Politica Internazionale

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martedì 3 luglio 2012

Le esercitazioni militari iraniane aumentano la tensione nel medio oriente

Il prossimo vertice sul programma nucleare iraniano, che si terrà ad Istanbul tra l'Iran ed i cinque membri permanenti di sicurezza delle Nazioni Unite, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania, parte sotto i peggiori auspici, non tanto per la difficoltà sempre maggiore delle trattative di arrivare ad un punto soddisfacente, quanto per le esercitazioni militari iraniane, che hanno avuto lo scopo di testare l'efficacia dei missili balistici di Teheran. La tempistica di questo sfoggio di forza militare non è casuale, il messaggio che racchiude infatti è diretto a quelle nazioni, prima fra tutte Israele, ma anche gli Stati Uniti, che potrebbero pensare ad una azione bellica contro il paese iraniano, per azzerare i suoi progressi verso la bomba atomica.
I missili Shahab 1, 2 e 3, Qiam, Fatah e Tondar sono stati lanciati in diverse zone del paese con un tasso di successo vicino al 100%. In particolare il mezzo balistico più pericoloso è lo Shabab 3, capace di una gittata di 2.000 chilometri, che consentirebbe di colpire, oltre ad Israele, tutti quei paesi del medio oriente dove sono ospitate le basi militari americane. La stessa Turchia, in quanto membro NATO, potrebbe entrare nel raggio di eventuali ritorsioni o addirittura, attacchi preventivi alle forze USA, presenti sul suo territorio. Gli altri tipi di missile, pur avendo una gittata inferiore, tra i 200 ed i 750 chilometri, restano pur sempre un'arma letale in mano alla teocrazia islamica. Nonostante si stimi che nell'arsenale iraniano siano presenti soltanto alcune decine dei missili a gittata maggiore, la capacità di colpire obiettivi occidentali non deve essere sottovalutata, specie se si considerano i progressi di Teheran nella ricerca atomica. L'ordigno nucleare giunto ad un vettore capace di coprire una distanza intorno ai duemila chilometri, giustifica i peggiori timori di Israele. Se Washington ha tenuto a bada finora Tel Aviv, la dimostrazione evidente dell'esercitazione militare delle forze armate iraniane, contribuirà ad aumentare le difficoltà di contenere la volontà israeliana di prevenire una tale possibilità. Il pericolo è che diventi la maggioranza chi considera una guerra preventiva il male minore, prima, cioè, che Teheran possa disporre pienamente dell'arsenale atomico. Un tale sviluppo della situazione potrebbe portare alla decisione di un attacco autonomo da parte dell'esercito israeliano al quale gli americani non potrebbero sottrarsi. Lo scenario diventa quindi ogni giorno più preoccupante, anche per le posizioni russa e cinese, che continuano una politica della trattativa ad oltranza, senza sottoscrivere le sanzioni occidentali contro l'Iran, che non riesce a produrre risultati apprezzabili. Peraltro risulta difficile comprendere la strategia iraniana, che pare sempre più provocatoria, sopratutto nei confronti di Israele, sopratutto in un momento di estrema difficoltà regionale per la questione siriana. Una tale instabilità espone il mondo intero ad un rischio di conflitto, che da regionale può espandersi, anche in forme non tradizionali, su di una scala più vasta, andando a coinvolgere attori differenti ed esponendo a sviluppi imprevisti anche nazioni più lontane dall'epicentro. Uno dei pericoli maggiori è la strumentalizzazione del confronto sia in chiave religiosa, occorre ricordare il crescente attivismo violento degli estremisti islamici in Africa ed in Asia, sia in chiave nord sud del mondo, in quest'ottica va ricordato, invece, l'attivismo diplomatico iraniano nei paesi centro e sud americani. La radicalizzazione e l'incanalamento di un conflitto, alla cui base vi è la paura della disponibilità della bomba atomica in mano ad un regime pericoloso, può creare nuove alleanze e spostarne di vecchie, alterando pericolosamente equilibri ormai assodati, ben aldilà del solo medio oriente.

L'Inghilterra vuole uscire dall'Europa?

Il pensiero anti europeo inglese si concretizza nella possibilità di effettuare un referendum per uscire dall'Unione Europea, come ha prospettato il premier Cameron. L'euro scetticismo di Londra non è una novità, l'adesione alla casa comune europea è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento tiepido, tipico di chi voleva sfruttare le possibilità derivanti dall'adesione con Bruxelles, senza, però, condividerne i lati meno vantaggiosi per il proprio sistema. L'impulso di unificazione europea dato dall'adozione della moneta unica è stato subito scartato in nome della sterlina, paravento di ragioni ben meno di bandiera. In realtà Londra non ha mai pensato seriamente di contribuire alla costruzione di una potenza europea, sopratutto dal lato politico e mascherando questa intenzione con ragioni economiche. L'incremento della crisi finanziaria ha poi aggiunto ulteriori perplessità ad una adesione al progetto europeo già poco convinta. In effetti attualmente i motivi politici sono ormai diventati equivalenti a quelli economici. L'Inghilterra non può tollerare le restrizioni, che saranno sempre più stringenti, che Bruxelles imporrà agli stati membri, in nome degli accordi recentemente sottoscritti in materia di debito e bilancio e che sono destinati a creare perdite consistenti di sovranità da parte dei governi nazionali. Per una nazione che ha perso il suo tessuto industriale e manifatturiero e che ha come principale attività la finanza, è impossibile accettare di non avere le mani libere da controlli sulla speculazione, significherebbe perdere consistenti quote di mercato, sopratutto a causa del contrasto di quelli canali speculativi operanti da Londra, che sono oggetto di attenzione da parte delle istituzioni europee. Quello che Cameron teme di più è la crescente influenza che sta acquistando l'area dell'euro su argomenti riguardanti l'intera Unione Europea, anche, quindi, su quella parte che non ha e non intende aderire alla moneta unica. La destinazione presa da Bruxelles prevede come punto di arrivo una maggiore integrazione politica, che riguarderà sia i già citati aspetti fiscali, che la politica estera e la difesa. Si tratta di argomenti sui quali i governi inglesi, di ogni colore, hanno sempre mostrato una certa ritrosia a rinunciare alla propria autonomia, ma il rovescio della medaglia è che un Regno Unito fuori dall'Unione Europea perderebbe, inevitabilmente, peso politico ed autorevolezza, riducendosi a diventare un alleato subalterno agli Stati Uniti. Neppure la strada di una rinegoziazione degli accordi con la UE pare una via praticabile, seppure l'atteggiamento comunitario è stato fino ad ora anche troppo paziente con Londra, non appare verosimile che Bruxelles conceda altri vantaggi agli inglesi senza contropartite adeguate. Se, infatti, l'Unione Europea può tranquillamente permettersi l'uscita della Gran Bretagna, acquisendone addirittura dei vantaggi, l'isolazionismo a cui rischia di condannarsi Londra non può che significare diventare un paese di secondo piano, dal punto di vista politico e diplomatico e più povero da quello economico. Certo il Regno Unito può diventare una sorta di paradiso fiscale, come Cameron ha scorrettamente proposto ai ricchi francesi in caso di aumento delle tasse patrimoniali, come previsto dal programma elettorale di Hollande, ma una tale politica non farebbe altro che accelerare l'indebolimento inglese nei confronti degli ex partner europei. E' palese che senza una trasformazione radicale della propria economia Londra non può che stare a metà del guado, ma è l'atteggiamento delle istituzioni europee che deve cambiare per mettere fuori dai trattati chi non aderisce al progetto di unificazione europea, l'unico che può permettere al vecchio continente di stare al passo dei colossi che dominano la scena mondiale.

mercoledì 27 giugno 2012

La Turchia dichiara la Siria paese ostile

La Turchia considera ufficialmente la Siria paese ostile, viene così modificato il protocollo militare, che, presumibilmente, verrà attivato nel caso di avvicinamento alle frontiere di elementi o apparati delle forze militari siriane. Il nuovo assetto sulla linea di confine, porta la situazione tra i due paesi ad un livello molto vicino allo scontro, aggravando una stuazione, sia regionale, che internazionale, già molto compromessa, per la presenza contemporanea di diversi soggetti portatori di visioni anche estremamente opposte sulla questione siriana. La mossa di Erdogan è stata ben ponderata e dettata da tempi di reazione tutt'altro che rapidi. L'esame approfondito dei tabulati dei percorsi radar fatta dai tecnici turchi, contraddice, infatti la versione siriana. Il jet turco sarebbe stato abbattuto in acque internazionali; prende così sempre più corpo l'ipotesi che la contro aerea siriana stava testando i nuovi armamenti forniti dai russi in vista di una possibile azione militare internazionale del tipo di quella messa in atto contro il regime di Gheddafi. In questi termini la mossa turca è stata praticamente obbligata, anche per dare un chiaro segnale alla comunità internazionale, dimostrando un atteggiamento non certo passivo. Tuttavia, se l'atteggiamento turco pone le basi per immediate ritorsioni verso altri eventuali atti ostili, le vere intenzioni del governo di Ankara non sono quelle di seguire la Siria in una eventuale escalation militare. Lo dimostrano le condizioni della richiesta per la riunione dei paesi NATO, convocata non sulla base dell'articolo 4 del trattato atlantico, che dispone che le parti si consulteranno ogni volta che, nell'opinione di una di esse, l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata, ma richiamando l'articolo 5, che prevede, che un attacco contro un membro sarà considerato come un attacco contro tutti, di tenore ben diverso quindi dall'enunciazione della disposizione precedente. L'atteggiamento russo è stato da subito di moderazione, forse per essere indirettamente responsabile dell'accaduto, caldeggiando l'ipotesi della non premeditazione siriana nell'abbattimento dell'aereo turco, ed invitando a percorrere con maggiore convinzione la strada del dialogo intrapresa da Kofi Annan, che, peraltro, fino ad ora si è rivelata priva di risultati. La cautela di Mosca rivela una profonda preoccupazione per una possibile svolta della questione non gradita al Cremlino, che potrebbe mettere in ulteriore cattiva luce la politica estera intrapresa da Putin. Se così fosse potrebbe essere messa in discussione tutta l'impalcatura su cui attualmente poggia la strategia diplomatica russa, troppo esposta con regimi dubbi ed autoritari, in un rapporto troppo spesso giocato sul limite della convenienza, che esula da ragionamenti logici al di fuori di evidenti manovre di potere nel teatro internazionale.

martedì 26 giugno 2012

Le paure israeliane per il potere agli islamici in Egitto

I peggiori timori israeliani si sono avverati con l'elezione di Mohamed Morsi a Presidente dell'Egitto. Le speranze di una elezione del candidato dell'esercito sono state frustrate dalla salita al potere dell'esponente di un movimento di radicali islamici, i Fratelli musulmani, che considera lo stato di Israele un nemico. Le reazioni ufficiali a Tel Aviv sono di freddezza ed improntate su dichiarazioni di circostanza, dove si loda il progresso democratico egiziano ed il rispetto per l'esito delle elezioni, auspicando la continuazione dei buoni rapporti presenti ta i due stati. Tuttavia i sentimenti reali del paese sono di profonda inquietudine per i possibili sviluppi della situazione e per la delusione della mancata instaurazione di una democrazia pienamente laica ad Il Cairo. Questo, del resto, è stato l'errore di valutazione compiuto da tutte le cancellerie occidentali, dove si è ritenuto che una rivoluzione contro una dittatura portasse in automatico ad una democrazia scevra da influssi teocratici, caratterizzati da elementi, ed è proprio questo l'ossimoro, contenenti elementi di autoritarismo. Questione percepita dalla grande maggioranza degli egiziani, che non si è recata alle urne proprio per la mancanza di fiducia in entrambi i conendenti politici, arrivati al ballottaggio. Per Israele ora si concretizza la paura del futuro del trattato di Camp David, che ha permesso di mantenere per trenta anni una salda sicurezza sul confine meridionale del paese. Se queste condizioni dovessero mutare, per Tel Aviv si tratta di rivedere tutto l'intero assetto difensivo in vigore nel paese.
Nonostante il nuovo presidente egiziano abbia espressamente detto che non intende cambiare nulla circa i trttati in vigore con Israele, quest'ultimo ha dei Fratelli musulmani una idea che li colloca non molto distante da Al Qaeda e sostanzialmente non crede alle parole di Morsi. Lo schema che potrebbe presentarsi è quello di un mantenimento ufficiale del trattato, violato in modo non ufficiale tramite aiuti in armi ad Hamas e la riapertura della frontiera di Gaza, che permetterebbe l'ingresso di terroristi direttamente nel Sinai, aumentando la capacità operativa dei movimenti anti israeliani. Neppure le flebili speranze, che vedono l'esercito egiziano come un possibile contrappeso al potere dei Fratelli musulmani, possono concedere una qualche tranquillità agli israeliani. Paiono infatti finiti i tempi della cooperazione tra i due stati contro i movimenti islamici radicali, l'inversione di rotta ad Il Cairo fa presupporre un diverso atteggiamento, certamente più tollerante, verso i gruppi islamisti, che certo non potrà che alzare la tensione fra i due paesi. Infatti è dalla caduta di Mubarak che si assiste a ripetuti incidenti e scontri alla frontiera tra Israele ed Egitto, che possono essere soltanto il prologo di una situazione destinata a peggiorare, se non interverranno ulteriori soggetti sulla scena politica egiziana.

domenica 24 giugno 2012

Presenze USA in Siria e possibile sblocco della crisi

Gli USA starebbero operando direttamente nel teatro siriano attraverso personale presente nel sud della Turchia, la parte confinante con la Siria, per la distribuzione di armi alle forze di opposizione al regime di Assad. Lo scopo principale è controllare che le armi non vadano in mano a gruppi di fondamentalisti islamici, tra cui cellule di Al Qaeda, presenti anch'essi nella eterogenea composizione degli oppositori di Damasco. Vi è anche uno scopo contingente nella ragione della presenza americana, ed è quello di conoscere più a fondo la situazione per prevenire, nel caso della caduta di Assad, un deriva fondamentalista del paese. In realtà la presenza americana ufficialmente è soltanto quella necessaria alla distribuzione di materiale non bellico, tra cui strumenti di radio comunicazione ed aiuti medici e lo staff della Casa Bianca smentisce l'ipotesi degli aiuti attraverso la fonitura di materiale militare, i cui finanziamenti ufficiali provengono da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. La strategia americana ufficiale, in Siria resta quella delle sanzioni e della via diplomatica, tuttavia resta difficile da credere, che il futuro di un paese così importante per gli assetti geopolitici della regione più delicata del mondo, non sia seguito in maniera più diretta che dalle sole control room di Washington. In quest'ottica la presenza in Turchia, l'alleato americano più importante dell'area, chiarirebbe le vere intenzioni del governo di Obama, che usa Ankara come scudo diplomatico in una situazione che interessa però fortemente entrambi gli stati. La Turchia, fin dal'inizio della questione siriana, ha assunto un atteggiamento ben preciso, contrario alla politica di Assad, ospitando sul suo territorio i numerosi profughi provenienti da oltre frontiera ed attivandosi con l'appoggio ai ribelli, prima in forma più riservata, poi in maniera più aperta. In questo quadro è significativo il caso dell'abbattimento della aereo militare turco, che sarebbe avvenuto ad opera della contro aerea siriana. Erdogan ha chiarito che se ciò verrà appurato la Turchia prendrà le adeguate contromisure. Potrebbe essere l'occasione per l'intervento militare in aiuto dei ribelli, fino ad ora risultato impraticabile. Se l'abbattimento dell'aereo turco, infatti, venisse letto, da parte della NATO, come un attacco al paese, potrebbe scattare la clausola dell'aiuto dell'organizzazione atlantica ai suoi membri vittime di attacco militare. Anche se estremizzata, tale eventualità, potrebbe lo strumento per la soluzione della crisi, contro cui Cina e Russia potrebbero opporre soltanto condanne di tipo diplomatico. La soluzione andrebbe quindi in favore dell'occidente, sia in chiave anti iran, che nell'ottica di ridimensionamento delle ambizioni russe e sopratutto potrebbe finalmente interrompere i massacri di Assad, ormai troppo frequenti.

mercoledì 20 giugno 2012

Il pericoloso atteggiamento russo sulla questione iraniana

Lo stallo dei negoziati sul nucleare iraniano, in corso a Mosca, non fa intravedere risultati positivi nello sviluppo della questione. Se l’intenzione era scongiurare il possibile attacco israeliano, va subito detto che le condizioni non sono affatto mutate. L’ostruzionismo russo, delineato dalla linea di politica estera intrapresa da Putin, contribuisce ulteriormente ad una situazione maggiormente confusa. L’impressione è che l’Iran sia strumentale alla Russia e che sia vero anche il contrario, nei confronti di USA ed Europa. Aldilà della facciata diplomatica, Mosca ha preso una via ben precisa nei confronti della questione iraniana, che si impernia nel procrastinare la decisione del gruppo composto da USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania, in modo da dare tempo all’Iran nei suoi piani. D’altra parte se Teheran si ostina a non dare corso alle richieste di ispezione dei siti incriminati, dimostra chiaramente le sue reali intenzioni, che non possono che essere quelle che spaventano Tel Aviv. Mosca sta portando avanti un gioco pericoloso nel medio oriente, oltre che con la questione iraniana, anche i recenti sviluppi in Siria, pongono la Russia in una posizione di antitesi con l’occidente, che non può che preoccupare il panorama internazionale. Permettere all’Iran di guadagnare tempo e così aumentare la tecnologia atomica, appare come una strategia quasi incomprensibile, il rischio di provocare veramente un conflitto che da regionale può degenerare in qualcosa di più ampio, appare uno strumento di pressione nei confronti degli USA, denso di troppe incognite. Anche il rapporto che si sta creando tra la teocrazia iraniana e Mosca può andare fuori controllo in un futuro non molto lontano. Le perplessità che suscita l’atteggiamento russo devono essere comprese nell’indirizzo impartito da Putin, disposto a rischiare molto per intaccare il ruolo di potenza dominate degli Stati Uniti. Non bastano i motivi economici, forse più confacenti alla Cina, per spiegare la sterzata data in politica estera al nuovo inquilino del Cremlino. Se Mosca pensa di riguadagnare terreno nella classifica delle super potenze, con una tattica così disperata, significa che non ha molti argomenti per riproporsi all’attenzione del mondo, ma questa strategia della disperazione non può che rimarcare la pericolosità dell’orso ex sovietico, in crisi di identità emersa in tutta la sua prepotenza. Se a Mosca dovesse sfuggire il controllo, che crede di avere, sull’Iran, per il mondo gli interrogativi diventeranno veramente inquietanti.

domenica 17 giugno 2012

USA ed Europa: politiche di cittadinanza differenti

La decisione di Obama di dare la cittadinanza ad 800.000 americani nel cuore, come li ha definiti il Presidente USA, pone ancora una volta la questione della forza e dell'innovazione americana rispetto all'immobilismo europeo. Aldilà delle considerazioni di carattere partigiano, che hanno presentato i repubblicani, con argomentazioni anche valide, e delle implicazioni legali di un provvedimento che presenta vistose lacune, occorre riflettere, in questi tempi di profonda crisi economica, sull'impatto di un provvedimento del genere e della capacità di sostenerlo. La norma va ad incidere direttamente su quel lato dell'economia, che considera gli investimenti come una notizia che può fare innalzare il prodotto interno lordo di un paese. Naturalizzare 800.000 persone non può che essere visto come un atto di fiducia in una ripresa economica che stenta a decollare, ma, insieme, anche una profonda lezione all'Europa del regionalismo con le prospetive ristrette. Certo, anche in un momento particolarmente difficile gli USA hanno una forza economica in grado di sostenere un provvedimento che la UE non potrebbe neppure concepire. Ma il lato economico, pur importante, rappresenta solo una parte del problema. La chiusura di molte società europee è dovuta alla mancanza di capacità di gestione di un problema, che poteva diventare una opportunità. Istituzioni miopi non hanno saputo regolare un mercato dei clandestini, che faceva comodo a sfruttatori presenti in ogni campo, con il risultato di innalzare la temperatura rilevata nel termometro sociale. Questo ha determinato una chiusura culturale, che restringe le possibilità di naturalizzazione anche nei casi più evidenti. Dare la cittadinanza a chi è nato o anche solo cresciuto nei paesi europei non è un atto di misericordia ma un concreto investimento per la crescita della società. Non si auspica qui una apertura delle frontiere non regolata, anzi si chiede una regolazione più attenta in grdo di elaborare le giuste distinzioni. D'altra parte il fenomeno migratorio è un fatto irreversibile che non si ferma con ottuse chiusure indiscriminate. Obama ha fatto molti errori nel suo mandato, sopratutto non riuscendo a mantenere alcune promesse elettorali, ma con questo provvedimento si rivela un politica di alta classe, che in Europa non ha alcun paragone.