a sopravvanzare anche sulla politica. Alla fine la politica è stata vittima di se stessa, nella misura in cui ha favorito l'espansione delle teorie liberiste; l'attività politica si è come ripiegata su se stessa lasciando campo libero ad una sorta di autoregolamentazione, in realtà guidata eccome, dettata dal mercato, che ha generato una dialettica costruttiva sempre più flebile, in favore di un dialogo nel ruolo deputato alla democrazia, il parlamento, sempre più volgare e distante dalle modalità consuete dell'esercizio della vita democratica. Una politica sempre più distante dai cittadini e dalle esigenze della società ha finito per non essere più utile neppure a se stessa ed è stata scavalcata per la propria inefficienza. E' come se lo stesso mercato richiamasse ai suoi doveri la politica, rinnegando esso stesso le teorie liberiste, che avrebbero dovuto favorirlo. E' presto per dire se questa tendenza dovesse prendere campo in maniera ulteriore, tutto dipenderà dai dati economici e finanziari che si svilupperanno, un'altra nazione indiziata ad andare in questa direzione potrebbe essere la Francia, se il suo sistema bancario dovesse andare incontro a pericolosi sviluppi, tuttavia è ormai un dato sicuro che anche i governi più saldamente in carica, stanno mettendo a fuoco strategie di aggiustamento progressivo per non essere travolti da leggi del mercato che stanno cercando di cannibalizzare i sistemi politici. La ricerca di maggiore equità e la lotta stessa alle diseguaglianze più estreme che si sono sviluppate, rappresentano la migliore base di partenza per un ritorno da protagonista della politica nell'agone sociale, sia di ogni singolo paese che a livello più globale, ma dovrà essere una politica rigenerata al suo interno e maggiormente sensibili a quei temi che consentano la creazione di dighe efficaci affinchè non si ripeta mai più la deriva di questi anni.

venerdì 11 novembre 2011

Il rilancio della UE passa per la perdita di sovranità degli stati

Il potere di indirizzo delle istituzioni europee, in realtà della Germania ed in misura minore della Francia, si sta concretizzando, andando ad influire sulle scelte degli uomini che andranno a governare i paesi con maggiori problemi. Se per certi versi pare una invasione del concetto di sovranità, questa visione deve essere, invece superata, alla luce dei nuovi assetti imposti dalla presenza di organizzazioni sovranazionali ed anche dalle soluzioni richieste dalle situazioni contingenti. In realtà le due questioni sono intimamente legate, in un quadro generale di comunità degli stati è normale che se esistono dei problemi gravi in una parte, che oltretutto possono riverberarsi nella totalità, debbano essere ammesse delle "invasioni" in quella che era comunemente definita sovranità nazionale. Gli elementi che concorrono a superare il vecchio concetto sono, nell'attualità del momento, sia di ordine politico che economico, ma in un futuro anche prossimo potrebbero diventare anche di ordine militare. Tale processo, peraltro, dovrebbe essere una logica conseguenza dell'evoluzione, in senso compiuto dell'attuazione dell'Unione Europea da soggetto sovranazionale in soggetto nazionale, secondo le concezioni più tradizionali del termine. Ma ciò sarebbe vero in una situazione ottimale, puramente teorica, un caso da laboratorio politico, non inficiato da tutte quelle variabili di singolarità presenti in ogni singolo stato e rappresentate da istanze localistiche ed interessi limitati ad argomenti ristretti. Certo le modalità di cambio di governo in Grecia e prossimamente in Italia, devia da quella che dovrebbe essere una modalità, che seppure non ancora codificata, dovrebbe incentrarsi su indicazione, certamente non vincolante, dell'autorità di Bruxelles. Purtroppo, proprio la scarsa autorità politica di Bruxelles non può procedere ed allora la responsabilità ricade sul paese capofila dell'Europa: la Germania ed in maniera minore sulla Francia. Esiste una sostanziale differenza circa la leadership dei due paesi nei confronti dell'Unione Europea, pur avendo di fatto creato un direttorio a due, Parigi non ha le stesse prerogative e le stesse esigenze di Berlino. Infatti per la Francia, nonostante le pose e gli atteggiamenti tipici della grandeur, si tratta, in sostanza, di salvare un sistema bancario fortemente esposto ad una grande quantità di titoli tossici, che in caso di crollo provocherebbe l'implosione finanziaria dello stato. Per la Germania è diverso, pur mossa anche da mere esigenze di cassa e di salvaguardia del proprio mercato, è l'unico stato con gli indici in ordine e possiede quindi i titoli per esercitare un ruolo di guida, fortemente supportato e condiviso dalla classe politica, anche se esistono, al contrario, dubbi rilevanti nell'opione pubblica. Tuttavia un aspetto importante della preminenza tedesca è proprio il convinto europeismo del governo in carica. L'analisi di questi aspetti porta diritto alla questione del restringimento della sovranità, di fatto, per alcuni stati, principio che se ora è valido per alcuni potrà essere esteso anche ad altri, pure per casistiche differenti. Nell'area di una comunità di stati che aspira ad una unione ben più stringente della attuale, pur con tutti i distinguo e le resistenze da considerare, occorre accettare, in assenza di norme codificate, l'iniziativa di chi ha più titolo, anche in funzione di salvaguardia, anche suo malgrado, del membro in difficoltà, pena la fuoriuscita dal sistema comune. E' un punto di partenza forzato e forzoso, ma che costituisce, pur nella negatività del momento attuale, l'aspetto più positivo possibile per dare finalmente slancio ad una unificazione politica dell'Europa più completa e reale.

giovedì 10 novembre 2011

Iran: cosa farà Israele?

Può Israele decidere di attaccare da solo l'Iran, perchè teme lo sviluppo definitivo dell'arma atomica di Teheran? La questione è di vitale importanza, cercare di capire cosa vorrà fare il governo israeliano è fondamentale per capire in quale direzione andrà l'equlibrio mondiale. Allo stato dell'arte, nonostante l'unanime condanna proveniente, almeno dall'occidente, solo Tel Aviv spinge per una soluzione militare, che preveda di colpire le installazioni atomiche in terra iraniana. Gli USA, pur avendo ricompreso come una possibile soluzione quella dell'intervento armato, ne hanno per il momento scartato l'attuazione per ovvi motivi di opportunità di politica sia estera che interna. Netanyahu, tenendo fede alla sua fama di duro spinge per l'intervento armato, tuttavia non si comprende se sta bluffando o se oserebbe veramente bombardare in modo unilaterale l'Iran. In ogni caso quello che cerca è di forzare la mano agli statunitensi, cui non approva la condotta giudicata sostanzialmente di basso profilo, nei confronti di Teheran. Infatti è impensabile, che, in caso di attacco da parte di Tel Aviv, anche non concordato con Washington, gli USA lascino poi al loro destino gli israeliani. Ma in questo caso l'intervento della forza armata a stelle e strisce sarebbe un evento obbligato che avrebbe conseguenze, probabilmente irreparabili, a livello di rapporti diplomatici. Ben diverso il caso di una soluzione armata concordata, anche ottenuta anche con comportamenti esasperanti e condannati, non in pubblico, dal governo USA. Per ora l'Iran non pare cedere alle provocazioni israeliane e mantiene la propria linea, anche se un episodio che partisse da Teheran, per quanto improbabile, farebbe la gioia di Netanyahu, che vorrebbe avere una occasione, anche minima, tale da giustificare una azione armata contro l'Iran. Pur comprendendo i timori di una testata nucleare puntata verso Gerusalemme, per decifrare quello che appare un comportamento folle da parte di Israele, tanto che neppure gli USA lo approvano, non vi è altra spiegazione che i servizi segreti di Tel Aviv abbiano notizie certe di un progresso iraniano molto vicino alla costruzione della bomba atomica senza, tuttavia, averne raggiunto il compimento. Se questo è vero allora si può capire l'urgenza di una azione militare da svolgersi in tempi brevissimi per distruggere e possibilmente azzerare i progressi iraniani in maniera definitiva. L'analisi dei benefici di una azione del genere, che pare comunque costituire un azzardo enorme, deve essere tale da superare gli eventuali costi, che anche senza avere elementi certi, dovrebbero comunque essere altissimi. Per Israele, quindi il problema nucleare iraniano deve essere definito, anche a discapito di interessi superiori, in esclusiva funzione delle proprie, seppur comprensibili, esigenze.

Perchè Cina e Russia non vogliono sanzionare l'Iran

Cina e Russia non la pensano come USA ed Israele sull'atomica iraniana. Dalla decisione, presa in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, di aprire all'intervento armato in Libia mascherato da azione umanitaria, ottenuto con l'astensione di Pechino e Mosca, secondo i governi di questi paesi estorta in maniera ambigua dai paesi occidentali, l'atteggiamento diplomatico di Cina e Russia è diventato di chiusura, verso ogni iniziativa di politica internazionale occidentale sia reale che potenziale. Anche il rapporto AIEA è diventato così una occasione per dissentire con l'occidente, diventando, addirittura, secondo il Ministero degli Esteri russo, una fonte di tensione ed un fattore di destabilizzazione mondiale. In realtà nel confronto tra Iran e potenze occidentali sulla questione nucleare, irrompono sulla scena proprio Cina e Russia, nella probabile veste di alleati di Teheran; ma il presupposto diplomatico è il cavallo di Troia, dietro al quale si nascondono ragioni prettamente economiche. Per la Cina è la necessità di assicurarsi il petrolio iraniano, che è una componente essenziale del proprio fabbisogno energetico, per la Russia si tratta di portare avanti le ricche commesse stipulate con la Repubblica islamica proprio sul fronte della ricerca atomica. In questo quadro la tattica pensata da Obama per contrastare il programma atomico iraniano, che prevedeva una maggiore pressione sul paese persiano tramite l'inasprimento delle sanzioni ed il coinvolgimento proprio di Cina e Russia, pare destinato a naufragare ancora prima della partenza, come, peraltro, indicato chiaramente dal rifiuto delle due potenze a fare entrare nel novero delle sanzioni i settori energetici riguardanti gas e petrolio. Per gli USA, per evitare un eventuale scontro armato, non ci sarebbe altra soluzione che quella di imporre sanzioni in maniera quasi unilaterale, nel senso che tali sanzioni avrebbero senz'altro l'appoggio delle altre potenze occidentali, ma senza l'effetto ricercato di un fronte più esteso, che ne garantirebbe anche l'effettiva efficacia. Se la questione viene poi considerata dal punto di vista diplomatico risulta impossibile non rilevare una sempre maggiore spaccatura tra occidente con in testa gli USA, da una parte, e Cina e Russia dall'altra, che stanno praticando una palese politica di aggregazione di quelli che sono gli stati più in disaccordo con Washington. Se per la Cina lo scopo è di sottrarre sempre più terreno all'economia americana, per la Russia la questione pare quella di una ricerca, a tratti spasmodica, di recuperare quell'importanza internazionale che è andata scemando dalla fine dell'impero sovietico. Ma entrambi i casi indicano che i due paesi stanno conducendo una tattica pericolosa ed irresponsabile per la stabilità mondiale, che rischia di avere effetti incontrollabili per gli stessi conduttori del gioco.