Politica Internazionale

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domenica 24 giugno 2012

Presenze USA in Siria e possibile sblocco della crisi

Gli USA starebbero operando direttamente nel teatro siriano attraverso personale presente nel sud della Turchia, la parte confinante con la Siria, per la distribuzione di armi alle forze di opposizione al regime di Assad. Lo scopo principale è controllare che le armi non vadano in mano a gruppi di fondamentalisti islamici, tra cui cellule di Al Qaeda, presenti anch'essi nella eterogenea composizione degli oppositori di Damasco. Vi è anche uno scopo contingente nella ragione della presenza americana, ed è quello di conoscere più a fondo la situazione per prevenire, nel caso della caduta di Assad, un deriva fondamentalista del paese. In realtà la presenza americana ufficialmente è soltanto quella necessaria alla distribuzione di materiale non bellico, tra cui strumenti di radio comunicazione ed aiuti medici e lo staff della Casa Bianca smentisce l'ipotesi degli aiuti attraverso la fonitura di materiale militare, i cui finanziamenti ufficiali provengono da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. La strategia americana ufficiale, in Siria resta quella delle sanzioni e della via diplomatica, tuttavia resta difficile da credere, che il futuro di un paese così importante per gli assetti geopolitici della regione più delicata del mondo, non sia seguito in maniera più diretta che dalle sole control room di Washington. In quest'ottica la presenza in Turchia, l'alleato americano più importante dell'area, chiarirebbe le vere intenzioni del governo di Obama, che usa Ankara come scudo diplomatico in una situazione che interessa però fortemente entrambi gli stati. La Turchia, fin dal'inizio della questione siriana, ha assunto un atteggiamento ben preciso, contrario alla politica di Assad, ospitando sul suo territorio i numerosi profughi provenienti da oltre frontiera ed attivandosi con l'appoggio ai ribelli, prima in forma più riservata, poi in maniera più aperta. In questo quadro è significativo il caso dell'abbattimento della aereo militare turco, che sarebbe avvenuto ad opera della contro aerea siriana. Erdogan ha chiarito che se ciò verrà appurato la Turchia prendrà le adeguate contromisure. Potrebbe essere l'occasione per l'intervento militare in aiuto dei ribelli, fino ad ora risultato impraticabile. Se l'abbattimento dell'aereo turco, infatti, venisse letto, da parte della NATO, come un attacco al paese, potrebbe scattare la clausola dell'aiuto dell'organizzazione atlantica ai suoi membri vittime di attacco militare. Anche se estremizzata, tale eventualità, potrebbe lo strumento per la soluzione della crisi, contro cui Cina e Russia potrebbero opporre soltanto condanne di tipo diplomatico. La soluzione andrebbe quindi in favore dell'occidente, sia in chiave anti iran, che nell'ottica di ridimensionamento delle ambizioni russe e sopratutto potrebbe finalmente interrompere i massacri di Assad, ormai troppo frequenti.

mercoledì 20 giugno 2012

Il pericoloso atteggiamento russo sulla questione iraniana

Lo stallo dei negoziati sul nucleare iraniano, in corso a Mosca, non fa intravedere risultati positivi nello sviluppo della questione. Se l’intenzione era scongiurare il possibile attacco israeliano, va subito detto che le condizioni non sono affatto mutate. L’ostruzionismo russo, delineato dalla linea di politica estera intrapresa da Putin, contribuisce ulteriormente ad una situazione maggiormente confusa. L’impressione è che l’Iran sia strumentale alla Russia e che sia vero anche il contrario, nei confronti di USA ed Europa. Aldilà della facciata diplomatica, Mosca ha preso una via ben precisa nei confronti della questione iraniana, che si impernia nel procrastinare la decisione del gruppo composto da USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania, in modo da dare tempo all’Iran nei suoi piani. D’altra parte se Teheran si ostina a non dare corso alle richieste di ispezione dei siti incriminati, dimostra chiaramente le sue reali intenzioni, che non possono che essere quelle che spaventano Tel Aviv. Mosca sta portando avanti un gioco pericoloso nel medio oriente, oltre che con la questione iraniana, anche i recenti sviluppi in Siria, pongono la Russia in una posizione di antitesi con l’occidente, che non può che preoccupare il panorama internazionale. Permettere all’Iran di guadagnare tempo e così aumentare la tecnologia atomica, appare come una strategia quasi incomprensibile, il rischio di provocare veramente un conflitto che da regionale può degenerare in qualcosa di più ampio, appare uno strumento di pressione nei confronti degli USA, denso di troppe incognite. Anche il rapporto che si sta creando tra la teocrazia iraniana e Mosca può andare fuori controllo in un futuro non molto lontano. Le perplessità che suscita l’atteggiamento russo devono essere comprese nell’indirizzo impartito da Putin, disposto a rischiare molto per intaccare il ruolo di potenza dominate degli Stati Uniti. Non bastano i motivi economici, forse più confacenti alla Cina, per spiegare la sterzata data in politica estera al nuovo inquilino del Cremlino. Se Mosca pensa di riguadagnare terreno nella classifica delle super potenze, con una tattica così disperata, significa che non ha molti argomenti per riproporsi all’attenzione del mondo, ma questa strategia della disperazione non può che rimarcare la pericolosità dell’orso ex sovietico, in crisi di identità emersa in tutta la sua prepotenza. Se a Mosca dovesse sfuggire il controllo, che crede di avere, sull’Iran, per il mondo gli interrogativi diventeranno veramente inquietanti.

domenica 17 giugno 2012

USA ed Europa: politiche di cittadinanza differenti

La decisione di Obama di dare la cittadinanza ad 800.000 americani nel cuore, come li ha definiti il Presidente USA, pone ancora una volta la questione della forza e dell'innovazione americana rispetto all'immobilismo europeo. Aldilà delle considerazioni di carattere partigiano, che hanno presentato i repubblicani, con argomentazioni anche valide, e delle implicazioni legali di un provvedimento che presenta vistose lacune, occorre riflettere, in questi tempi di profonda crisi economica, sull'impatto di un provvedimento del genere e della capacità di sostenerlo. La norma va ad incidere direttamente su quel lato dell'economia, che considera gli investimenti come una notizia che può fare innalzare il prodotto interno lordo di un paese. Naturalizzare 800.000 persone non può che essere visto come un atto di fiducia in una ripresa economica che stenta a decollare, ma, insieme, anche una profonda lezione all'Europa del regionalismo con le prospetive ristrette. Certo, anche in un momento particolarmente difficile gli USA hanno una forza economica in grado di sostenere un provvedimento che la UE non potrebbe neppure concepire. Ma il lato economico, pur importante, rappresenta solo una parte del problema. La chiusura di molte società europee è dovuta alla mancanza di capacità di gestione di un problema, che poteva diventare una opportunità. Istituzioni miopi non hanno saputo regolare un mercato dei clandestini, che faceva comodo a sfruttatori presenti in ogni campo, con il risultato di innalzare la temperatura rilevata nel termometro sociale. Questo ha determinato una chiusura culturale, che restringe le possibilità di naturalizzazione anche nei casi più evidenti. Dare la cittadinanza a chi è nato o anche solo cresciuto nei paesi europei non è un atto di misericordia ma un concreto investimento per la crescita della società. Non si auspica qui una apertura delle frontiere non regolata, anzi si chiede una regolazione più attenta in grdo di elaborare le giuste distinzioni. D'altra parte il fenomeno migratorio è un fatto irreversibile che non si ferma con ottuse chiusure indiscriminate. Obama ha fatto molti errori nel suo mandato, sopratutto non riuscendo a mantenere alcune promesse elettorali, ma con questo provvedimento si rivela un politica di alta classe, che in Europa non ha alcun paragone.

venerdì 15 giugno 2012

Chavez: anello di passaggio della politica estera russa ed iraniana

Quella che si sta profilando è una alleanza tra dittatori certamente da non sottovalutare. Gli incontri tra Chavez, Ahmadinejad e Lukashenko, non possono non mettere in apprensione il mondo occidentale per la creazione di rapporti che si annunciano sempre più stretti. Il punto di partenza riguarda la produzione militare di cui il Venezuela sta diventando un grande compratore. L'acquisto di droni, armi e munizioni rientrano nel piano di Chavez per difendere quella che lui definisce la sua rivoluzione. Il principale fornitore del Venezuela è proprio l'Iran, che estende il suo modello di politica estera contro gli Stati Uniti, anche nel continente sud americano. Ad accomunare Caracas e Teheran vi è una rinnovata retorica anti americana, nel momento storico caratterizzato dalla presidenza Obama, che probabilmente rappresenta il periodo meno indicato per praticare questo tipo di discorsi. Tuttavia non si può non individuare negli USA il nemico principale, contro cui Chavez intende difendersi. Alla coppia iraniano venezuelana si aggiunge Lukashenko, il dittatore della Bielorussia, paese più volte sanzionato dalla comunità internazionale, per la negazione dei diritti civili, ma sostenuto da Mosca. La visita del capo bielorusso a Caracas, rientra in una strategia dove è francamente difficile non intravedere la mano dei russi, che, appunto tramite Lukashenko, offrono l'appoggio a Chavez, che forse non possono dare in maniera più limpida. Quello che si prefigura pare un ritorno al passato delle relazioni internazionali, per Putin il piano, anche presentato come proposta elettorale, di fare diventare di nuovo la Russia una grande potenza, passa per una rinnovata rivalità con gli Stati Uniti, in quello che pare un tentativo di rivalsa per le posizioni perse con la caduta del regime sovietico. Mosca anzichè collaborare con Washington, come pareva avviata a fare negli anni novanta dello scorso secolo, si allontana sempre di più dalle istanze, non solo americane ma anche occidentali. Il caso della Siria è sintomatico, ma anche il dubbio rapporto che coltiva con Teheran, fatto di alti e bassi certo, ma senza che vi sia mai una esplicita condanna della corsa agli armamenti nucleari, non può che fare intravedere un disegno chiaro dell'azione diplomatica del Cremlino, che mette al centro le relazioni con paesi schierati principalmente contro gli USA ed in seconda battuta con l'occidente, più spesso identificato con la UE. La conquista del continente sudamericano, per le sue risorse, è un obiettivo ritenuto praticabile, con molti distinguo relativi ad i diversi paesi, dai nemici degli USA, perchè l'avversione a Washington, malgrado la situazione sia cambiata, ha radici storiche non ceerto ingiustificate. L'azione americana delgi anni settanta ed ottanta, che ha privilegiato le parti più conservatrici del paese, per asservirle agli scopi di Washington, benchè abbandonata da tempo, ha lasciato pesanti strascichi nella popolazione e negli stessi governi in carica. Anche nei paesi più ricchi, come il Brasile, vi è uno smarcamento sempre più forte dall'orbita americana; tuttavia, non sono i paesi più ricchi e nei quali vi è un processo democratico più radicato nella vita sociale ad essere oggetto delle attenzioni dei nemici degli Stati Uniti, ma, piuttosto, stati, come appunto il Venezuela, dove la componente populista è maggioritaria tra la popolazione. Ahmadinejad è bravo a comprendere in quali interstizi può penetrare per portare avanti la sua politica quasi in casa del nemico, assumendo una visibilità ormai preclusa in altre parti del globo. A ciò fa da contraltare la politica estera americana, che pare avere abbandonato alcune zone a causa della troppa concentrazione in altre, come l'Afghanistan, l'Iraq e le zone del Giappone e della Corea del SUd, ritenute strategiche per la vicinanza con la Cina. E' vero che Obama ha professato una politica estera da esercitare sottotraccia, ma estremizzare questo atteggiamento potrebbe portare consensi alle maggiori motivazioni repubblicane in campagna elettorale. Per gli USA è importante non ritirarsi troppo e chiudersi all'interno dei propri confini: gli spazi lasciati possono essere colmati facilmente da altri.

giovedì 14 giugno 2012

In Egitto sciolta la camera bassa, dove i Fratelli Musulmani avevano la maggioranza

La decisione delle Corte Costituzionale egiziana, che ha sciolto la Camera bassa del parlamento formatasi dal risultato delle recenti elezioni, pone l'Egitto di nuovo in una situazione molto pericolosa. Il motivo dello scioglimento deriva dalla legge elettorale vigente, che sarebbe contraria alla costituzione. Il risultato elettorale aveva consegnato alla formazione religiosa dei Fratelli Musulmani la maggioranza del ramo del parlamento. Lo scioglimento, avviene in un momento molto delicato per il paese, alla vigilia delle elezioni presidenziali. Che la situazione sia tesa all'interno del paese lo testimonia il fatto che il Consiglio militare si sia riunito d'urgenza per controllare lo svolgimento degli avvenimenti, i quali, peraltro, non si preannunciano distesi. Mohamed Beltagui del comitato esecutivo del partito dei Fratelli Musulmani, Giustizia e Libertà, ha definito esplicitamente il provvedimento un colpo di stato, che annulla le vicende dei mesi scorsi, che hanno portato alla caduta di Mubarak ed alle prime libere elezioni svoltesi nel paese. In effetti il provvedimento della Corte Costituzionale egiziana, a prescindere dai motivi legali, appare mosso da considerazioni politiche, fondate sulla storia stessa del paese, dove le classi dominanti non hanno mai visto di buon occhio, quella che loro considerano una deriva quasi teocratica. Il risultato delle elezioni aveva scontentato parecchie anime della protesta, sopratutto quelle laiche, per il timore dell'instaurazione dei principi islamici come legge vigente. Fattore che i vincitori hanno sempre smentito, ma ciò non ha mai convinto chi auspicava una direzione più occidentale dell'Egitto e sopratutto i militari, grandi registi dietro le quinte, del passaggio di potere e della caduta di Mubarak. Probabilmente dietro la decisione della Corte, più che le opinioni dei gruppi partitici che speravano in una svolta del paese grazie all'instaurazione di una democrazia simile a quelle vigenti in occidente, vi è chi detiene effettivamente il potere nel paese: i militari. Il timore di perdere le proprie prerogative ed anche i propri privilegi, che verosimilmente verrebbero ridotti da un governo di matrice islamica, ha creato i presupposti per la decisione della Corte. Ora tutto potrebbe ritornare in gioco e ripartire dall'inizio: l'organizzazione logistica dei Fratelli Musulmani, sopravissuta nell'illegalità durante il regno di Mubarak, è capace di ricreare quel clima di protesta che ha permesso la caduta del faraone, anche se ora non dovrebbero godere dell'appoggio dei partiti laici, di cui erano alleati durante le fasi acute della ribellione, che si sono detti scontenti per il risultato delle urne, che appunto, hanno favorito le formazioni confessionali. In questa situazione di profonda incertezza sono state significative le parole di El Baradei, che ha sottolineato come l'elezione di un presidente di un paese privo della Costituzione e di un Parlamento, significa consegnare ad un individuo poteri più ampi di quelli di un dittatore. Ragionevoli, quindi le sue proposte: da un lato l'elezione di un presidente ad interim o, ancora meglio, di un consiglio presidenziale che adempia ai propri doveri insieme ad un governo di unità nazionale e la creazione di una commissione costituente in grado di redigere una legge fondamentale capace di tenere conto di tutte le istanze presenti nel paese. Resta ora da vedere se il paese e sopratutto i militari intenderanno seguire questa strada, alla quale, come alternativa esiste solo di nuovo la guerriglia e le violenze.

Gli USA accusano la Russia per gli aiuti ad Assad

La questione siriana, troppo a lungo sottovalutata, rischia di avere un impatto ben maggiore sul complesso sistema delle relazioni internazionali. L'ultima vicenda riguarda la rinnovata tensione tra USA e Russia, che pare ricalcare le cupe atmosfere della guerra fredda. Gli Stati Uniti accusano Mosca di rifornire Damasco con armi, elicotteri da combattimento e sistemi anti aerei, viceversa la Russia accusa Washington di fare altrettanto con le forze ribelli. Se entrambi negano le reciproche accuse, Mosca ammette però, di avere effettivamente inviato i sistemi di difesa aerea, facenti parte di lotti di forniture firmate precedentemente dell'inizio della guerra civile in corso, mentre gli USA hanno confermato soltanto l'invio di materiale medico ed apparati per le radio comunicazioni, smentendo in modo categorico l'invio di armamenti. Se risulta ben difficile stabilire, sopratutto adesso, la verità, l'invio dei sistemi anti aerei, peraltro confermato dai russi, va ad inquadrarsi nella strategia di Mosca di evitare che forze aeree possano bombardare le truppe di Assad. Il pensiero russo si basa sui precedenti casi della Serbia e della Libia, dove, per sfiancare i regimi in carica è stata usata l'arma aerea, che attraverso bombardamenti, che dovevano essere mirati, ha operato con lo scopo di indebolire i governi in carica ed in appoggio delle forze di terra ribelli, evitando l'impiego diretto di truppe straniere sul terreno. Anche per la Siria i piani erano questi, ricalcando un modello di azione ormai assestato. La Russia, affiancata dalla Cina, ha unito gli sforzi diplomatici con il veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, con la fornitura dei sistemi anti aerei ottenendo così di blindare dall'alto il regime di Assad, anche nel caso di azioni concordate al di fuori dell'ombrello delle Nazioni Unite. Così se i sistemi anti aerei russi assicurano una copertura del cielo siriano, in concomitanza con l'impossibilità di una invasione da terra, Assad per il momento resta saldamente al suo posto, giacchè la composizione delle forze in campo può consentire ai ribelli, nella migliore delle ipotesi, soltanto il mantenimento delle zone conquistate, insomma una situazione di stasi, che, però gioca a favore del dittatore siriano, perchè gli consente di recuperare tempo prezioso per riorganizzare la riconquista sistematica dei territori a lui più lontani. L'atteggiamento russo non è però una novità, nello schema geostrategico di Mosca la Siria rappresenta una pedina fondamentale, perchè in quella nazione è ospitata l'unica base militare russa nel Mediterraneo ed un eventuale cambio al vertice del paese potrebbe creare le condizioni per uno sfratto delle navi militari ex sovietiche, sopratutto dopo il comportamento di appoggio ad Assad tenuto finora dal governo russo. La situazione particolarmente tesa tra USA e Russia impedisce qualsiasi progresso sulla via della pacificazione in Siria e l'irrigidimento delle rispettive posizioni non favorisce gli incontri bilaterali che dovevano tenersi nei prossimi giorni e che risultano ora sospesi. Il maggiore impegno della Russia a favore di Assad rischia così di diventare un pericoloso intralcio nella soluzione della questione e determina che l'unica strategia possibile sia un maggiore coinvolgimento della Cina, verso cui devono essere operate azioni di convincimento a cambiare il proprio atteggiamento nel considerare possibili alternative all'ormai fallito piano di pace di Annan. Un mutato atteggiamento cinese porterebbe la Russia ad un isolamento diplomatico sulla questione siriana difficilmente spiegabile se non con l'ammissione, per ora sempre negata, di profondi interessi in Siria, tali da permettere le carneficine praticate da Assad: una posizione difficilmente sostenibile per una nazione che aspira a riprendere il suo ruolo di super potenza, in un contesto che non è più quello degli anni della guerra fredda.

mercoledì 13 giugno 2012

Gli attentati sunniti in Iraq possono favorire la politica estera iraniana

I numerosi attentati di questi giorni in Iraq, contro gli sciti, rimettono al centro la questione dell'unità del paese, da sempre diviso tra el due principali correnti dell'islam. Il governo di Saddam Hussein aveva risolto il problema favorendo i sunniti e sottoponendo gli sciti ad una ferrea repressione; con il governo democratico e la concomitante partenza del grosso dei militari americani, il paese sembra sprofondato nell'ennesima spirale di violenza. Le conseguenze, oltre che sul piano interno, rischiano di essere molto pesanti su quello internazionale, con il solito Iran a fare la parte del guastatore. Non è un mistero, infatti, che Teheran ambisca a portare sotto la sua influenza il paese iraqeno, molto vicino ad un vuoto di potere, per allargare la sua sfera d'azione nella regione. Certamente, se non all'intero territorio, l'Iran mira alla parte meridionale del paese, dove vi è la maggiore presenza scita e vi sono diversi giacimenti petroliferi. La questione della presenza di sciti e sunniti all'interno dello stesso paese, poteva essere risolta con la divisione in due parti dello stato, nella fase del dopo Saddam, ma Washington non ha optato per questa soluzione, proprio per impedire che Teheran potesse, a quel punto, concretizzare le sue mire sulla parte scita del paese. La strategia sunnita mira a portare il paese nel terrore, con attentati kamikaze, che spesso hanno come obiettivo luoghi sacri per gli sciti, non a caso tra gli ultimi attentati hanno avuto come destinatari pellegrini sciti che si recavano alla celebrazione per la venerazione di un Imam. Come già accaduto per la repressione degli sciti nei paesi del Golfo Persico, Teheran potrebbe sfruttare questa situazione a proprio vantaggio, inglobandola nella propria politica derivante dall'auto nomina a paese protettore degli sciti nel mondo, specialmente quelli oggetto di prevaricazione da parte dei sunniti. Si tratta di una strategia che permette all'Iran di percorrere una doppia finalità: allargare la propria influenza su paesi stranieri, spesso nemici dichiarati, come l'Arabia Saudita, attraverso l'appoggio della parte scita della popolazione di quegli stati e nello stesso tempo, dare indicazioni a questi gruppi etnici e dirigerli verso ribellioni capaci di destabilizzare l'ordine interno. Non a caso proprio l'Arabia Saudita ha più volte protestato contro le ingerenze iraniane degli affari interni della propria nazione e degli alleati, come il Bahrain. Il progetto iraniano in politica estera si muove quindi su di una direttrice che possa annullare gli effetti dell'isolazionismo imposto dagli stati occidentali, per sfondare verso zone dove la presenza scita può assicurare un canale preferenziale verso chi si presenta come a loro come protettore e punto di riferimento religioso. Ciò determina una capacità di mobilitazione anche piuttosto importante all'interno di stati stranieri, che diventa quindi uno strumento concreto di pressione internazionale. Ma, allo stesso tempo , costituisce un potenziale pericolo per la stabilità regionale, in realtà uno degli obiettivi di Teheran pare muoversi proprio in quel senso, l'aiuto alla Siria di Assad, le citate ingerenze nei paesi del Golfo e l'attività nello Yemen, configurano l'insieme di una complessa strategia, anche sotto traccia, volta a diventare la risposta alle sanzioni occidentali, questo perchè senza una adeguata platea, la repubblica teocratica iraniana non può schierare il suo arsenale propagandistico, che ne costituisce una delle maggiori fonti di sopravvivenza.