Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 10 aprile 2012
La questione Falkland-Malvinas come uso distorto della politica internazionale
Il ritorno della questione delle Isole Falkland o Malvinas, nasconde le difficoltà, sul piano interno, della Presidentessa argentina Kirchner, che fa uso di una tecnica ormai abusata dei governanti alle prese con un calo di consenso. Per gli argentini le isole Malvinas sono una questione delicata e molto sentita, tanto da ritenere la sovranità britannica un abuso ed un episodio residuale di colonialismo. Questo sentimento è condiviso dalla maggioranza della popolazione e su questo fa leva la Presidentessa argentina per aggregare un sentimento nazionale partendo da basi politiche diverse, cercando di coinvolgere anche chi non condivide il suo credo politico e sopratutto ne contesta l'azione governativa. E' uno schema conosciuto bene ed altrettanto bene collaudato, che fa perno su questioni di politica estera, che consentono una facilità maggiore di dichiarazioni programmatiche, rispetto ad enunciare programmi di politica interna, meno soggetti a variabili incontrollabili e che consentono, in prima battuta, di diminuire il livello di attenzione sulle difficoltà interne, ed in seconda battuta, hanno risultati più facilmente manipolabili di fronte all'opinione pubblica. Quello che è singolare è però l'analogia con le difficoltà interne del premier britannico Cameron, cui la collega Kirchner offre, seppure inconsapevolmente, una sponda in un momento di altrettanto grande difficoltà per la situazione del Regno Unito. Cameron è alle prese con difficoltà finanziarie, pessimi rapporti con l'Unione Europea ed è coinvolto in uno scandalo, ben poco british, circa spese per cene e festini. L'assist della presidentessa argentina non potrebbe arrivare in un momento migliore, segnato dalla necessità, ancora una volta, di distogliere l'attenzione dei media inglesi dalla controversa azione politica del loro premier. La situazione è speculare, anche per gli inglesi, in questo vittima del vecchio retaggio dell'impero britannico, la questione Falkland ha un potenziale di unità enorme. Inoltre la vittoria della guerra di qualche decennio addietro, contro un'Argentina vittima della dittatura militare, evoca un forte richiamo alla forza della nazione. Anche allora lo schema ricalca quello che ora si sta ripetendo: una giunta militare in difficoltà tenta il colpo di reni cercando di riprendere un territorio da sempre sentito come appendice della nazione, ma perde la guerra e ciò ne causa l'inizio del declino, concluso con il ritorno della democrazia a Buenos Aires. Risultato contrario per la Lady di ferro Margaret Thatcher, che partendo da una situazione interna sfavorevole, grazie alla vittoria militare riprese quota nei consensi del popolo inglese. Aldilà della effettiva importanza sia strategica, che economica delle isole al largo del mare argentino, sopratutto in ottica di sfruttamento delle risorse dell'antartide, in questo momento storico è fortunatamente difficile che l'episodio militare possa ripetersi, anche se l'Argentina vorrà mettere in pratica le minacce di embargo economico. Tuttavia per lo studio delle dinamiche dei riflessi sulla politica interna da parte della politica estera ed il loro uso da parte di governanti in difficoltà le Falkland o Malvinas rappresentano uno dei più chiari esempi di utilizzo distorto, aldilà delle motivazioni dichiarate, per cercare di mascherare situazioni negative di politica interna, peccato che il bilancio dei morti oltrepassò quota ottocento vittime.
Truppe siriane aprono il fuoco in territorio turco
Un grave episodio capace di peggiorare ulteriormente il clima diplomatico nei confronti della Siria, è avvenuto al confine con la Turchia, dove, proprio nel territorio di Ankara, sono stati allestiti numerosi campi profughi per i siriani in fuga dalle violenze del regime di Assad. A Kilis, nell'Anatolia Sud Orientale, truppe siriane hanno aperto il fuoco contro il campo profughi e gruppi di fuggitivi che cercavano di raggiungerlo. La distanza, di poche centinaia di metri, dell'ubicazione del campo, dalla frontiera siriana ha facilitato il compito dei soldati di Damasco, che hanno provocato almeno un morto e diversi feriti. Le ragioni dell'assalto andrebbero individuate, nella volontà di compiere una rappresaglia ad un attentato avvenuto nella città siriana di Salama. Secondo le versioni di alcune organizzazioni umanitarie la polizia turca non avrebbe risposto al fuoco. Questo fatto può soltanto indicare la volontà, per ora, da parte del governo della Turchia, di non rispondere a provocazioni, che potrebbero allargare il conflitto. Le relazioni tra i due paesi sono ormai irrimediabilmente rovinate, da quando Ankara ha condannato la repressione violenta di Damasco ed ha aperto i propri confini ai fuggitivi siriani. Ma può essere anche l'indicazione di una impreparazione ad un eventuale attacco da parte del regime siriano, oltre i confini del paese, anche se è difficile valutare se l'azione contro Kilis, sia una iniziativa personale di qualche comandante siriano, sfuggita di mano o se rientra in un effettivo piano di allargamento del conflitto. Questa ipotesi potrebbe essere suffragata dal tentativo di Assad di distogliere l'attenzione della repressione in corso nel proprio paese, una strategia che il dittatore di Damasco ha attuato più volte con una tecnica di azioni veloci, a cui è seguita una immediata ritirata, che costringono l'opinione pubblica internazionale ha distogliere, seppure per poco, la concentrazione mediatica sulla guerra civile in corso. In ogni caso, queste iniziative erano per lo più di tipo diplomatico, con l'azione di Kilis la questione siriana sale un gradino nella possibile evoluzione degli eventi, ricordiamo che la Turchia è un membro della NATO e lo statuto dell'Alleanza Atlantica prevede un intervento militare, in alcuni casi automatico, in caso di aggressione ad un paese membro. Del fatto è sicuramente consapevole il governo di Damasco, a cui non piace sicuramente dare una occasione così chiara ad un intervento armato sul proprio territorio. Se questo è vero resta in piedi un errore umano, che però è significativo, sullo stato di tensione e di scollamento delle truppe fedeli al dittatore, con il centro di comando. Particolarmente significativa è la tempistica dell'episodio, che avviene alla vigilia dell'inviato dell'ONU Annan. Difficile che il fatto non sia oggetto di discussione, anche perchè lo sconfinamento in territorio straniero, può portare a conseguenze capaci dell'allargamento del conflitto. Tuttavia il governo turco, per ora non ha mostrato di volere compiere ritorsioni, assumendo un atteggiamento di grande responsabilità, come ha sottolineato il Ministro della Difesa Ismet Yilmaz, che ha affermato che lo stato turco deve obbligatoriamente considerare tutte le eventualità che potranno verificarsi e prepararsi quindi ad ogni situazione che si presenterà, ma che questo stato di allerta non significa necessariamente prepararsi ad una guerra. L'affermazione è chiara, avvisa i vicini siriani che non saranno tollerate altre invasioni, ma nel contempo, attende gli esiti della missione di Annan, atteggiamento senz'altro concordato con l'alleato statunitense.
venerdì 6 aprile 2012
Lo stato dei Tuareg si dichiara indipendente
Se, da una parte è stato citato, forse giustamente, il diritto all'autodeterminazione dei popoli, come motivo giustificante della lotta dei popoli tuareg, per la creazione di un proprio stato, culminata nella dichiarazione di indipendenza della regione a nord del Mali, denominata dagli stessi tuareg, Azaouad, dall'altro lato, occorre considerare come questa auto proclamazione in stato indipendente è maturata. Se è vero che la regione separata dalla nazione cui apparteneva, il Mali, è da sempre considerata la patria del popolo tuareg, che non hanno mai riconosciuto il paese con capitale Bamako, come proprio stato, ed hanno nutrito per anni sentimenti di indipendenza, il modo in cui è avvenuto questo distacco, tutt'altro che pacifico e concordato, genera naturali sospetti sulla natura e sul futuro della nazione nascente. Le alleanze con cui il Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad, ha raggiunto il proprio scopo, gettano un'ombra lunga sulla stabilità regionale che va oltre i confini delineati dai separatisti tuareg. Del resto la situazione del nuovo paese è tutt'altro che chiara, nella regione continuano i saccheggi e le violenze, e non vi è una identità tra le forze che compongono i vincitori. Infatti se per i tuareg si tratterebbe di dare sostanza alle aspirazioni della creazione di un proprio stato autonomo, i combattenti islamici, che hanno partecipato attivamente al conflitto, auspicano la creazione di uno stato dove deve essere vigente la sharia. Non bastano a quietare una situazione molto complicata le promesse del Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad (MNLA), di rispettare le frontiere con gli stati confinanti e la loro inviolabilità, dichiarando concluse le ostilità. Dal punto di vista diplomatico l'auto proclamazione di uno stato incontra serie difficoltà se non vi è alcun riconoscimento degli altri attori internazionali e per il momento non sembra che vi sia alcuna nazione intenzionata a compiere passi ufficiali verso la stato dei tuareg, sopratutto nessun paese africano. Il nuovo soggetto è così esposto alla rappresaglia internazionale, perchè formalmente ha rovesciato l'autorità di uno stato sovrano. Tuttavia la situazione del Mali, il cui governo legittimo è stato rovesciato da un colpo di stato, è oggetto di sanzioni internazionali e questo fatto, oltre che essere a favore dei rivoltosi, blocca ogni iniziativa internazionale ed anche della stessa nazione a cui è stata sottratta una parte consistente del territorio, che si è limitata a dire agli abitanti del nord del paese di opporre resistenza agli invasori, abbandonandola di fatto al proprio destino. AL momento, quindi la situazione è bloccata e nelle cancellerie si attendono gli sviluppi della situazione con uno stato di sotanziale allerta per i timori della costituzione di uno stato islamico integralista appena dopo le rive del Mediterraneo.
mercoledì 4 aprile 2012
Nel Mali pericolo della nascita di uno stato islamico
La questione del Mali rischia di diventare un focolaio sempre più pericoloso per l'occidente. Dal colpo di stato, giustificato con la necessità di contrapporre una politica repressiva alle istanze di libertà delle regioni settentrionali del paese, la situazione interna è precipitata. L'avanzata delle armate Tuareg ha imposto la legge islamica, la sharia, nelle città conquistate, praticamente cancellando il turismo da città come Timbuctù e gettando sul lastrico una economia già in grossa difficoltà. Le violenze dei ribelli hanno provocato la fuga di almeno 200.000 persone, che fuggono nelle nazioni vicine Mauritania, Niger, Burkina Faso e in Algeria e nelle zone interne del paese, per sfuggire alla fame e sopratutto ai combattimenti in corso, determinando una frattura territoriale dello stato del Mali, ormai diviso in due. Quello che preoccupa maggiormente le cancellerie occidentali è la possibile saldatura tra i tuareg, i salafiti ed Al Qaeda, che da queste vicende potrebbe avere nuovi e positivi impulsi da innestare in una organizzazione che pareva in disarmo. In realtà quello che muove gli uonimi blu sarebbero ragioni più pragmatiche ad allearsi con gli estremisti islamici, come il controllo dei fiorenti traffici di droga, persone ed armi, che transitano nelle regioni ora occupate. Tuttavia anche questo aspetto non è da sottovalutare, sopratutto se unito con le motivazioni dei gruppi estremisti, che potrebbero trarre anch'essi vantaggio dai movimenti di merci di contrabbando, sopratutto in un'ottica di riorganizzazione di tutto quel movimento variegato che si richiama al terrorismo islamico. In questo quadro il colpo di stato nel Mali, aggrava una situazione già di per se preoccupante; l'instabilità del paese africano non consente una risposta militare adeguata all'avanzata dei tuareg, ma, neppure, un interlocutore affidabile per i paesi occidentali, preoccupati dagli effetti di una spaccatura del paese con una parte costituita in repubblica islamica, in una zona già monitorata per i possibili rifugi che già potava offrire in regime di clandestinità a gruppi terroristici. In quadro, per così dire istituzionalizzato, per Al Qaeda raccogliere proseliti anche fuori dal paese, tra gli emarginati e gli esaltati della religione islamica sarebbe molto più agevole, disponendo di territori al di fuori del controllo di forze istituzionali. Tuttavia la parte moderata del movimento dei tuareg minimizzano su queste alleanze, che presentano come strategiche per il raggiungimento dell'obiettivo di controllare la regione di Azawad ritenuta la patria dei nomadi, che dovrà diventare la Repubblica Islamica Azawad. Ma i successi dei tuareg hanno provocato una grande ondata di risentimento nella popolazione del Mali nei confronti degli autori del colpo di stato, ritenuti una causa del successo dell'avanzata degli uomin blu. Il colpo di stato ha interrotto la catena di comando dello stato, non permettendo di fornire una adeguata risposta militare alle mosse di tuareg. Inoltre il paese è stato gettato, proprio a causa del colpo di stato nell'isolamento internazionale ed oggetto di sanzioni, che hanno scatenato una corsa all'accaparramento dei beni alimentari, che, a loro volta, hanno causato violenze e saccheggi. E' una situazione sia politica che diplomatica complicata, lo stato del Mali rischia di perdere una gran parte del proprio territorio e l'occidente di trovarsi a pochi chilometri di distanza un nuovo stato, base ideale per il terrorismo islamico. La situazione, per ora fluida, rischia di diventare un nuovo caso per il Consiglio di sicurezza dell'ONU, con i probabili relativi contrasti e la necessità di agire per impedire una soluzione del caso che si preannuncia difficile e poco conveniente per chi vuole la stabilità della regione.
martedì 3 aprile 2012
Sale la disoccupazione nell'area euro
La zona euro è alle prese con un nuovo rialzo della disoccupazione, avendo toccato la quota record del 10,8% a febbraio. Si tratta del valore più altro da quando è stata creata la moneta unica. E' una tendenza che non subisce variazioni essendo ben dieci i mesi consecutivi che il dato oltrepassa il 10%. Siamo davanti, ormai ad una crisi strutturale del sistema euro, causata dall'indebitamento degli stati e da un periodo recessivo che appare divenuto sistemico. L'economia paga una navigazione a vista, che non comprende politiche e programmi di grande respiro e che, sopratutto, sconta divisioni profonde tra le vedute dei singoli governi non coordinati dall'istituzione centrale europea. E' proprio la debolezza politica di Bruxelles, uno dei punti deboli dell'intero sistema dell'euro, non avendo i necessari strumenti giuridici gli eurocrati si limitano a recepire le decisioni degli stati più forti, che si sono arrogati la guida dell'euro, subendo anche decisioni in contro tendenza con lo spirito comunitario. L'assenza di una politica finanziaria comune, che riesca a pianificare la necessaria costruzione delle infrastrutture, ormai insufficienti, è poi una causa della disoccupazione direttamente discendente dalla mancanza di programmazione politica. Ma manca anche un necessario supporto centrale alle imprese, capace di supportarle, sia negli aspetti legali, che economici, che organizzativi, nei confronti dei paesi emergenti, che possono, per ora opporre una maggiore competitività, grazie al migliore costo del lavoro e processi burocratici più snelli. I dati sulla disoccupazione, oltre che un chiaro segnale di difficoltà economica, che si riflette nell'ambito sociale, rappresentano un grave fallimento delle politiche comunitarie incapaci di imporsi su quelle statali e di arginare il fenomeno, che, per altro, si riflette anche nella forza lavoro immigrata, anch'essa colpita dal trend negativo. Significa che oltre al lavoro più qualificato, mancano le occasioni per impieghi di minore professionalità. Il risultato è una economia sempre più avvitata su se stessa a cui alla attuale fase recessiva, seguirà la stagnazione. La sempre minore disponibilità del sistema di liquidità non potrà che peggiorare le cose mandando definitivamente in crisi oltre che l'industria, anche il commercio, andando ad aumentare l'esercito dei senza lavoro, con ovvie ricadute sulla stabilità sociale. Se il dato aggregato europeo è del 10,8%, la situazione europea vista nei singoli paesi è tutt'altro che uniforme e si presenta a macchia di leopardo. La Spagna ha un tasso di disoccupazione addirittura peggiore di quello greco 23,6% contro il 21%, Portogallo ed Irlanda si aggirano attorno al 15% ed in Italia è del 9,3%. Questi sono i casi più gravi, chiaramente influenzati dalla ricaduta degli effetti del debito pubblico, che toglie finanziamenti alle imprese, costrette a tagliare sul personale. Meglio va in altri paesi come in Austria (4,2%), Paesi Bassi (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%). In Belgio, il tasso di disoccupazione è salito al 7,2%. Difficile essere avere previsioni positive su quei paesi che hanno fortemente tassato i redditi fissi per riparare ai guasti di finanze pubbliche dissennate e che, guarda caso, sono anche quelle nazioni dove si registrano i valori di disoccupazione più elevati. Minore disponibilità di potere di acquisto non può che fare contrarre la spesa per famiglia e lasciare la merce invenduta nei magazzini, con il conseguente abbassamento degli ordinativi industriali e quindi ulteriore taglio occupazionale. Senza politiche del lavoro in grado di contenere la parte del salario direttamente girata verso le tasse, non può innescarsi alcun circolo virtuoso; se lo stato ha bisogno di nuove entrate occorre che si rivolga non più al lavoro ma al capitale, ormai non è più solo una questione di equità sociale.
lunedì 2 aprile 2012
Mali: dai Tuareg il pericolo di un nuovo stato islamico radicale
Quello che sta succedendo in Mali può portare alla nascita di un nuovo stato islamico radicale con la sharia come legge vigente. La preoccupazione corre nelle capitali occidentali, che temono che una consistente porzione di territorio diventi la base ufficiale di gruppi estremisti capaci di mettere a segno atti terroristici in nome dell'Islam.
Il problema del nord del Mali somma diverse questioni che costituiscono pericolosi focolai di instabilità. Infatti si tratta di questioni politiche, culturali, demografiche, economiche e geopolitiche. L'avanzata dei Tuareg si sta sviluppando nelle tre regioni settentrionali, che hanno una estensione pari ai due terzi del Mali, ma con una densità di popolazione più bassa ospitando il 20% del totale degli abitanti. La rivolta è in corso dal 17 gennaio ed ha avuto l'impulso decisivo con il ritorno dei Tuareg che hanno combattuto e perso la guerra in Libia a fianco di Gheddafi, di cui erano un corpo scelto. Si tratta di contingenti ben armati ed equipaggiati, capaci di occupare militarmente un terreno parzialmente sguarnito e fortemente instabile per la massiccia presenza di trafficanti di persone, armi e droga, e vari gruppi terroristici come cellule di Al Qaeda e gruppi di salafiti. Proprio a causa di queste presenze non gradite ad Algeri, si è ipotizzato che dietro l'avanzata dei Tuareg ci sia anche il benestare dell'Algeria, tuttavia se questa ipotesi potrebbe essere corroborata da un interesse per la salvaguardia delle proprie frontiere, occorre anche rilevare che le manovre dei Tuareg stanno generando un esodo di massa da parte delle popolazioni del Mali in fuga dalla guerra, che stanno attraversando anche la frontiera algerina.
I Tuareg hanno conquistato le città di Timbuctu e Gao, abbandonandosi a saccheggi ed atti di violenza contro la popolazione del Mali, sopratutto da parte degli arabi indigeni e dei salafiti.
Le vittorie dei tuareg sono state facilitate anche dal caos amministrativo in cui versa il Mali, dove lo scorso 22 marzo un colpo di stato ha deposto il presidente in carica Amadou Toumani Touré. Tuttavia l'autore del golpe Il capitano Amadou Sanogo ha dichiarato che restituirà il potere nei prossimi giorni con il ripristino della costituzione del 1992 e delle istituzioni repubblicane, invitando le parti sociali a tenere libere elezioni. Ma per un vuoto di potere non è il momento adatto e per il Mali la situazione rischia di diventare ancora più compromessa, anche se gli obiettivi dei Tuareg dovrebbero essere stati tutti raggiunti e non dovrebbe esserci, quindi una ulteriore avanzata. Resta alta la tensione nella Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, già in allerta per il colpo di stato nel Mali ed ora preoccupata per le conseguenze della ribellione Tuareg all'interno del territorio dell'organizzazione. Una forza armata di circa 2000 uomini sarebbe già pronta, su mandato della Comunità, per intervenire contro le forze dei Tuareg. Si rischia così una nuova guerra, che potrebbe coinvolgere anche le potenze occidentali, che come già rilevato, temono fortemente una deriva islamista radicale nelle zone occupate.
Il problema del nord del Mali somma diverse questioni che costituiscono pericolosi focolai di instabilità. Infatti si tratta di questioni politiche, culturali, demografiche, economiche e geopolitiche. L'avanzata dei Tuareg si sta sviluppando nelle tre regioni settentrionali, che hanno una estensione pari ai due terzi del Mali, ma con una densità di popolazione più bassa ospitando il 20% del totale degli abitanti. La rivolta è in corso dal 17 gennaio ed ha avuto l'impulso decisivo con il ritorno dei Tuareg che hanno combattuto e perso la guerra in Libia a fianco di Gheddafi, di cui erano un corpo scelto. Si tratta di contingenti ben armati ed equipaggiati, capaci di occupare militarmente un terreno parzialmente sguarnito e fortemente instabile per la massiccia presenza di trafficanti di persone, armi e droga, e vari gruppi terroristici come cellule di Al Qaeda e gruppi di salafiti. Proprio a causa di queste presenze non gradite ad Algeri, si è ipotizzato che dietro l'avanzata dei Tuareg ci sia anche il benestare dell'Algeria, tuttavia se questa ipotesi potrebbe essere corroborata da un interesse per la salvaguardia delle proprie frontiere, occorre anche rilevare che le manovre dei Tuareg stanno generando un esodo di massa da parte delle popolazioni del Mali in fuga dalla guerra, che stanno attraversando anche la frontiera algerina.
I Tuareg hanno conquistato le città di Timbuctu e Gao, abbandonandosi a saccheggi ed atti di violenza contro la popolazione del Mali, sopratutto da parte degli arabi indigeni e dei salafiti.
Le vittorie dei tuareg sono state facilitate anche dal caos amministrativo in cui versa il Mali, dove lo scorso 22 marzo un colpo di stato ha deposto il presidente in carica Amadou Toumani Touré. Tuttavia l'autore del golpe Il capitano Amadou Sanogo ha dichiarato che restituirà il potere nei prossimi giorni con il ripristino della costituzione del 1992 e delle istituzioni repubblicane, invitando le parti sociali a tenere libere elezioni. Ma per un vuoto di potere non è il momento adatto e per il Mali la situazione rischia di diventare ancora più compromessa, anche se gli obiettivi dei Tuareg dovrebbero essere stati tutti raggiunti e non dovrebbe esserci, quindi una ulteriore avanzata. Resta alta la tensione nella Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, già in allerta per il colpo di stato nel Mali ed ora preoccupata per le conseguenze della ribellione Tuareg all'interno del territorio dell'organizzazione. Una forza armata di circa 2000 uomini sarebbe già pronta, su mandato della Comunità, per intervenire contro le forze dei Tuareg. Si rischia così una nuova guerra, che potrebbe coinvolgere anche le potenze occidentali, che come già rilevato, temono fortemente una deriva islamista radicale nelle zone occupate.
La Birmania verso la democrazia, potrebbe diventare strategica per gli USA
Per la Birmania si apre un nuovo periodo. Con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, che dovrebbe conquistare 44 dei 45 seggi in palio per questa tornata elettorale, il paese asiatico si avvia sulla strada della democrazia. Le elezioni, per cui si temevano intimidazioni e brogli, si sono svolte praticamente senza alcuna eccezione di rilievo, come appurato dagli osservatori internazionali, ammessi dal regime. La vittoria della leader è stata schiacciante, raggiungendo il 99% dei voti nella circoscrizione di Kahwmu, una rivincita sul regime che l'aveva costretta al silenzio tramite la detenzione. Questo risultato rappresenta il sentimento del paese e la voglia di cambiamento per affrancarsi dalla dittatura militare, che ha tenuto lo stato in una condizione di arretratezza sia economica che culturale, grazie ad una politica di sistematica soppressione dei diritti. Ma il clima, nella stessa forza di governo, è cambiato, la necessità di uscire dal duro regime delle sanzioni, ha favorito la progressiva apertura dei militari verso un sistema, che pur essendo ancora lontano dalla democrazia, vi si inizia ad avvicinare. Non si dovrebbe ripetere la situazione del 1990, quando il partito di Aung San Suu Kyi, vinse le elezioni, ma la vittoria non fu riconosciuta e la Signora, come viene definita la permio Nobel, fu relegata agli arresti domiciliari. Anzi alcuni analisti ipotizzano che per il governo in carica è meglio la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, in quanto non potrebbe esistere garanzia migliore per testimoniare la reale intenzione della volontà di chi sta al potere di volere e legittimare il cambio democratico in atto. Se attualmente il partito della Signora diventa così la seconda forza del paese, potenzialmente è già la prima, diventando in grado di influenzare le prossime cruciali scelte del paese per farlo uscire dalla condizione di estrema povertà in cui versa. Occorrerà, comunque verificare le reali intenzioni e la reazione dei militari, che stanno ancora dietro al governo in carica, al risultato elettorale, che era comunque largamente previsto. Ma il regolare esito delle votazioni e l'invito agli osservatori internazionali, non possono che fare sperare in un futuro positivo. Se così sarà le dure sanzioni a cui è sottoposto il paese dovranno essere cancellate e per la Birmania democratica sarà oggetto di aiuti internazionali, specialmente dagli USA, che intendono allargare la loro influenza sulla zona del Sud Est asiatico in funzione anti cinese. Si tratta di una influenza non certo militare ma economica, su di un territorio che potrebbe diventare chiave sia per i traffici che per gli investimenti produttivi, grazie ad una manodopera a basso costo. Per gli USA potere collaborare con un sistema democratico in una zona ritenuta strategica è molto importante per arginare lo strapotere economico cinese. In quest'ottica vanno viste le dichiarazioni entusiastiche, circa il risultato elettorale birmano, che sono uscite dalla Casa Bianca.
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