Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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venerdì 3 febbraio 2012
Più concreta la possibilità dell'intervento unilaterale di Israele contro l'Iran
Si alzano i timori per un intervento unilaterale israeliano contro le installazioni dove l'Iran starebbe costruendo la bomba atomica. Le cause scatenanti di questa decisione sarebbero le conclusioni a cui sono giunte le istituzioni di Tel Aviv, sulla base di rapporti del servizio segreto israeliano, che parla addirittura della probabilità che Teheran sia in grado di costruire ben quattro ordigni atomici in tempi più brevi del previsto, essendo ben più avanti, dal punto di vista tecnologico, di quanto fino ad ora stimato, sopratutto dai servizi USA. Stando così le cose l'attacco israeliano potrebbe verificarsi entro la prossima primavera, scatenando una guerra con conseguenze difficilmente prevedibili. Oltre alle implicazioni militari, infatti, il danno agli equilibri sia della regione che mondiali subirebbero un sovvertimento totale, sconvolgendo, sopratutto le posizioni dei paesi arabi di fronte ad una azione solitaria di Israele, effettuata oltretutto senza l'accordo e l'avvallo degli USA. Sebbene Obama abbia più volte ricompreso l'opzione militare tra il ventaglio delle possibilità, la vera intenzione del Presidente USA è di accedere a questa eventualità come soluzione ultima: in questa ottica si inquadra il grande lavoro diplomatico per coinvolgere la maggior parte delle nazioni ad aderire alle sanzioni contro l'Iran, in maniera di sviluppare anche un fronte internazionale, più o meno compatto, contro lo sviluppo degli armamenti nucleari iraniani. Dal punto di vista squisitamente bellico, Israele ha le capacità balistiche di colpire le installazioni iraniane che si trovano a d oltre 200 metri di profondità, al contrario l'Iran dispone di missili la cui gittata può facilmente raggiungere il territorio israeliano e nonostante la sicurezza ostentata dai vertici di Tel Aviv, sulla propria capacità di difesa, quella che si può innescare è una vera e propria ecatombe su di un lato del Mediterraneo. In ogni caso non sembra possibile che sia Teheran a fare la prima mossa, per l'Iran l'attacco preventivo ufficiale non ha senso, piuttosto la tattica portata avanti dalla Repubblica islamica, peraltro in parallelo con Tel Aviv, è quella di portare avanti una guerra parallela fatta di attentati ed assassini singoli, che non fa altro che aumentare la tensione. Il fatto della sospensione di manovre militari congiunte tra USA ed Israele, nonostante le smentite, ha innalzato i sospetti di un contrasto tra le due amministrazioni proprio sulla questione dell'intenzione dell'attacco preventivo israeliano, sul quale esiste anche una previsione su quando questa azione potrebbe avvenire; la previsione è per la primavera prossima, saremmo quindi a pochi mesi di distanza dal probabile inizio di una nuova guerra. Se si dovesse concretizzare anche il mancato accordo con la mancanza di comunicazione dell'attacco da parte di Tel Aviv a Washington, potrebbe aprirsi una nuova fase circa i rapporti tra i due stati, anche se su questa ipotesi pesa la variabile di chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti; in ogni caso appare poco probabile che gli USA abbandonino Israele, anche nel caso dell'attacco unilaterale, tuttavia se l'esercito a stelle e strisce sarà trascinato in una guerra controvoglia le conseguenze sui rapporti diplomatici non potranno non farsi sentire, andando a toccare gli equilibri regionali a sicuro svantaggio di Israele. Peraltro l'opinione pubblica israeliana è sempre più divisa sulla reale convenienza di bombardare gli impianti iraniani, gli scettici, tra cui si annovera il capo dell'esercito, temono le conseguenze per la popolazione civile, nell'immediato, e la difficile collocazione del paese sullo scenario internazionale, dopo un attacco militare non concordato non solo con i principali alleati ma neache sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. La questione diplomatica internazionale, pare, infatti, l'ultima preoccupazione del governo israeliano di fronte all'argomento, che continua a farsi forte dei rapporti consolidati con gli USA, senza metterne in conto un probabile deterioramento. Chi propugna l'intervento unilaterale pare ragionare in preda al panico, in un certo modo giustificato, ma non pare soppesare adeguatamente le conseguenze pratiche di una tale azione. Nelle ragioni di chi propende all'intervento occorre però considerare che l'Iran sta avanzando nel suo programma nucleare, malgrado gli effetti delle sanzioni, ed uno o più ordigni atomici in mano ad Ahmadinejad, costituiscono un pericolo immediato per Israele ma che possono essere anche un fattore di condizionamento geopolitico per altri stati, tra cui paesi come l'Arabia Saudita, tradizionale avversario nelle dispute religiose con Teheran. Vedendo la questione da questa angolazione, pur non giustificando la soluzione militare, appare chiaro come sia necessaria una azione che oltrepassi la responsabilità assunta dall'amministrazione Obama, di essere il catalizzatore della pratica delle sanzioni economiche contro l'Iran. Quello che manca è la concreta assunzione di responsabilità di un soggetto sopra le parti come dovrebbero essere le Nazioni Unite, anche se i veti incrociati di Cina e Russia, pongono chiaramente dei freni a questa soluzione. Tuttavia se si verificasse un conflitto di tale portata, sarebbe ai confini dei due colossi, oltre alle ovvie ricadute economiche in un momento in cui la congiuntura appare sfavorevole per il mondo intero. Resta quindi poco tempo per evitare una deriva la cui pericolosità non è circoscritta alla regione e che soltanto una incessante opera diplomatica unitaria può scongiurare.
giovedì 2 febbraio 2012
Perchè la creazione dello stato palestinese può diventare realtà
L'ONU sembra riportare al centro della propria azione la questione tra Israeliani e Palestinesi. La missione programmata da Ban Ki-Moon, porterà il Segretario delle Nazioni Unite in una giro diplomatico che dalla Giordania lo porterà in Cisgiordania, striscia di Gaza ed infine Israele. L'intenzione della massima autorità dell'ONU è quella di fare ripartire i negoziati per raggiungere l'ambizioso obiettivo di un accordo entro l'anno che preveda, finalmente, la costituzione di due stati sovrani separati. La soluzione è caldeggiata anche dal Quartetto (USA, UE, ONU e Russia), che spinge per la definizione della questione. Ma le possibilità di vedere concretizzarsi il successo del piano si scontrano con la mancata ripresa del dialogo tra le due parti, che sono state invitate da Ban Ki-Moon ad evitare possibili provocazioni che possano pregiudicare il corso delle trattative, che dovranno trovare un terreno di reciproca fiducia. L'esposizione in prima persona del Segretario dell'ONU, che sarà impegnato in una fitta agenda di incontri con le più alte personalità sia palestinesi, che israeliane, intende dare un nuovo impulso ai colloqui tra le due parti, al momento arenate per la questione della politica degli insediamenti dei coloni nei territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, praticata dal governo israeliano.
In questo senso anche il Partito di maggioranza del Likud, ha espresso una chiara indicazione, confermando Netanyahu alla guida del partito, durante le primarie con il 74% dei voti, nei confronti del rappresentante dei coloni Moshe Feiglin, che ha riscosso soltanto il 24% dei consensi. Questo risultato, pur inquadrato in una formazione di destra, come è quella del partito al potere, fornisce un chiaro segnale alla dirigenza del Likud, auspicando la fine o almeno la diminuzione della pratica degli insediamenti come strumento per accedere al tavolo delle trattative. Peraltro questa tendenza è ormai consolidata tra gli israeliani meno moderati e che in genere si riconoscono nei partiti all'opposizione e che spingono per la soluzione propugnata dall'ONU, cioè quella dei due stati indipendenti. Sulle ragioni di questa accelerata data dalle Nazioni Unite per il compimento del processo di pace occorre fare alcune riflessioni. Sulla necessità del raggiungimento delle finalità del progetto spingono molto gli Stati Uniti, che hanno la necessità di trovare la regione pacificata e con i due stati ben definiti al momento di un'eventuale scoppio di un conflitto con l'Iran. Garantire la neutralità dello stato palestinese, ancor prima che un'esigenza tattica è una condizione politica essenziale per delegittimare da qualsiasi auto proclamazione di esercito di liberazione dei territori arabi, Teheran. Tolta questa giustificazione, capace di portare alla mobilitazione gruppi estremisti, ma anche nazioni, capaci anche solo di fornire appoggio diplomatico all'Iran, la Repubblica Islamica si troverebbe ancora più isolata, sul panorama internazionale ed praticamente incapace di sferrare con i suoi missili l'attacco ad Israele, per le conseguenze, anche politiche che ne deriverebbero. Del resto i tempi stretti che Ban Ki-Moon vuole percorrere per la creazione dei due stati, sembrano essere studiati apposta per arrivare prima del compimento dell'atomica iraniana, che nella migliore delle ipotesi è data per certa in tre anni, ma che i progressi acquisti dai tecnici nucleari di Teheran potrebbero riuscire ad approntare prima. Con la creazione dello stato Palestinese e la praticamente certa pacificazione della regione, per Washington ci sarebbe anche maggiore libertà di manovra per un attacco preventivo, soluzione su cui Israele spinge da tempo. Ma politicamente è ben diverso scegliere una soluzione del genere senza più il problema palestinese sullo scenario internazionale. Questa ragione potrebbe così andare a costituire un ottimo motivo per anche per Israele per accelerare il processo di pace, giacchè in questo momento la minaccia iraniana appare molto più al centro dell'attenzione del governo di Tel Aviv. In definitiva se questo scenario dovesse avverarsi per Ahmadinejad, sarebbe il fallimento politico e diplomatico totale, quindi il pericolo maggiore a questo punto consiste nell'attuazione di attentati contro cose e persone israeliane compiute dai servizi iraniani e fatti ricadere sui palestinesi per bloccare la nuova partenza delle trattative.
In questo senso anche il Partito di maggioranza del Likud, ha espresso una chiara indicazione, confermando Netanyahu alla guida del partito, durante le primarie con il 74% dei voti, nei confronti del rappresentante dei coloni Moshe Feiglin, che ha riscosso soltanto il 24% dei consensi. Questo risultato, pur inquadrato in una formazione di destra, come è quella del partito al potere, fornisce un chiaro segnale alla dirigenza del Likud, auspicando la fine o almeno la diminuzione della pratica degli insediamenti come strumento per accedere al tavolo delle trattative. Peraltro questa tendenza è ormai consolidata tra gli israeliani meno moderati e che in genere si riconoscono nei partiti all'opposizione e che spingono per la soluzione propugnata dall'ONU, cioè quella dei due stati indipendenti. Sulle ragioni di questa accelerata data dalle Nazioni Unite per il compimento del processo di pace occorre fare alcune riflessioni. Sulla necessità del raggiungimento delle finalità del progetto spingono molto gli Stati Uniti, che hanno la necessità di trovare la regione pacificata e con i due stati ben definiti al momento di un'eventuale scoppio di un conflitto con l'Iran. Garantire la neutralità dello stato palestinese, ancor prima che un'esigenza tattica è una condizione politica essenziale per delegittimare da qualsiasi auto proclamazione di esercito di liberazione dei territori arabi, Teheran. Tolta questa giustificazione, capace di portare alla mobilitazione gruppi estremisti, ma anche nazioni, capaci anche solo di fornire appoggio diplomatico all'Iran, la Repubblica Islamica si troverebbe ancora più isolata, sul panorama internazionale ed praticamente incapace di sferrare con i suoi missili l'attacco ad Israele, per le conseguenze, anche politiche che ne deriverebbero. Del resto i tempi stretti che Ban Ki-Moon vuole percorrere per la creazione dei due stati, sembrano essere studiati apposta per arrivare prima del compimento dell'atomica iraniana, che nella migliore delle ipotesi è data per certa in tre anni, ma che i progressi acquisti dai tecnici nucleari di Teheran potrebbero riuscire ad approntare prima. Con la creazione dello stato Palestinese e la praticamente certa pacificazione della regione, per Washington ci sarebbe anche maggiore libertà di manovra per un attacco preventivo, soluzione su cui Israele spinge da tempo. Ma politicamente è ben diverso scegliere una soluzione del genere senza più il problema palestinese sullo scenario internazionale. Questa ragione potrebbe così andare a costituire un ottimo motivo per anche per Israele per accelerare il processo di pace, giacchè in questo momento la minaccia iraniana appare molto più al centro dell'attenzione del governo di Tel Aviv. In definitiva se questo scenario dovesse avverarsi per Ahmadinejad, sarebbe il fallimento politico e diplomatico totale, quindi il pericolo maggiore a questo punto consiste nell'attuazione di attentati contro cose e persone israeliane compiute dai servizi iraniani e fatti ricadere sui palestinesi per bloccare la nuova partenza delle trattative.
mercoledì 1 febbraio 2012
Pericolo terrorismo per gli USA alla vigilia delle presidenziali
Per gli Stati Uniti, che stanno entrando nel pieno della campagna elettorale, si aprono due problemi non poco rilevanti sul tema del terrorismo, che se andassero ad intrecciarsi, potrebbero portare problemi di elevato livello per la sicurezza nazionale. Il primo aggrava i rapporti tra USA e Pakistan, dopo che la stampa britannica ha divulgato un rapporto confidenziale della NATO, dove si accusa esplicitamente Islamabad di fornire aiuto ai talebani afghani. Il fatto in se stesso non rappresenta una grossa novità, nei rapporti tra i due stati, che si sono più volte accusati di reciproche scorrettezze militari e che hanno visto il deteriorarsi delle relazioni diplomatiche, malgrado i tentativi, più volte praticati, da ambo le parti di ricucire la situazione. In questo quadro il dossier della NATO, che non aggiunge nulla di particolarmente rilevante alla situazione in essere, rappresenta solo un pretesto per il governo pachistano per riscaldare gli animi, parlando di una inutile ingerenza negli affari interni di uno stato straniero. Il rapporto in effetti ha nelle sue conclusioni più rilevanti l'accusa diretta al servizio segreto pachistano di fornire aiuto materiale ai talebani che hanno le basi al confine afghano. Ma anzichè smentire con una politica di contrasto degli estremisti islamici, il governo pachistano si limita a patetiche lamentele diplomatiche, che non fanno altro che aumentare la confusione dei fatti in divenire. La realtà è che quello che dice il rapporto dell'Alleanza atlantica, oltre che essere vero è risaputo, ed è il punto focale che determina l'incertezza tra i due paesi, in una fase di stallo del conflitto afghano, dove gli USA avrebbero necessità di una accelerata, per una definizione che possa portare ad eventuali trattative, Washington da almeno punti di forza maggiormente consolidati. Sul perchè Islamabad a parole continui a definirsi un sincero alleato degli americani le ragioni sono diverse, ma prima fra tutte è il mancato controllo effettivo del territorio al confine con Kabul da parte degli organismi centrali, a cui va aggiunta una considerevole fetta del paese che non vede di buon occhio l'alleanza con gli USA. In queste zone grigie si muovono probabilemente fasce deviate dei servizi segreti che fanno il doppio gioco, sia per interessi economici, sia per assicurare alla capitale del paese ed ai suoi gruppi dirigenti, un certo grado di salvaguardia da attentati possibili da parte di elementi talebani. Considerare il Pachistan nel suo complesso un alleato affidabile è ormai un dato soltanto sulla carta per gli USA, che però non trovano o non possono fare altrimenti, un soggetto, non necessariamente rappresentato da una nazione, in grado di coprire questo buco strategico. Nonostante tutto gli USA cercano di salvare la faccia, anche per cercare di mantenere quei pochi rapporti definiti affidabili, ed hanno declassato il rapporto soltanto in una raccolta di commenti dei talebani catturati, che non rappresentano ufficialmente la posizione della NATO. Ma le difficoltà diplomatiche con il Pachistan rischiano di passare in secondo piano se confrontate con la sensazione dei servizi segreti USA, che considera possibile una campagna terroristica da lanciare in grande stile sul territorio americano da parte dell'Iran. L'ipotesi può essere plausibile visto che Teheran è ormai messa all'angolo dagli effetti delle sanzioni per il problema atomico e ritiene Washington, oltre che il responsabile della situazione, anche più facilmente vulnerabile rispetto ad Israele. Il regime iraniano vedrebbe questa possibilità come la risposta concreta più praticabile in risposta all'atteggiamento americano, non potendo sostenere un confronto in campo aperto con le forze USA, sia per mare con il più volte minacciato blocco di Hormuz, ne con l'eventuale bombardamento di Israele, di cui evidentemente teme la risposta militare. A questo punto scartate le opzioni di cui sopra, una tattica di guerriglia da condurre sul suolo americano diventerebbe l'unica via praticabile, sia dal punto di vista logistico che economico. La minaccia è ritenuta concreta ed è qui che si potrebbe verificare una saldatura, a livello operativo, visto che già esiste a livello diplomatico informale, tra Teheran, i Talebani e quei settori deviati dei servizi segreti pachistani che vedono la presenza USA ai loro confini come una vera e propria forza di occupazione, che, tra l'altro, ha più volte operato sul territorio di Islamabad con sconfinamenti non autorizzati, il cui esempio più eclatante è l'operazione legata all'eliminazione fisica di Osama Bin Laden. Il momento della campagna elettorale, per le presidenziali americane, rappresenterebbe un palcoscenico di maggior rilevanza mediatica per colpire gli USA al loro interno, andando ad indebolire il riconquistato senso di sicurezza degli americani e gettando nel caos una nazione divisa nelle fazioni in lotta per la più alta carica del paese.
martedì 31 gennaio 2012
La Russia non condanna Assad
Dietro al peggioramento della situazione in Siria, dove aumentano i morti per le repressioni di Assad, vi è anche la mancata compattezza del mondo diplomatico. Infatti, se da una parte UE ed USA, ma non solo, visto le ultime risoluzioni della Lega Araba, spingono per una risoluzione della situazione, che tarda però ad arrivare, e si interrogano sulle possibili modalità di intervento per fermare le vere e proprie strage che si stanno compiendo sul territorio siriano, Cina, ma sopratutto Russia, frenano, sopratutto in sede ONU, ogni eventuale azione di contrasto al regime di Damasco. Si è tentato di interpretare più volte questa tendenza con l'assunto fondamentale che governa la politica estera dei due colossi ex comunisti, che si concretizza nella minore ingerenza possibile negli affari interni degli altri stati. Anche la scottante esperienza, per il loro punto di vista, che i due stati hanno vissuto con l'astensione all'intervento in Libia, concessa dopo molti dubbi e perplessità, nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha dato il via al conflitto contro Gheddafi, costituisce un precedente pericoloso per riuscire a coinvolgere Mosca e Pechino in un'altra azione analoga, anche solo a livello diplomatico, questa volta contro la Siria. I governi dei due paesi sono ritornati più volte su quell'astensione, strappata quasi con l'inganno dall'Occidente, come errore di politica internazionale da non ripetere nella loro azione sul panorama internazionale. Tuttavia ciò potrebbe non essere sufficiente a giustificare, ma sopratutto a comprendere, la mancata azione contro la violenza di Assad. Ciò vale per la Cina ma ancora di più per la Russia, che ha, invece, altre ragioni per contrastare, con la sua immobilità, i pur flebili tentativi di mettere un fermo a quella che è ormai diventata una vera e propria guerra civile, dove hanno perso la vita oltre cinquemila persone. Per Mosca, alle prese con l'indipendentismo delle Repubbliche del Caucaso, Assad costituisce una diga, che impedisce l'allargamento delle istanze dei ribelli siriani ai suoi territori. La Russia per continuare a coltivare sogni di grande potenza, cioè di ritornare ad essere tale, deve impedire ogni possibile forma di disgregazione dei suoi territori, ma non solo, deve evitare di avere stati ai suoi confini dove l'islamismo più estremo possa prendere il potere. Ma non sono solo gli assetti geopolitici a preoccupare Mosca, la Siria di Assad rappresenta un partner commerciale importante per la Russia nel mercato degli armamenti, grazie ai consistenti acquisti fatti da Damasco per rimodernare il proprio arsenale. Inoltre la flotta militare russa è presente, con una sua base, nel territorio siriano, nella città di Tartus. Esistono quindi dei motivi che vanno al di là della regola del non intervento negli affari interni di un paese straniero, che Mosca afferma caratterizzare la propria politica estera. Ma questa posizione della Russia appare di insostenibile immobilità di fronte ai possibili problemi che potrebbero nascere dalla caduta di Assad; l'azione del governo russo, con questa condotta, rivela un atteggiamento di mancata novità rispetto alle questioni che si evolvono nella periferia del suo territorio e che non sembra essersi evoluto di molto rispetto alle posizioni sovietiche. Senza una prospettiva di più larghe vedute, nel tempo, la Russia è destinata a capitolare su quegli argomenti che ora la tengono ancorata su posizioni di estrema prudenza diplomatica. Non affrontare con una politica lungimirante i problemi che la assillano dall'interno in specifiche porzioni del suo territorio, rende Mosca una potenza incompiuta e di secondo piano e che, malgrado le sue risorse naturali, non può contare nemmeno sullo strapotere economico che caratterizza la Cina. Viceversa risolvere i conflitti indipendentisti e le difficili relazioni con l'avanzamento della religione islamica, senza ricorrere all'uso della forza, ma con una politica più democratica, potrebbe permettere a Mosca di essere più libera anche sul piano internazionale, senza dovere contare su alleanze, ormai insostenibili come quella siriana.
lunedì 30 gennaio 2012
Sulla Grecia l'intollerabile proposta tedesca
La pretesa tedesca di mettere sotto la tutela di un commissario UE il paese greco, va oltre ogni possibile intrusione tollerabile. Se messa in atto questa misura significherebbe la fine della sovranità del popolo ellenico sul suo territorio e la sua gestione ed andrebbe a costituire un precedente pericoloso, che la dice lunga sulle velleità della Germania. Nonostante la difficile situazione, più volte definita disperata, della Grecia, non si può dire che il governo di Atene non abbia sottoposto i suoi cittadini a misure economiche durissime, che ne hanno peggiorato in maniera considerevole la qualità della vita. Non è questa la sede, ne l'intento, per valutare la validità di questi provvedimenti, ma piuttosto registrare un fatto di rilevanza politica internazionale di una gravità inaudita. A prescindere dalle cause del disastro greco, sul quale però è bene ricordare i lauti guadagni anche delle banche tedesche, risulta inconcepibile come nel 2010 un paese possa volere imporre la propria volontà su di un'altro in maniera così sfacciata, ed ancora più grave è che ciò accada nella cornice dell'Unione Europea e nel quasi totale silenzio delle istituzioni centrali di Bruxelles. E' pur vero che la Germania è ormai il socio di maggioranza dell'euro, ma un simile comportamento non è tollerabile, perchè mina le fondamenta stesse dell'Europa. Diventa così necessario mettere un freno a questa volontà dirigista della Merkel, che sconfina in un autoritarismo da fermare ad ogni costo. Le ragioni di una tale sortita, vanno ricercate nella difficoltà della cancelliera con il proprio corpo elettorale, che non comprende che le ragioni della sopravvivenza stessa dell'economia tedesca sono intimamente legate alla salvezza dell'euro. Ma tale difficoltà non giustifica lo scivolone politico commesso nel volere togliere la propria sovranità alla Grecia. La dichiarazione d'intenti della Merkel diventa così un pericoloso programma, che rischia di diventare un precedente autoritario da applicare ad altri paesi in crisi, andando a prefigurare scenari inquietanti come la sospensione delle regole e della vita democratica, in nome di dati economici poco chiari e verificabili. E' chiaro che questa allerta vale non solo per la Germania ma per ogni altro attore che volesse farsi portatore di simili iniziative. Infatti non sarebbe tollerabile nemmeno se la proposta fosse venuta dalle Istituzioni Europee centrali, perchè sarebbe comunque una violazione del diritto internazionale ed andrebbe a costituire una interruzione dell'esercizio della sovranità democratica di un intero popolo. Questa evoluzione delle possibili soluzioni della crisi dell'euro costituisce una casistica fin qui non prevista dagli analisti politici, che dovranno colmare in fretta questo vuoto. Infatti, nonostante si speri che questa soluzione non sia praticata, occorre immaginare i possibili scenari che potrebbero innescarsi. Obiettivamente è molto difficile che qualsiasi nazione, sopratutto occidentale, possa accettare una tale risoluzione, inoltre la Grecia è uscita da una dittatura in tempi relativamente recenti e volerne imporre un'altra, per di più di matrice straniera, non sembra la migliore soluzione per salvare la moneta unica. Forse l'intenzione della Merkel era una dichiarazione ad uso e consumo interno, ma se così fosse, appare impossibile non rilevare l'imperizia di chi guida la prima nazione europea. Viceversa se quanto dichiarato corrisponde ad una reale intenzione la cosa che avrebbe dovuto scattare immediatamente, dovrebbe essere stata una univoca dichiarazione dei capi di stato contro questa proposta. Così non è stato. Questo significa che il pericolo di una sospensione dei diritti democratici in nome di aggiustamenti economico finanziari dell'area dell'euro non è poi una idea così peregrina. Il rischio concreto, Dio non voglia sia così, è di avviare l'Europa ad un avvicinamento con i metodi produttivi ed i suoi corollari, propri del sistema cinese? Ma se così fosse quello che aspetta il vecchio continente è una fase storica di confusione continua e di povertà pressochè totale. Una soluzione, per la verità ancora troppo poco battuta, è la costituzione, finalmente, degli Stati Uniti d'Europa, una unione dove tutti i popoli europei che lo vogliono, siano insieme in modo politico certo e dove lo strumento della moneta unica sia soltanto accessorio all'unità politica e di indirizzo.
venerdì 27 gennaio 2012
Nel futuro sempre più guerre non saranno dichiarate
Il sistema della difesa degli USA cambia impostazione. Le forze armate statunitensi subiranno una drastica riduzione di uomini, ma non abbasseranno la propria capacità di intervento. Il futuro delle forze armate sarà potenziare le truppe di elite, gli apparati radiocomandati, come i droni e tagliare la quantità a favore di una maggiore qualità, potenziando le eccellenze. I cambiamenti degli scenari internazionali impongono, dunque una revisione basata su interventi non più in grande scala, ma imperniati su azioni rapide e chirurgiche, sul modello dell'eliminazione di Bin Laden. Questo non vuole dire diminuire gli investimenti, che anzi in tecnologia saranno aumentati, ma contenere i costi di gestione imposti da un esercito numeroso. Diventa così sottointeso che le guerre in grande scala, che prevedono un impegno temporale lungo, escono dalla futura agenda della Casa Bianca. Fondamentale sarà l'appoggio di un servizio segreto capace di operare al meglio dietro le quinte per permettere l'incisività dell'azione mirata ed anche lo sviluppo di una rete di contatti a livello ufficiale con gli stati alleati, maggiormente basata sulla fiducia e sullo scambio continuo di informazioni. Esiste, tuttavia, una considerazione da fare sulla base del diritto internazionale, sempre più spesso, infatti, e non è pratica dei soli Stati Uniti, si registrano azioni militari compiute su territorio straniero, senza che sia seguita la prassi della dichiarazione di guerra o per lo meno del permesso del paese sulla cui terra queste azioni vengono compiute. Questo perchè in numerosi casi ci si trova davanti a conflitti non dichiarati, il cui sviluppo viola il diritto internazionale condiviso. Il già citato esempio dell'eliminazione di Bin Laden è l'esempio più famoso di queste pratiche, ma ogni giorno vengono usati droni per bombardare o soltanto per compiere ricognizioni su territori di nazioni che sono considerate nemiche o che possono ospitare avversari terroristici. Spesso vengono usati anche mezzi convenzionali come l'impiego dell'aviiazione con personale a bordo o ci si trova di fronte a sconfinamenti di truppe, come nei casi degli eserciti turco ed iraniano, nelle rappresaglie avvenute contro i curdi in territorio iraqeno. La sterzata ufficiale degli USA, che praticava già queste forme di guerra, registra soltanto la certezza della direzione nella quale si svilupperanno i conflitti del futuro. Siamo e saremo di fronte, cioè, ad atti che possono essere considerati come terroristici, perchè compiuti al di fuori della normale prassi prevista dal diritto internazionale. Questa tendenza non è certo da considerarsi positiva, perchè potrebbe dare il via ad azioni e reazioni totalmente al di fuori delle norme. E' facile prevedere un ricorso sempre più massiccio a strutture internazionali, come l'ONU o il tribunale dell'Aja, che potenzialmente si troveranno a decidere su fatti che andranno ad infrangere le norme vigenti, ma senza la necessaria capacità sanzionatoria, interrotta proprio dall'estensione della nuova pratica di guerra. In senso generale una azione militare è da evitare fino all'utilizzo dell'ultima opzione disponibile che possa scongiurarla, ma una azione compiuta da uno stato senza il necessario corollario normativo è destinata a giustificarne altre, venendo così a creare l'uscita dai canoni del diritto. Senza un freno condiviso siamo di fronte alla totale imposizione della esclusiva legge del più forte. E' chiaro che questa è la massima estremizzazione, perchè nel mezzo esiste ancora un ruolo della diplomazia, ma in concreto l'ipotesi è ormai più che un caso di scuola.
In Tibet torna la repressione cinese
Nel Tibet si riapre una stagione di violenza e repressione. Gli episodi di questi giorni riportano la regione alla drammatica situazione del 2008, con manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza di Pechino, che si vedono costrette a reagire all'ondata di ribellione provocata da una lunga serie di suicidi di monaci, che si danno fuoco dopo essersi cosparsi di carburante. L'alta drammaticità del metodo del suicidio, giunta ad una alta spettacolarizzazione, ha un grande potere sulla popolazione ed è infatti molto temuta da Pechino, sia perchè ha una gran presa sulla folla dei tibetani, sia perchè suscita sdegno profondo nell'opinione pubblica internazionale. Il fatto che Pechino abbia ammesso la presenza di morti, un comportamento molto differente da quello solito di chiusura totale sull'argomento Tibet, può soltanto significare che la situazione sta degenerando pericolosamente. Il centro della protesta si trova nella provincia di Sichuan, nella città di Seda, che è sottoposta al coprifuoco e risulta completamente isolata perchè circondata dalle truppe cinesi. Anche nel distretto di Aba, sempre nel Sichuan, vi sono tensioni. I rivoltosi hanno attaccato le forze cinesi con pietre e bombole di gas e nella zona del distretto di Luhuo, un monastero sarebbe assediato perchè vi si sarebbero rifugiati diversi rivoltosi. Il tema centrale rivendicato dai dimostranti verte, oltre alla libertà del Tibet, sulla continua opera di sradicamento delle tradizioni, usi e costumi autoctoni; processo che Pechino porta avanti per nazionalizzare il Tibet e piegarlo così ad un atteggiamento più malleabile verso la Cina. La politica cinese in Tibet segue un approccio composto da un misto di violenza fisica unito ad una politica che tende a normalizzare il territorio mediante una azione scientifica tesa ad erodere l'identità culturale, religiosa e linguistica del popolo tibetano, con il fine di assumerne l'assoluto controllo. Le normali resistenze di un popolo, che nutre per i propri valori un attaccamento assoluto, costituiscono, anche grazie al notevole apporto del fattore religioso, un ostacolo che Pechino, negli anni, non ha mai saputo gestire. Non sono bastati infatti l'ingente spiegamento militare ed i massicci inserimenti di cittadini cinesi nelle zone tibetane allo scopo di scalfire la presenza preponderante degli elementi culturali locali. La Cina per giustificare le repressioni compiute ricorre al solito ritornello delle dittature in difficoltà, che è quello di accusare gruppi, o addirittura nazioni straniere di soffiare sul fuoco delle rivolte, per fomentare le istanze separatiste ed in ultima analisi minare l'integrità territoriali cinese. Il problema è molto sentito dalle autorità di Pechino per le evidenti ripercussioni sul piano internazionale. Nonostante l'influenza economica cinese, capace di soffocare lo sdegno delle nazioni più potenti, si deve ricordare ancora il voltafaccia del vicepresidente americano Biden sull'argomento, ci sono state alcune eccezioni, la più rilevante delle quali è stata l'atteggiamento della cancelliera Merkel; ma esiste una grande quantità di pressione esercitata da movimenti pacifisti ed organizzazioni di pensiero capaci comunque di sollevare il problema in maniera molto rilevante sul piano internazionale. Dopo lo schiaffo del Nobel al Dalai Lama, Pechino, proprio a causa delle proprie ambizioni di protagonismo nel teatro internazionale non può permettersi altre forme di pressione sui diritti civili oltre a quelle che già patisce sul fronte propriamente interno. Tuttavia l'amministrazione cinese non può cedere sul fronte interno alla protesta tibetana, un cui eventuale successo, anche di ridotte dimensioni, potrebbe rappresentare una crepa nell'efficiente sistema volto a normalizzare l'impero. La questione non è di poco conto, perchè su di essa si basa il progetto espansionistico economico cinese da percorrere mediante un pugno di ferro sistematico all'interno del proprio territorio da praticare senza cedimenti. Difficile fare una previsione positiva sul futuro del Tibet, che deve restare un esempio, se possibile da contrastare, su come le dittature cercano di distruggere le tradizioni dei popoli sottomessi per cancellare ogni forma di opposizione.
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