Politica Internazionale

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martedì 24 aprile 2012

La UE teme per il successo dell'antipolitica e del populismo

Se al mondo della grande e piccola finanza conviene l'affermazione di partiti con orientamento conservatore, di centro, di destra moderata e perfino di una sinistra cosidetta progressista, cioè sensibile in buona parte alle istanze dei banchieri e degli uomini d'affari, cercando un compromesso spesso impossibile con le proprie idee di partenza, le ultime tendenze elettorali del vecchio continente vanno nel segno opposto. L'affermazione di partiti di estrema destra, con connotazioni xenofobe e populiste, vanno di pari passo con i successi e le sempre maggiori simpatie che riscuotono i movimenti di estrema sinistra, che ritornano in auge, dopo anni di oblio. E' il chiaro segno di un malessere diffuso nella popolazione europea, dove il disorientamento politico ha preso il sopravvento a causa di sempre maggiori sacrifici imposti alla cittadinanza, senza che questa ne senta il mtovi e, sopratutto, la ragionevole responsabilità. Il clima di sfiducia verso i partiti, che in Italia viene definito come anti politica, è un fenomeno che si allargato a macchia d'olio ed materialmente palpabile in ogni singola nazione europea. Il primo effetto preoccupante è l'indifferenza verso l'elettorato attivo che si esplica con la rinuncia ad esercitare le proprie funzioni elettorali, disertando le urne. La crescita dell'astensionismo è un fenomeno composto da due componenti: la prima è il rifiuto come ribellione all'incapacità ed alla disonestà dei politici, la seconda, che è connessa con la prima, è il mancato riconoscimento con alcuno dei candidati presenti sulla scheda elettorale; non si vota perchè il cittadino non sente alcuna comunità d'intenti o senso di appartenenza con i partiti e neppure si fida delle persone che si presentano al voto. L'elettore, in definitiva, non viene messo in condizione di esercitare il proprio diritto per mancanza oggettiva di condizioni materiali. La quota crescente di astensione dovrebbe fare riflettere i politici, ma finchè questa percentuale di non votanti non verrà computata al fine della distribuzione dei seggi, togliendo il corrispondente numero di seggi assegnabili in ragione del numero di chi non ha esercitato il diritto di voto, i partiti ed i loro candidati non saranno sanzionabili dei loro comportamenti. Questo perchè chi non vota accomuna ormai l'insieme dei movimenti ad una accozzaglia di incompetenti, nel migliore dei casi, e più spesso di disonesti. Si tratta di una visione che fino a poco tempo prima veniva definita senza mezzi termini qualunquista, ma con l'aumentare del fenomeno l'astensionismo è guardato con sempre maggiore rispetto, anche perchè si rafforzano e quindi ne forniscono giustificazione, le sempre più evidenti cause. Ma quando l'elettore si reca alle urne sceglie sempre di più movimenti estremi, che fanno della rottura con l'ordine vigente il loro programma elettorale, frammentando la protesta in schegge che possono diventare impazzite. E' la preoccupazione della stessa Unione Europea, che individua senza mezzi termini la tendenza politica in atto come vera e propria crisi accessoria del vecchio continente, da affiancare allo stato di difficoltà generato dall'economia e dalla finanza. I valori portanti di queste forze estreme sono contrari a quelli su cui si fondano le istituzioni europee ed il rischio di disgregazione del difficile e laborioso processo di unificazione dell'Europa è messo quindi a rischio dall'affermazione di queste forze politiche. Del resto esiste già l'esempio dell'Ungheria, dove il partito al potere, sta governando in dispregio delle direttive europee e costituisce un pericoloso precedente che mette a dura prova Bruxelles. Uno dei timori concreti degli eurocrati si basa sul passato storico del continente, quando le notevoli crisi economiche hanno favorito la nascita di movimenti come il fascismo ed il nazismo, che hanno diversi punti in comune con le idee propugnate dai partiti di estrema destra che registrano una crescita dei consensi. Occorrerebbe sapere se questi timori sono per la messa in pericolo di quei diritti civili e politici che sono ormai dati per scontati o se perchè, in un modo o in un altro, il successo di queste formazioni, che sono anti sistema, possono mettere in pericolo i poteri economico finanziari, che sono ora al vertice della piramide in Europa. Il sospetto è legittimo, Bruxelles non ha fatto molto finora per contrastare l'influenza di una finanza particolarmente accanita, i cui effetti e costi si sono riversati su di una popolazione impotente. Anche nei confronti della supremazia tedesca poco è stato detto, per cui i timori, legittimi e tardivi, degli effetti dell'ondata di consensi alle formazioni di estrema destra non possono che essere accolti come una constatazione amara. Del resto è da molti anni che la destra europea è in crescita, proprio grazie a motivi ben conosciuti riconducibili, oltre che a crisi economiche prima latenti e poi più evidenti, anche a decisioni e provvedimenti talvolta assurdi e sopratutto calati dall'alto, senza cioè la necessaria elasticità rispetto al contesto dove dovevano produrre i loro effetti, che hanno contribuito in maniera netta al successo di formazioni che traggono la loro forza in territori circoscritti e spesso contraddistinte da elementi xenofobi. Anche se esiste una debolezza di fondo di matrice statutaria e normativa che consiste nella scarsa forza delle istituzioni europee, peraltro composte da uomini di quei partiti e di apparati oggetto della contestazione, sempre troppo debole è stato l'atteggiamento delle istituzioni comunitarie contro lo strapotere della finanza, perchè il grido di allarme, senz'altro giusto, sia da ritenersi sincero. A meno che la UE non cambi rotta in maniera rapida ed urgente e sappia coinvolgere la totalità del sistema Europa in un diverso atteggiamento, gli anticorpi verso la deriva populista sono destinati a diminuire. Se non intervengono variazioni consistenti in miglioramenti materiali per la vita della maggior parte della popolazione europea il pericolo del caos politico è praticamente una certezza.

lunedì 23 aprile 2012

Quale futuro per l'area euro dopo le elezioni francesi?

Quali saranno, per l'area Euro, le conseguenze di una sconfitta di Sarkozy? Se il presidente francese in carica non dovesse essere rieletto, il primo effetto potrebbe essere un sostanziale isolamento della Germania, che con la sua politica ha condizionato le politiche finanziarie dei governi della zona della moneta unica, spesso appoggiata in maniera fondamentale dalla Francia di Sarkozy. Sulla spinta di una crisi inconfutabile, la Germania ha obbligato a scelte di estremo rigore gli altri membri dell'euro, in nome di una stabilità finanziaria generale. Se questi provvedimenti, all'inizio erano dettati dalla necessità di sistemare conti pubblici in estrema difficoltà, il piano di riordino non si è poi evoluto verso una direttiva che potesse permettere una crescita tale da garantire una ripresa solida e necessaria per fare ripartire l'economia dell'area euro. Il sospetto è stato quello di avere avvallato, da parte dei governi europei, una politica finanziaria utile e strumentale alla sola Germania, che non si è messa a servizio dell'Europa, come più volte ribadito dalla cancelliera Merkel, ma che dalla sua posizione di forza ha incanalato i severi provvedimenti, di cui sono vittima tanti popoli europei, per rafforzare la propria economia e le proprie imprese. Infatti uno degli effetti delle misure imposte è una generale stretta creditizia che non permette alla imprese extra tedesche, di competere con il tessuto produttivo della Germania. Nonostante la sua evidente forza Berlino, non ha potuto fare da sola, spesso la Parigi di Sarkozy, seppure a tratti riluttante, ha supportato le direttive tedesche, fungendo da alleato alla pari soltanto per figura. In realtà la Francia, cercando di imprimere una sua direzione e potendo sedere a quella che pareva la stanza dei bottoni, è stata solo funzionale affinchè le impopolari decisioni prese dalla Germania sembrassero il frutto di una collaborazione paritaria e condivisa. Già il premier italiano, Mario Monti, aveva incrinato questa strana alleanza, quando dopo avere caricato di sacrifici gli italiani, richiedeva maggiori sforzi materiali per elaborare processi tali da favorire la crescita. Hollande, il principale sfidante di Sarkozy e dato per favorito nella corsa alla presidenza francese, si è incuneato in questo spazio lasciato inspiegabilmente libero dal presidente in carica. Uno dei punti forti della campagna elettorale del principale sfidante è stata proprio la promessa di una nuova negoziazione degli accordi sul rigore dell'euro, in modo da potere garantire bilanci più sicuri senza per questo soffocare la crescita. Il ruolo di supporter nella campagna elettorale di Sarkozy da parte della Merkel ha fatto capire bene quello che teme la Germania. La necessità di avere risultati immediati, senza l'elaborazione di un piano a lungo termine pone ora la cancelliera in un vicolo senza uscita. O meglio quelli che si aprono sono scenari profondamente diversi ed anche lontani nel loro possibile epilogo. Si è più volte parlato di una possibile uscita della Germania dall'area dell'Euro, non totale ma attraverso la creazione di zone della moneta unica a diversa velocità. Su di questa soluzione, caldeggiata dagli stati con i conti più in ordine, pare non si possa più contare: l'Olanda, una delle nazioni più dure con gli stati del sud Europa, è essa stessa alle prese con difficoltà di bilancio, tanto che il governo è caduto ed il paese si avvia ad elezioni anticipate. In questa situazione la Germania rischia di trovarsi sola, con una divisa molto valutata, che renderebbe molto poco concorrenziali i suoi prodotti. Inoltre politicamente una potenziale alleanza tra il secondo ed il terzo paese per economia della zona euro, la Francia e l'Italia, costringerebbe la Germania a rivedere il proprio protagonismo per non soffrire di isolamento. Ma questo potrebbe portare ad una crisi politica nel paese, che se costretto ad elezioni potrebbe cambiare gli assetti di potere, portando al governo di Berlino idee più vicine a modelli espansivi, pur nel mantenimento di determinati valori di bilancio non derogabili. Ma anche una riconferma di Sarkozy, obbligherebbe l'inquilino dell'Eliseo a cambiare atteggiamento verso Berlino. I dati elettorali francesi, dove spicca l'ottimo risultato di Marine Le Pen, parlano chiaramente del gradimento del corpo elettorale di campagne incentrate sulla necessità dello sganciamento dall'invadenza della finanza sulla politica e della voglia di riconquistare una maggiore libertà di azione sia politica che economica. Quindi anche con una rielezione il presidente in carica, non potrà tenere conto, nella sua azione governativa, di tali espresse richieste provenienti dalla società francese. Si andrà quindi, in ogi caso, ad un sostanziale ribilanciamento dei rapporti verso lo stato tedesco, che non potrà più abusare della propria posizione di forza, pena un isolamento tutt'altro che magnifico.

venerdì 20 aprile 2012

Pechino interessata all'Artico

Complice il disgelo causato da una dissennata politica industriale, che non ha tenuto conto degli effetti della propria azione sul clima, l'Artico, che rappresenta una riserva di energia enorme e non ancora sfruttata, sta diventando sempre più facilmente raggiungibile. E' da questo assunto che si muove la Cina, paese sempre più affamato di fonti energetiche, per cercare di entrare nello sfruttamento di materie prime del circolo polare artico e di aprire nuove vie di comunicazioni marine che rendano minore la distanza tra Asia ed Europa, per il trasporto delle merci. Pechino ha individuato nell'Islanda, paese dove il leader cinese Wen Jiabao effettuerà una visita ufficiale, all'interno del viaggio dal 20 al 27 Aprile nel nord dell'Europa, una base strategica per sviluppare questa linea economica, in ragione della posizione geografica dell'isola a metà tra continente artico ed Europa. In realtà la Cina aveva tentato di entrare in Islanda con una pratica spesso adottata con paesi più poveri e cioè acquisendo porzioni di territorio per effettuare speculazioni immobiliari ed impiantare le proprie infrastrutture. Ma il piano è fallito per l'opposizione del governo di Reikiavyk. Ora Pechino proverà la via ufficiale degli accordi economici per sviluppare una collaborazione conveniente ad entrambi le parti, questo perchè la Cina continua a ritenere fondamentale potersi appoggiare a basi islandesi. Tuttavia il piano per potere accedere all'Artico non comprende la sola Islanda, il colosso cinese cerca di avere maggiore importanza dell'attuale ruolo di osservatore, all'interno del Consiglio Artico, composto da Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, USA e Svezia. La politica cinese nei confronti dello sfruttamento dei giacimenti sotto la calotta polare consiste nel dirsi disponibile allo sviluppo sotenibile e pacifico della regione, la quale, però, non deve essere considerata come territorio privato dei paesi geograficamente più vicini, ma, viceversa è da intendersi come patrimonio comune del mondo. E' una tesi controversa, conoscendo le reali mire cinesi sulle risorse energetiche presenti e sul loro peso strategico in ottica sia industriale che militare. L'impressione è che siamo di fronte ad un futuro denso di annose dispute e che per i giuristi e le organizzazioni internazionali ci sarà molto lavoro. Ma la Cina è costretta a muoversi in tempo perchè oltre ai paesi membri del Consiglio Artico, si sono mossi anche la UE, il Giappone e la Corea del Sud, tutti a rincorrere lo sfruttamento dei preziosi giacimenti. All'interno del Consiglio Artico, poi, si muovono alleanze e tendenze che potrebbero essere determinanti per Pechino: infatti se Russia e Canada, sono i paesi che più ostacolano la marcia cinese, altri potrebbero essere necessari per i progetti di Pechino. La Svezia e la stessa Islanda sono quelle più favorevoli ad una cooperazione con la Cina e poi esiste il caso Norvegia. I rapporti tra Pechino ed Oslo non sono buoni dopo che la Cina ha condannato la Norvegia per l'assegnazione del premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo, impedendogli il ritiro dell'ambito riconoscimento. La guerra commerciale che si è innescata a seguito di questo episodio non favorisce certo un miglioramento dei rapporti e la continua richiesta di scuse di Pechino per il Nobel non permette un miglioramento della situazione. Tuttavia, circoscrivendo la situazione alla necessità cinese di entrare in gioco per l'Artico, Pechino si troverebbe ora in una posizione di inferiorità rispetto ad Oslo e questo potrebbe fare riconsiderare al governo cinese la propria politica verso la Norvegia. Potrebbe essere anche l'occasione per la richiesta di un cambio di atteggiamento di Pechino verso i dissidenti ed inserire così regole democratiche in cambio di risorse energetiche, una soluzione da non scartare.

giovedì 19 aprile 2012

L'India dispone di un missile capace di colpire la Cina

Con il lancio sperimentale del primo missile indiano di classe intermedia, cioè con una gittata inferiore a 6.400 chilometri, dotato di capacità nucleare, Nuova Delhi completa quella che considera la propria strategia preventiva nei confronti dei possibili avversari regionali. Questo missile, infatti colma il vuoto difensivo nei confronti della Cina, avversario economico e politico, con cui i rapporti diplomatici sono tutt'altro che distesi. Il sistema missilistico indiano contava nel suo organico soltanto missili a corto raggio, con gittata entro i 2.500 chilometri, pensati per la possibile minaccia proveniente dal Pakistan, ora l'arsenale dell'India si pone direttamente al di sotto di quelli dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che sono dotati di missili balistici intercontinentali capaci di sostenere una gittata oltre i 5.000 chilometri. Sul piano geopolitico mondiale non è una buona notizia: la proliferazione nucleare avanza ed il corso della storia sembra mettere indietro le lancette degli orologi, quando la pace mondiale si basava sull'equilibrio del terrore. La differenza era che gli attori direttamente coinvolti erano soltanto due, mentre ora la platea dei soggetti coinvolti è molto più vasta ed i soci del club dell'armamento nucleare rischiano di aumentare sempre di più. Ciò non può che comportare una minore stabilità, seppure latente, ed accrescere le possibilità di uso di questi armamenti, anche se la ragione maggiore della costruzione di questi missili è di natura preventiva, il solo fatto che una nazione accresca il proprio arsenale nucleare è fonte di irrigidimento diplomatico, aggravando spesso relazioni già difficoltose. Senza entrare nel caso più spinoso, costituito del confronto Israele-Iran, il missile indiano ha subito generato una piccata risposta diplomatica cinese, che parlava chiaramente di auto sopravalutazione della forza militare indiana. La Cina ha un arsenale ben più fornito e gli sforzi continui per ammodernare le sue forze armate, con investimenti ingenti, sono proprio una delle cause della corsa al riarmo nella regione, sia sulla terra che in mare, che coinvolge direttamente diversi paesi. Quando si verifica il successo di un test missilistico, la nazione che lo ha compiuto, per prima cosa si affretta a dichiarare che la nuova arma non è contro alcun paese e così ha fatto l'India, per evitare tensioni diplomatiche, specialmente con il vicino cinese. Ma il missile indiano non è che una parte dei cospicui investimenti militari operati da Nuova Delhi. Il governo indiano è convinto che il progresso economico della propria nazione debba essere tutelato da un sostanzioso rafforzamento delle forze armate, questo elemento non può non rappresentare una fonte di profonda preoccupazione per la stabilità mondiale. La politica estera indiana, tradizionalmente alleata agli USA, ha recentemente compiuto passi verso una autonomia non ancora ben chiarita, ma che tende ad un protagonismo regionale e l'assetto stesso dello stato indiano, che ha un ordinamento federale, spesso governato da forze in netto contrasto tra di loro, rappresenta elementi di profonda incertezza in relazione al possesso di tali armamenti. Anche il recente caso, che rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale, che sta purtroppo continuando, del sequestro della nave mercantile italiana e dell'incarcerazione di militari della stessa nazione per un episodio non chiarito, ma comunque avvenuto in acque internazionali, non depone a favore di una potenza che si vuole accreditare come pacifica. Ma aldilà di considerazioni di carattere più esteso, l'elemento di maggiore urgenza è il potenziale peggioramento delle relazioni tra India e Cina, che hanno in comune diversi chilometri di frontiera. I difficili equilibri commerciali tra i due paesi, sui quali si innestano politiche internazionali potenzialmente molto pericolose, come il sempre maggiore avvicinamento di Pechino ad Islamabad, possono costituire il detonatore di un progressivo aggravamento dei rapporti tra i due colossi. Al mondo serve tutt'altro che un nuovo confronto che aggravi la stabilità politica ed economica.

mercoledì 18 aprile 2012

Il caso Repsol: precedente pericoloso in una condizione globale difficile

L'atto della presidentessa argentina Kirchner, di rinazionalizzare i giacimenti petroliferi del paese a danno della società spagnola Repsol, che li aveva in concessione, dopo un pagamento di circa 13 miliardi di euro, obbliga a riflessioni che sconfinano nelle questioni degli equilibri geopolitici. La prima considerazione da fare è che la tempistica non è casuale, l'Argentina colpisce la Spagna in un momento di debolezza economica, aggravandone i fondamentali, che infatti sono immediatamente peggiorati. Sembra una vera e propria dichiarazione di guerra economica e diplomatica, che non può essere letta slegata dall'azione politica sulla questione delle Falkland-Malvinas intrapresa sulla stampa contro il governo inglese. Siamo di fronte ad un ulteriore tassello, costruito dal governo argentino, per portare avanti la propria strategia di distrazione dalla difficile questione interna. Tuttavia questo è solo un aspetto della più ampia e complessa questione. La valenza strategica delle risorse naturali impone continue scelte che variano gli assetti pre esistenti, sebbene questi siano regolati da accordi internazionali o semplicemente da accordi di tipo commerciale. Il governo argentino si trova nella difficile situazione di avere la materia prima ma non la tecnologia per lavorarla, in questo manifestando la assoluta arretratezza delle proprie infrastrutture, ma risolvere il problema semplicemente espropriando le raffinerie di un gruppo industriale estero, pone o meglio dovrebbe porre il paese in uno stato di totale inaffidabilità, oltre che esporlo a sanzioni e guerre commerciali. Ma questo è vero solo in parte, la Spagna attuale ha poche possibilità di fare valere le sue ragioni, per prima cosa proprio per la difficile situazione che sta attraversando e poi perchè, come paese esportatore avrebbe comunque degli ulteriori svantaggi ad intraprendere una azione commerciale contro l'Argentina, che è nei confronti spagnoli, paese importatore. Nemmeno la UE, può andare oltre le proteste formali, evidenziando ancora una volta l'impotenza dell'organismo, che è grande solo sulla carta e ben poche volte nella pratica. Resta il problema che di fronte ad altri potenziali partner stranieri, anche in campi diversi da quello energetico, l'Argentina dovrebbe entrare sulla lista nera dei paesi poco affidabili. Malgrado questa considerazione ovvia Buenos Aires non deraglia dai propri propositi, questo potrebbe significare che dietro la manovra della nazionalizzazione ci siano altre potenze o gruppi stranieri pronti a subentrare alla società spagnola e per la verità si sono già fatti i nomi di società russe. Ma anche se ciò non dovesse verificarsi e l'Argentina optasse per una gestione nazionale delle proprie risorse energetiche, nel panorama internazionale la manovra non ha destato grossa indignazione. Gli USA non hanno fatto alcuna dichiarazione e nei paesi latino americani è sempre più crescente il sentimento anti europeo nella misura in cui gli stati o le società del vecchio continente sono percepite non come portatrici di lavoro e di reddito ma come sfruttatori delle risorse e del lavoro di quelle che erano ex colonie, anche se da tempo si sono affrancate da questo stato. Tutto ciò non può che portare alla riflessione che la ricchezza mondiale deve essere divisa in modo diverso, sia sul piano internazionale che sul piano sociale interno ad ogni paese. Casi come quello della Repsol potrebbero aumentare proprio in ragione della maggiore difficoltà economica degli stati causata dalla congiuntura attuale, che obbliga i governi a racimolare le risorse disponibile dove sono, anche contravvenendo alle leggi commerciali. In fondo la Spagna è una potenza medio piccola che di fronte ad un caso del genere può ben poco, ma se ciò accadesse e potrà accadere, a potenze di maggiore peso e consistenza quale potranno essere le vie di soluzione? Quella che rischia di aprirsi è una fase difficile dei rapporti commerciali internazionali, perchè condizionati dall'alto debito pubblico di diversi stati e dalla difficoltà finanziaria della manovra dei governi. La soluzione Kirchner rischia di aprire una strada pericolosa e densa di elementi negativi, che si può prevenire soltanto con una ridiscussione globale degli effetti negativi della finanza mondiale, in modo da prospettare una soluzione sicura ma diluita nel tempo del problema del debito pubblico mondiale.

martedì 17 aprile 2012

Il pericolo di guerra tra Sud Sudan e Sudan

Dopo la difficile situazione in corso nel Mali, un'altro conflitto, che potrebbe però avere ben altre conseguenze, rischia di svilupparsi nel continente africano. Quello tra Sudan e Sud Sudan, dove la seconda nazione è nata per mezzo di un referendum democratico staccandosi dalla prima, è un confronto aperto che sta per scoppiare da mesi. Nonostante la prima impressione dopo l'effettuazione del referendum, fosse quella di una tranquilla transizione, sebbene precedentemente ci fossero stati anni di confronti militari, il mancato accordo definitivo sulle rispettive linee di confine ha lasciato una situazione potenzialmente instabile, che ora presenta il conto. Tutto ruota al fattore petrolio, determinante per l'economia dei due paesi, che restano comunque dipendenti l'uno dall'altro a causa del possesso del Sud Sudan dei giacimenti e del Sudan delle infrastrutture necessarie per il trasporto del greggio. Tuttavia con la perdita della parte meridionale del paese, Khartum, capitale del Sudan, ha visto diminuire la sua capacità estrattiva di circa il 75%. E' così diventato fondamentale cercare di inglobare all'interno dei propri confini la città petrolifera di Heglig, capace di una produzione di circa 115.000 barili al giorno. La città si trova nell distretto di Abyei, letteralmente a cavallo tra i due stati e spesso teatro di scontri tra le due fazioni. Va detto che un arbitrato internazionale riconobbe al Sudan i giacimenti di idrocarburi presenti a nord, est ed ovest della città di Abyei, insieme ad i siti petroliferi di Heglig, mentre al Sud Sudan si assegnò il controllo amministrativo del centro urbano di Abyei ed il campo petrolifero di Diffra. Alla città di Abyei veniva concesso però anche uno speciale status amministrativo che prevedeva l'effettuazione successiva di un referendum, attraverso il quale il centro urbano avrebbe dovuto scegliere di quale stato avrebbe fatto parte. Questo referendum non è mai stato indetto e rappresenta uno dei motivi che contribuiscono e rendere poco limpida la situazione, favorendo la disputa che potrebbe sfociare in conflitto.
Le dichiarazioni che provengono da Karthoum parlano espressamente del Sud Sudan come nemico ed il conflitto appare sempre più probabile, anche perchè le truppe del Sud hanno occupato Heglig, andando a violare l'arbitrato internazionale ma sopratutto colpendo in maniera pesante l'economia Sudanese, privandola dalla quota consistente di greggio proveniente dalla città occupata. L'aviazione sudanese ha così intrapreso una massiccia campagna di bombardamenti, che potrebbe aprire altri fronti di confronto bellico. Ma questa situazione, che in altri teatri sarebbe già sfociata in una dichiarazione di guerra aperta, non si evolve ed i due paesi ufficialmente sono ancora in pace. Entrambi temono che una guerra formale aprirebbe scenari difficile da controllare, sia sulpiano geopolitico che economico e quindi preferiscono proseguire su atti intimidatori isolati da un contesto più ampio, scaramucce di confine che dovrebbero, nelle intenzioni dei due contendenti provocare la desistenza dell'avversario. Una delle ragioni è il costo troppo elevato di una guerra su grande scale, che nessuna delle economie dei due paesi sarebbe in grado di sopportare. Ci sono poi le esortazioni delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea a trovare un accordo, anche per evitare pericolose ripercussioni sul prezzo del greggio in un momento particolarmente difficile per l'economia globale. I due soggetti sovranazionali dovrebbero adoperarsi di più per dirimere la questione, iniziando a mediare tra i due stati per quel che riguarda le problematiche economiche più immediate ma che costituiscono sempre un terreno minato. Il Sud Sudan accusa infatti il Sudan di rubare il proprio petrolio che viene trasportato nelle infrastrutture sudanesi, ma quest'ultimo accusa il primo di non pagare i costi del trasporto dovuti; a questo va ad aggiungersi la polemica sul mancato accordo della ripartizione del gettito fiscale circa i prodotti petroliferi, che occorre ricordarlo, vengono lavorati dal greggio del Sud Sudan in raffinerie sudanesi.

lunedì 16 aprile 2012

Osservazioni sugli attentati dei talebani a Kabul

La tradizionale offensiva di primavera, da parte dei talebani in Afghanistan, è partita in modo spettacolare proprio nel cuore della capitale del paese: Kabul. La capacità tattica dei talebani ha saputo coordinare un ventaglio di attentati portati ai centri nevralgici dello stato, alle ambasciate occidentale ed alle caserme della NATO. L'uso di kamikaze, votati alla morte, ha reso più difficile l'azione preventiva delle forze governative, anche se il fallimento dei servizi segreti, gli unici in grado di fornire informazioni tali da anticipare le mosse dei terroristi, appare in questi momenti significativa. Sono occorse ben diciassette ore di combattimenti, con l'appoggio dell'aviazione leggera americana, per avere ragione dei combattenti talebani, che hanno dimostrato una notevole capacità militare, anche al di fuori dei terreni montuosi, a loro ben più congeniali. Nonostante le lodi del generale americano John Allen, che comanda l'ISAF, alle forze regolari afghane, è chiaro che il teatro di guerra di Kabul non rappresenta l'intero Afghanistan. La capitale del paese, oltre ad essere un teatro urbano, contiene al suo interno arsenali e caserme, sia dell'esercito locale che di quello NATO, che consentono un presidio costante ed una conseguente reazione rapida ad eventuali attacchi. Non così nelle zone montagnose del paese, che comprendono valli impervie ed inaccessibili e dove le forze talebane possono contare anche sull'appoggio di gran parte della popolazione. Tanto è vero che neppure i potenti mezzi dell'esercito americano, come gli altri eserciti che nel corso della storia ci hanno provato, sono riusciti ad avere ragione dei combattenti locali. Tuttavia, se fino ad ora i combattimenti più feroci si sono svolti proprio nei territori di montagna, l'attacco diretto a Kabul può essere un punto di svolta nella strategia talebana ed insieme rappresentare la consapevolezza della propria forza. E' un nuovo elemento da non sottovalutare per il prosieguo delle ostilità e della vita stessa dello stato afghano come è stato ricostruito dal 2001. La posizione di Karzai esce indebolita da un attacco così diretto al cuore del paese e probabilmente gli USA saranno costretti a rivedere la loro strategia di uscita, prevista per il 2014; inoltre l'attacco militare compiuto in grande stile, significa anche il fallimento dichiarato delle trattative dei mesi scorsi. Sul tavolo del Qatar, erano puntate le speranze americane di lasciare un paese pacificato, con il coinvolgimento di almeno quella parte di talebani che pareva più disposta al dialogo. Proprio questa divisione tra le varie componenti della galassia talebana, potrebbe fare pensare che gli autori degli attentati possano fare parte della parte più oltranzista, che con una tale operazione ha cercato, ed ottenuto, una maggiore visibilità mediatica. In ogni caso è inconfutabile che la capacità di infiltrarsi e di compier atti terroristici proprio nei centri di potere raggiunta dai talebani risulta essere notevolmente accresciuta. Ancora una volta il lavoro dei servizi segreti, come rilevato dal presidente Karzai, non è stato all'altezza e continua a rappresentare il tallone d'Achille del sistema difensivo interno. Se ad un certo punto la politica di Obama, di puntare meno sull'impatto bellico e potenziare sia i servizi di informazione, che il contatto con il tessuto sociale, mediante la costruzione di scuole e di ospedali, sembrava produrre buoni risultati, ora si torna clamorosamente indietro ed il paese, oltre che meno stabile, risulta in preda ad una frattura insanabile tra centri urbani e zone montuose, dove la sovranità del governo di fatto è inesistente. La volontà di compiere atti che hanno una cassa di risonanza così ampia è anche quella di colpire l'immaginazione del popolo americano nel momento del voto imminente. I sentimenti del cittadino medio sono combattuti tra volontà di affermazione della super potenza americana e la paura di finire in situazioni analoghe al Vietnam ed all'Iraq. Ma Obama non può, per ragioni strettamente geopolitiche abbandonare Karzai, che senza gli USA è un uomo morto. Un paese di nuovo in mano ai talebani è fuori dai progetti americani, perchè potrebbe tornare ad essere un serbatoio importante per il terrorismo internazionale. La questione diventa quindi di difficile soluzione. Probabile che per il momento il programma di ritiro resti invariato, ma dopo le elezioni qualcosa potrebbe cambiare.