Politica Internazionale

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venerdì 2 dicembre 2011

La Croazia entra in Europa

L'Unione Europea apre al suo membro numero 28. Il Parlamento europeo da il via all'allargamento con un voto segnato da una maggioranza piuttosto larga, confermando la votazione con un lungo applauso tributato al Presidente del parlamento croato Luka Bebic. Il processo si concluderà definitivamente con l'ingresso ufficiale il 1 luglio 2013, preceduto dalle firme sul trattato di adesione, la cui sottoscrizione è prevista per il giorno 7 dicembre, cui dovranno seguire le ratifiche da parte di tutti gli stati memebri della UE. Ora per i parlamentari croati si apre il periodo di osservatori, prima di diventare a tutti gli effetti componenti a pieno titolo dell'assemblea sovranazionale. Dopo la Slovenia, la Croazia è il secondo paese nato dalla dissoluzione della Jugoslavia e che ha affrontato il sanguinoso conflitto che ne è seguito, ad entrare nella UE. Per Zagabria si tratta di confermare i progressi effettuati sui casi ancora aperti relativi ai crimini di guerra, collaborare in maniera ancora più fattiva con gli altri paesi UE e gli organismi comuni nella lotta contro la criminalità organizzata e continuare le riforme economiche strutturali necessarie a garantire una permanenza nel consesso europeo stabile, specialmente in questa difficile fase di congiuntura economica mondiale.

giovedì 1 dicembre 2011

Sull'Afghanistan il Pakistan interdisce i progressi di pace.

Sull'incerto futuro afghano si addensano nubi nefaste. L'errore del bombardamento NATO, che ha provocato la morte di 24 soldati pakistani, viene usato da Islamabad come scusa per non partecipare alla conferenza indetta a Bonn sul futuro dell'Afghanistan. Il problema del destino del paese di Kabul sta rapidamente assumendo, da problema regionale, una dimensione più ampia, connessa con il fattore terrorismo ed i delicati equilibri diplomatici mondiali. Non secondario il fattore del disimpegno che gli USA stanno cercando assiduamente di operare dal conflitto per ragioni sia di politica interna che finanziaria. Per queste ragioni gli USA spingono maggiormente verso una soluzione più veloce possibile condivisa del problema afghano, attraverso la collaborazione dei paesi limitrofi, tra i quali, quello che riveste maggiore importanza è proprio il Pakistan. Ad Islamabad sono consci di questo potere ed a causa dei crescenti contrasti con Washington, tendono ad usarlo sempre in maniera più massiccia. Questo comporta una immobilità nella ricerca della soluzione del problema afghano, che lascia in stato di stasi anche la situazione militare. Infatti senza l'appoggio concreto dei pakistani è impossibile sconfiggere le forze talebane che agiscono al confine tra i due stati, trovando in Pakistan rifugio e basi logistiche, fondamentali per le loro azioni belliche. La questione ruota attorno alle reali intenzioni di Islamabad sulla questione afghana, sulla quale il Pakistan non si è mai dimostrato chiaro. La sempre presente rivalità con l'India, con la quale gli USA sono sempre più vicini, ed i nuovi rapporti di alleanza con la Cina, hanno aumentato la distanza tra Washington ed Islamabad, andando a ripercuotersi proprio sulla possibilità di risoluzione del problema afghano. Nonostante questa evidente difficoltà, la conferenza di Bonn mantiene la duplice finalità sia economica che politica, intimamente legate per la risoluzione del problema complessivo. La necessità di una indipendenza economica di Kabul è un obiettivo fondamentale per invertire la situazione attuale che registra una dipendenza economica del 90% dai finanziamenti esteri. Ma il nodo fondamentale è costituito dall'aspetto politico e squisitamente pratico è la gestione di quello che seguirà allo scadere del 2014 anno in cui la responsabilità della sicurezza del paese sarà trasferita alle forze afghane. Entro quella data dovrà essere cercata una soluzione con i talebani, trovando una qualche forma di dialogo in grado di favorire una integrazione con il governo legittimo. Ed è proprio in quest'ambito che si inquadra il rapporto con il Pakistan, senza una mediazione attiva di Islamabad con le milizie talebane, il problema è destinato a non trovare una soluzione, contemplando l'estensione temporale infinita del conflitto armato sulla linea di frontiera.

mercoledì 30 novembre 2011

Una critica al ruolo della Germania nell'attuale fase di crisi

La turbolenza economica dell'europa alimenta dissidi e potenziali contrasti di ampia portata tra gli stati. Bersaglio principale è la Germania, che in forza della propria capacità economica, si è, praticamente attribuita, oltre che il ruolo guida, non sancito da alcun avallo politico democratico, anche il ruolo di moralizzatore nei confronti dei paesi in difficoltà. Il disagio verso questo atteggiamento tedesco sta montando in maniera esponenziale negli ambienti politici, sopratutto dei paesi definiti come PIGS, che oltre le misure draconiane di cui sono oggetto, dietro cui si vede chiaramente la mano tedesca, patiscono anche l'atteggiamento paternalistico proveniente da Berlino. In effetti la Germania ha intrapreso una politica a senso unico in nome del solo rigore, tralasciando la fase espansiva necessaria per la crescita. Il forte sospetto è che Berlino voglia applicare all'area euro una politica economica di questo tipo per preservare la propria crescita, rafforzando così, oltre alla propria economia, il conseguente ruolo primario in eurolandia, senza dare alcuna o poche possibilità alla crescita degli altri paesi, sacrificandoli soltanto al recupero del loro debito, misura che andrebbe così a rafforzare l'euro e quindi la stessa Germania, che avrebbe quindi un vantaggio doppio dalle misure cui intende costringere gli altri paesi. Una ipotesi del genere inquadrerebbe una alleanza sbilanciata, se non una vera e propria forma di supremazia velatamente nascosta. Se questo ragionamento è vero le alternative sono due: espulsione dall'area euro dei paesi più deboli, ipotesi praticabile fino a che non si include tra questi l'Italia, i cui effetti di una esclusione sarebbero ancora più nefasti per la moneta unica, oppure continuazione dell'attuale area con però sacrifici sempre maggiori per i pesi più deboli. Anche dal punto di vista morale, costringere le popolazioni i cui governi non sono stati all'altezza della situazione, rappresenta un abuso da parte dell'Unione Europea, che tra l'altro, ha le sue colpe concrete, grazie al proprio immobilismo di fronte al sorgere del problema; è infatti opinione diffusa che una azione subitanea, effettuata cioè in tempi più rapidi avrebbe limitato i sacrifici da imporre alle popolazioni degli stati in oggetto. La richiesta di rigore tedesca è comprensibile ma deve essere stemperata con provvedimenti con possano dare speranze concrete alle popolazioni oggetto delle misue di sacrificio, in sintesi la Germania per potere esercitare il suo ruolo di leadership deve essere quella locomotiva economica che dice di essere, ma facendone ricadere i benefici anche al di fuori dei suoi stretti confini, solo così si giustificherà ancora l'esistenza dell'euro con la prospettiva dell'unione politica in virtù di una alleanza a tutti gli effetti.

Dietro all'assalto all'ambasciata inglese

Le modalità dell'assalto all'ambasciata inglese a Teheran sono quelle già viste in Siria e peraltro, tatticamente già sperimentate, contro l'ambasciata USA, quando il presidente era Carter. Quella che appare più evidente è la similitudine con gli atti di Damasco, una vera e propria scelta di colpire le sedi di rappresentanza dei paesi ritenuti nemici. Un avvertimento chiaro a non continuare con la politica contraria verso il paese dove sono ospiti, ma non per concessione, ma in virtù di accordi internazionali liberamente sottoscritti. Sembra evidente che vi è una unica mano dietro questa strategia e non è difficile individuarla nei servizi fedeli al presidente iraniano in carica, che è anche il suggeritore che sta dietro le repressioni siriane. Purtroppo sta diventando una prassi, usata anche però in Egitto, quella di assaltare le ambasciate che dovrebbero avere assicurata la protezione del paese dove operano. Violare questo precetto del diritto internazionale mette su una brutta china qualsiasi rapporto tra stati, non assicurare l'extraterritorialità è poco meno che una dichiarazione di guerra aperta, che implica, per il paese che compie questa violazione, intraprendere una strada di isolamento praticamente scontato. Potrebbe essere una nuova modalità per rompere accordi sottoscritti in maniera ufficiale, obbligando i paesi i cui uffici diplomatici sono stati violati, ad agire in modo unilaterale chiudendo le ambasciate e, di fatto, rendere lettera morta il trattato bilaterale firmato. Sembra proprio questa la strada intrapresa dal regime iraniano: obbligare alla chiusura le ambasciate dei paesi che vengono individuati come potenziali nemici che agiscono sul territorio con modalità spionistiche. Il tutto si inquadra nella lotta al nucleare iraniano ed ai mai chiariti attentati verso scienziati locali impegnati nello sviluppo della tecnologia atomica. Che sia vero o meno l'Iran vede dietro a questi attentati il Regno Unito (e gli USA, certamente, ma non è ancora venuto il momento per affrontarli in modo così aperto) ed in più da un chiaro avvertimento agli altri stati, di cosa può aspettarli se insistono nelle sanzioni. E' il contrario di un atteggiamento conciliante, una situazione precipitata con il rapporto AIEA, ed insieme una sorta di ammissione di colpa sui reali scopi della ricerca atomica intrapresa da Teheran. In questo modo la strada è segnata: da un lato l'Iran vuole liberarsi della presenza dei diplomatici occidentali perchè tutti potenziali spie, dall'altro lato viene scelto il muro contro muro contro la comunità internazionale ed in special modo con l'occidente. Il Presidente iraniano spera ancora di potere agire contro gli USA ed i suoi alleati in virtù delle ampie discordanze che essi hanno con Cina e Russia, e sul breve periodo ha qualche ragione: in questo momento l'atteggiamento di Mosca e Pechino è di forte distanza da Washington, ed anche il nucleare iraniano è una leva da fare valere in un raggio più ampio dei rapporti tra questi colossi; ma se l'Iran riuscisse a raggiungere veramente l'obiettivo dell'atomica, anche i rapporti regionali, data la vicinanza con Cina e Russia, andrebbero per forza a cambiare. Se invece di girare le rampe dei missili verso ovest, Teheran le ruotasse verso est, la gittata degli ordigni nucleari potrebbe raggiungere facilmente i loro territori. E' una ipotesi remota, ma nessuno può prevedere l'evoluzione delle dinamiche dei rapporti tra gli stati, con la velocità dei cambiamenti, caratteristici di questa fase storica. Mosca e Pechino stanno conducendo un gioco molto pericoloso di cui potrebbero diventare a loro volta vittime, una minaccia di un'atomica in più, specialmente in mano a regimi non che non proprio garantiscono una condotta univoca, non è comunque da sottovalutare, anche per il solo fatto di potere potenzialmente variare rapporti di forza militare certi ed abbastanza definiti. L'attacco all'ambasciata inglese deve quindi fare suonare un campanello d'allarme non solo nella NATO e nell'occidente ma in tutto il consesso mondiale, sopratutto per quello che sotto intende, oltre alla gravità del fatto in sè, verso possibili negativi sviluppi per l'equilibrio mondiale.

martedì 29 novembre 2011

L'affermazione dei movimenti islamici impone un nuovo approccio dei governi occidentali

L'atteggiamento dell'occidente nei confronti della primavera araba è stato di sostegno materiale e, salvo alcune eccezioni, di simpatia generalizzata. Nell'ottica democratica occidentale la caduta dei tiranni arabi, cui peraltro l'aspetto funzionale ai governi dell'ovest è risultato acclarato, è stata inquadrata nell'ottica positiva di un possibile sviluppo democratico della forma di governo di questi paesi. Tuttavia le ipotesi di un indirizzamento verso la predominanza di movimenti di tipo laico, più conformi al modello occidentale, stanno venendo progressivamente meno in virtù delle massiccie affermazioni elettorali di formazione di ispirazione islamica. Si tratta, è vero, di partiti di indirizzo moderato, in cui la componente islamica, pur ricoprendo la centralità dell'azione politica, non si richiama praticamente mai a sistemi violenti dell'affermazione dell'islamismo entro i confini sia della società, che dello stato stesso. Ma la connotazione, che resta profondamente religiosa, rischia comunque di costituire un ostacolo nei rapporti con i governi occidentali, proprio sulla dialettica del confronto, in vista di una maggiore integrazione tra queste parti, che mirano, entrambe a trovare nuovi terreni di dialogo. La preoccupazione, da parte occidentale, è di non riuscire a trovare intese praticabili nei rapporti tra gli stati, più facile dialogare con dittatori che davano un'impronta occidentale ai loro paesi, gli esempi di Egitto e Tunisia, a questo scopo sono altamente esemplificativi. Quello che sorprende è che l'ocidente non fosse preparato a risultati elettorali del genere in paesi dove l'unica struttura sociale alternativa al soffocante abbraccio dei regimi era rappresentata soltanto dal rifugio religioso. Piuttosto può essere un elemento di novità l'affermazione dei partiti islamici anche in Marocco, governato da una monarchia più illuminata rispetto ai governi dei paesi vicini. In questo caso il fattore di emulazione con gli stati contigui può essere una spiegazione. In assoluto il fatto è lampante, il risultato democratico parla chiaro e non può essere confutato con ritorni al passato o paure che devono essere superate ad ogni costo. Quello che deve cambiare è la disposizione verso movimenti di natura teocratica che imporranno inevitabilmente nei loro paesi modi di vita nettamente in contrasto con gli usi occidentali. D'altro canto questo è quello che è emerso o sta emergendo dalle indicazioni delle urne, vi è una omogeneità dei corpi elettorali delle nazioni al voto, che indica un bisogno, quasi fisiologico di regolare le società che si sono affrancate dai regimi in maniera più orientata ai valori religiosi propri, quasi a sviluppare una reazione ad una identificazione dei valori occidentali alle dittature decadute. Se questo è vero, rappresenta un punto fondamentale da cui partire per stabilire contatti consoni con i nuovi governi, trovando quel terreno d'intesa fondamentale nel rispetto dei nuovi indirizzi assunti, che contemplano una applicazione pratica dei precetti islamici. Questo punto deve essere, anzi coltivato in maniera assidua in maniera da non favorire una deriva estremista, intensificando i rapporti di vicinanza e di collaborazione in modo di favorire il rispetto e la comprensione reciproca.

lunedì 28 novembre 2011

Hamas ed Al fatah più vicini

Anche in Palestina si comprende l'importanza di annullare nel modo maggiormente possibile le differenze tra le due formazioni di più grande peso. Se questo è obiettivamente un progetto ancora troppo ambizioso, per le note distanze, l'avere compreso che intessere sempre maggiori legami tra i due movimenti rappresenta l'unico viatico per trovare quella unità del popolo palestinese necessaria alla costruzione dello stato. L'incontro avvenuto ad Il cairo il 25 novembre cerca di percorrere pienamente questa direzione, almeno nella forma dove si usa la rassicurante formula di avere rimosso ogni divergenza tra le due parti, cosa, ovviamente non vera, ma che segnala l'ampia volontà delle due formazioni di trovare un'intesa comune sempre crescente. Il primo appuntamento di rilievo concordato, entro il piano più vasto ed ambizioso di riconciliazione nazionale, sono le elezioni previste per il prossimo maggio. Si tratta, è bene dirlo subito, di una data che difficilmente potrà essere rispettata, perchè frutto di una previsione troppo ottimistica, minata dalle sempre presenti difficoltà di trovare una intesa sulla costruzione del nuovo esecutivo palestinese. Intorno alla questione del governo ruota l'accordo di riconciliazione nazionale, che doveva essere il collante principale per la ricostruzione dello strappo tra i due movimenti avvenuto quatro anni prima. In particolare Hamas si è irrigidito nella propria contrarietà al nome designato da Al Fatah, che altri non è l'attuale premier in carica: l'ex economista della Banca mondiale Salam Fayyad. Tuttavia sull'altro punto cruciale, che anzi ha risvolti programmatici ben maggiori, l'intesa è netta e rappresenta l'istituzione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Anche sul piano militare la necessità di mantenere la tregua con Israele è condivisa da entrambe le parti; ciò significa molto, sopratutto per Hamas, perchè si riconosce che il processo di pace deve essere perseguito senza atti di terrorismo. Si tratta di una posizione che, tra l'altro, mette in grossa difficoltà Israele, che conta sull'estremismo di Hamas per trovare giustificazioni sempre nuove alla politica violenta del governo in carica di Tel Aviv, sopratutto sul tema delle colonie abusive che vengono di fatto permesse da Netanyahu. Inoltre la sempre minore divisione tra i due maggiori movimenti palestinesi mina una dei caposaldi della politica israeliana che contava, ed alimentava questa divisione proprio per allontanare lo spettro della creazione dello stato palestinese. Dietro il pesante lavorio per la distensione e l'accordo tra i movimenti palestinesi si distingue e si muove l'azione egiziana, che ritiene fondamentale per il grande paese confinante la creazione dello stato palestinese, come fattore di stabilizzazione regionale e l'allontanamento definitivo del problema alle proprie frontiere. Del resto una situazione stabilizzata su questo fronte, che da troppi anni mantiene una temperatura troppo elevata, va al di la del benessere del medio oriente ma riguarda il mondo intero. Una regolarizzazione definitiva della questione che comprendesse finalmente la creazione dello stato di Palestina, toglierebbe parecchie argomentazioni ad un estremismo islamico sempre più crescente ed operante in diverse aree del pianeta.

venerdì 25 novembre 2011

Dietro alla crisi dell'Euro

Sulle prospettive dell'euro ormai le ipotesi si sprecano. Mai come in questo momento, dove perfino i titoli tedeschi vanno invenduti, non vi è alcuna certezza, addirittura sulla vita della moneta unica europea. E' una situazione paradossale, fino all'estate, ma anche dopo, l'euro era la divisa più forte, tanto da sostituire, in alcune economie, il dollaro come moneta di riferimento. L'avvitamento di alcune economie, prima fra tutte quella greca, che si è scelto di non salvare fin da subito con interventi strutturali da parte dell'Europa, dispensando, viceversa, anche con ragione, consigli e rimbrotti, ha rotto la diga che ha permesso alla speculazione di sfondare, trascinando nella difficoltà altri paesi, ben più pesanti nella complessità del sistema. Ma perchè proprio ora l'euro è entrato in difficoltà, quando le condizioni erano già presenti e conosciute prima? La sola spiegazione della speculazione non può convincere completamente, non può essere soltanto una somma di speculatori tesi a guadagnare dalla sconfitta dell'euro a determinarne la sua possibile fine. E' vero che sono stati fatti errori marchiani e ripetuti da più di un soggetto che doveva regolamentare e sopratutto vigilare sulla questione, ma questo può bastare a decretare una simile e rovinosa caduta? Il sospetto che ci sia una o più mente pensante dietro a questo sviluppo di cose non può non sfiorare chi è spettatore dei fatti. Senza dubbio, anche se sul lungo periodo, una caduta dell'euro, con il ritorno a tutta la frammentazione delle singole monete nazionali, sopratutto senza una organicità univoca dell'economia europea, conviene sia alla Cina che agli USA. L'Europa, forse tranne la Germania, che sarebbe però fortemente indebolita, diventerebbe un conveniente mercato da colonizzare, non solo in senso strettamente economico, ma anche politico. La difficoltà sarebbe riuscire ad assorbire un periodo dove il principale cliente di Pechino e Washington, non sarebbe più in grado di ricevere le merci, fatto parzialmente bilanciato dalla nuova condizione europea di non essere più un concorrente pericoloso. In questa fase la contrazione delle vendite potrebbe essere ulteriormente compensata indirizzando il flusso di vendita verso nuovi mercati in espansione e l'incremento verso la clientela dei maggiori paesi emergenti. L'Europa, divisa e con le monete locali tornate in auge, sarebbe costretta, specialmente nelle economie più deboli a fare ricorso a politiche inflattive per ricercare maggiore competitività per i propri prodotti, ma nel contempo sarebbe costretta ad un indebitamento incontrollato per l'approvigionamento delle materie prime, diventando cosi' preda di potenze dotate di maggiore liquidità. E' una prospettiva reale, che si può ostacolare soltanto con l'unità continentale di tipo politico, anche soluzioni più ristrette, mantenendo cioè una unione monetaria dei soli paesi con economie virtuose, come prospettato da alcune ipotesi, si arriverebbe soltanto ad un soggetto comunque più debole nell'agone internazionale, non in grado di avere il sufficiente peso politico per bilanciare il peso dei soggetti più grandi. Se tale ipotesi può sembrare fantapolitica, si pensi alla strategia cinese di riempire di immigrati con grandi disponibilità economiche, che quindi generano più di un sospetto sulla reale necessità di lasciare la loro terra di origine, i paesi occidentali. Tale metodo appare chiaramente guidato da una strategia politica alle spalle del fenomeno, che contempla una sorta di invasione dal basso nelle strutture produttive del paese oggetto dell'immigrazione. Queste avanguardie costituiscono l'inizio della colonizzazione sopratutto perchè rifiutano una integrazione con il tessuto sociale pre esistente, rinchiudendosi in comunità a se stanti, che finiscono per fornire argomenti ad i gruppi e partiti localistici, che tanto premono su queste tematiche. Ancora una volta l'antidoto è il rafforzamento dell'unione politica continentale, per rinforzare e rilanciare la moneta unica, unico baluardo sicuro contro le speculazioni economiche.