Politica Internazionale

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giovedì 26 luglio 2012

I paesi arabi all'ONU contro Israele per gli insediamenti nei territori

I paesi arabi all'ONU hanno condannato ufficialmente la pratica israeliana di favorire gli insediamenti nella zona della West Bank. Il governo israeliano, alle prese con notevoli difficoltà di politica interna, persegue questa tattica per aumentare il proprio territorio, tramite insediamenti illegali in zone palestinesi. La mossa dei paesi arabi consiste nel richiedere una ispezione ufficiale alle Nazioni Unite per sancire l'illegalità di una situazione che rischia di diventare un argomento sostanzioso per azioni terroristiche e minare quindi il fragile equilibrio presente in Palestina. Inoltre l'azione israeliana è in palese violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, che però non hanno fornito una risposta ufficiale alla richiesta araba. Ma i dati espongono chiaramente una situazione difficilmente ancora sostenibile: oltre 340.000 coloni vivono ormai stabilmente in Cisgiordania e circa 200.000 si sono insediati nei quartieri di Gerusalemme Est, praticamente annessa allo stato israeliano. Le risposte ufficiali del governo israeliano sembrano fatte per prendere tempo ed evitano accuratamente di affrontare esplicitamente l'argomento, riferendosi a generici richiami alla leadership palestinese a riprendere la via della pace attraverso negoziati diretti con Tel Aviv. La comunità internazionale giudica praticamente unanimemente l'illegalità e la pericolosità degli insediamenti, anche gli USA, i maggiori alleati di Israele, si dicono contrari al proseguimento di questa pratica. Tuttavia, per ora, non si è andati oltre dichiarazioni, che appaiono di facciata, perchè non vi è mai stato un seguito pratico. L'ampiezza che ha assunto il fenomeno ne denuncia anche la difficoltà di una soluzione, riportare indietro tutti i coloni, come dovrebbe essere fatto in base agli accordi vigenti, rappresenta aspetti pratici da non sottovalutare, sia per la reazione stessa di chi è soggetto attivo dell'occupazione, sia per le ripercussioni che tale eventuale disposizione potrebbe scatenare negli ambienti ortodossi, sempre più influenti nella compagine governativa. Ma la gravità della situazione rischia si esasperare troppo gli animi anche in casa palestinese, che, occorre sottolinearlo, è parte lesa nella vicenda. In una situazione regionale molto complicata come quella attuale, sarebbe saggio da parte di Israele, compiere degli adeguati passi indietro per evitare di dare motivi ad eventuali atti terroristici ed anche per uscire da un isolamento che si fa sempre più pressante, sopratutto per le mutate condizioni politiche dei paesi confinanti. La condanna dei paesi arabi agli insediamenti va letta anche come una modalità preventiva nello stesso interesse israeliano; quello che si percepisce, cioè, è di fornire addirittura una opportunità al governo di Tel Aviv, per costringerlo a dare qualche segnale importante che permetta una distensione necessaria al momento storico che gli assetti regionali stanno attraversando. L'Arabia Saudita ed il Qatar, sempre più protagonisti della politica internazionale, hanno la necessità di stabilizzare la regione in ottica anti Iran, ed hanno, quindi, tutto l'interesse che Teheran resti privo di argomenti, per non influenzare troppo diverse situazioni che si stanno presentando sempre più delicate. La questione siriana, il rapporto con gli Hezbollah e con Al Qaeda, costituiscono i sentieri attraverso i quali si muove la strategia della politica estera iraniana, che fa uso costante della leva anti israeliana, come collante della sua azione sia politica che diplomatica. Togliere legittimità agli argomenti di Teheran, significa per i paesi arabi alleati dell'occidente, l'elaborazione di una strategia che può rivelarsi efficace, sopratutto nella prevenzione di possibili conflitti. Sia l'ONU che i paesi occidentali, ma anche lo stesso Israele, dovrebbero valutare meglio questa possibilità che gli viene offerta, perchè, sopratutto, si sviluppa in ambito sovranazionale. Per Israele rinunciare a pezzi, anche consistenti di territorio strappato alla Palestina, potrebbe essere un investimento con un ritorno di gran lunga maggiore in ottica di pacificazione e risoluzione del problema palestinese.

mercoledì 25 luglio 2012

L'occidente e la Lega Araba pensano al dopo Assad

Il contrattacco portato avanti da Assad, tramite l'aviazione militare dimostra che il presidente siriano non intende cedere il potere. Tramontano così le ipotesi di transizione pacifica fin qui caldeggiate dalla Russia, come scusa per il non intervento sotto l'egida dell'ONU. Tuttavia l'atteggiamento di Mosca non pare subire variazioni e ciò impone all'occidente ed alla Lega Araba di organizzare una transizione politica, che viene data, forse troppo ottimisticamente, per imminente. Infatti l'eventuale caduta di Assad potrebbe provocare diverse conseguenze, che Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, vogliono assolutamente evitare. Per prima cosa è necessario che non si verifichi un vuoto istituzionale, che lascerebbe il paese oltre che in preda al caos, anche alla possibilità di un intervento straniero, quello che si teme, cioè, è una iniziativa iraniana diretta a mantenere il controllo su di un territorio ritenuto da Teheran centrale nella propria strategia di politica estera. A tal fine le potenze occidentali e della Lega Araba sono orientate a favorire un governo, anche in esilio, di unità nazionale, che riunisca tutte le anime della ribellione, pronto a subentrare al potere immediatemente dopo la caduta di Assad. Tale governo dovrà assicurare l'integrità del territorio, condizione che viene considerata essenziale per l'equilibrio regionale, e dovrà essere slegato da influenze straniere che possano compromettere l'indipendenza del paese siriano. In realtà dovrà essere un governo che guarderà più ad occidente che ad oriente, facendo guadagnare la Siria alla causa occidentale, sopratutto in chiave anti Iran. Ma questo governo dovrà anche gestire la difficile situazione interna che si verrà a creare alla caduta di Assad. L'esperienza libica ha insegnato che la presenza delle milizie incontrollate ha creato e crea tuttora, diversi problemi al nuovo governo di Tripoli, costituendo un elemento di pericolosità per lo stesso esecutivo e la stabilità del paese. In Siria questo eventualità non si dovrà verificare per evitare azioni di disturbo di infiltrati e di milizie comunque favorevoli al regime come Hezbollah. Esiste poi il concreto problema della avversione della maggioranza della popolazione contro la comunità alawita, che comprende il 10% degli abitanti della Siria, a cui appartiene la famiglia di Assad e che ha, in questi anni, assorbito la quasi totalità dei posti di potere del paese. Quello che si vuole evitare sono i massacri su base religiosa, che si potrebbero innescare alla caduta del regime, che ha sempre protetto la minoranza religiosa alawita. Appare comunque difficile che questo ipotetico governo, forzatamente costruito e tutt'altro che unito, riesca ad assolvere a questi compiti essenziali, la frammentazione delle forze ribelli in Siria è stata, fino ad ora, un punto che ha facilitato l'azione del regime, nonostante le tante diserzioni subite, infatti, più che la reale forza militare, che resta un dato oggettivo, le truppe regolari hanno avuto davanti un avversario percorso al suo interno da profonde divisioni, che ne hanno impedito l'efficacia dell'azione militare, spesso per mancanza di coordinamento organizzativo. Se questa mancanza dovesse riproporsi anche a livello politico, la Siria rischia di precipitare in una spirale di violenza tipica delle guerre civili, che sarebbe il maggiore ostacolo alla ricostruzione del paese. Su queste basi e con queste premesse si concentra quindi il lavoro degli alleati occidentali per fare si che il paese siriano possa attraversare la fase di transizione con un minimo di garanzie interne, che possano assicurare stabilità al paese e di conseguenza a tutta l'area regionale, cruciale per il mantenimento della pace mondiale.

martedì 24 luglio 2012

La Cina si espande nel mare Cinese Meridionale

La Cina alza la tensione nel Mare Cinese Meridionale. Pechino ha infatti deciso di installare un presidio amministrativo nelle isole Paracel, contese con il Vietnam, dove, peraltro, è già presente un presidio della marina militare cinese. L'atto compiuto dalla Repubblica Popolare Cinese è da comprendere nella strategia del paese di nazionalizzare alcuni tratti di mare contesi con i vicini per ragioni strategico militari, economiche, per la presenza di giacimenti di idrocarburi ed infine commerciale per assicurare il passaggio delle grandi navi mercantili. Il risultato amministrativo è stato quello di creare la più piccola prefettura, Sansha, a livello di città cinese, che conta circa mille persone ed un territorio di 13 chilometri quadrati, ma che può contare su di una giurisdizione di circa due milioni quadrati di mare. Questa piccola città è stata costruita dai cinesi dopo il 1974, anno nel quale Pechino ha sottratto ad Hanoi, dopo uno scontro navale, il controllo dell'arcipelago. Con la creazione di una struttura amministrativa Pechino punta a soffocare eventuali ricorsi sulla sua sovranità, sopratutto delle acque circostanti, basati sulla consuetudine del diritto internazionale. Tuttavia il Vietnam ha protestato da subito contro questo provvedimento cinese e contro la crazione stessa della città di Sansha, perchè ritenuta illeggittima in quanto costruita su terre che Hanoi rivendica ancora la propria sovranità. Il fatto rischia così di aumentare la tensione tra i due paesi già alta proprio per la questione della sovranità sulle acque; la recente intensificazione dei rapporti tra Vietnam e Stati Uniti potrebbe rendere la zona uno dei nuovi fronti caldi del pianeta ed andarsi ad aggiungere nella regione, per questioni analoghe, ai casi spinosi già in corso tra Cina e Corea del Sud e tra Cina e Giappone. Ma la Cina ha intrapreso una linea che si basa sulla pratica del fatto compiuto: attraverso il controllo della pesca, su tratti di mare contesi, con pescherecci dotati di armamenti pesanti, percorre l'affermazione della propria sovranità politica. In quest'ottica il Mare Cinese Meridionale è stato dichiarato zona di interesse vitale, analogamente a Taiwan, Tibet e Xinjiang, il che fa capire espressamente quale siano le intenzioni e la volontà della Cina, che non lasciano spazio a trattative di sorta. Ma i casi di contrasto relativo a zone di mare ed isole contese sono destinati ad aumentare, le Isole Spratlys sono rivendicate anche da Filippine, Brunei, Malesia e Taiwan e non è esaurita la questione delle isole del sud del Giappone, nell'arcipelago di Senkaku in giapponese o Diaoyu in cinese, su cui aspira ad instaurare la sovranità anche Taiwan. Quello che rischia di innescarsi è uno stato di perenne allerta, anche a causa della accresciuta industrializzazione dei soggetti in campo, che hanno la necessità vitale di fare viaggiare più rapidamente possibile le loro merci. La situazione è continuamente monitorata dagli USA, che hanno stretto alleanze praticamente con tutti gli attori in campo, tranne che con la Cina, che diventa così il bersaglio dell'azione diplomatica statunitense nella regione. Idrocarburi a parte, il presidio delle vie di comunicazione marittime è ritenuto strategico da tutti i paesi coinvolti ed infatti Pechino non ha apprezzato l'intrusione americana, poichè Washington è l'unica potenza in grado di frenare le mire espansionistiche cinesi. Per il momento gli USA non hanno preso praticamente mai una posizione ufficiale di condanna delle strategia cinese, ma le alleanze che hanno stretto sono ancora più esplicite di un comunicato del ministero degli esteri. La questione è destinata ad una evoluzione di difficile previsione, perchè il confronto è soltanto all'inizio di una disputa che si annuncia molto lunga ed elaborata, probabilmente pare inevitabile che si giungerà a qualche incidente che obbligherà i vari attori regionali a sedersi ad un tavolo per trovare un assetto disciplinato e sicuro, per rispondere alla necessità di regolare questioni in sospeso ormai da troppo tempo.

Pericolo Siria per il Libano

La crisi siriana, oltre che per la propria intrinseca gravità, che abbraccia diversi aspetti, da quello morale a quello più strettamente geopolitico, ha nelle sue implicazioni, le conseguenze che potrebbe arrecare alla vicina nazione libanese, da sempre in bilico per le proprie tensioni interne. La ragione principale è una delle matrici del conflitto siriano, che è una caratteristica della zona medio orientale e cioè quella religiosa. Alla base della situazione della Siria, non vi è soltanto la ferrea dittatura di Assad, vista con la sola ottica della repressione dei diritti e dell'imposizione di uno stato tutt'altro che di diritto, ma anche la profonda rivalità ed avversione tra i sunniti e gli sciti, che nel caso siriano sono rappresentati dagli alawiti, la setta islamica che detiene il potere nel paese. Dietro questo confronto vi sono i paesi che fanno da riferimento alle due correnti islamiche: per i sunniti l'Arabia Saudita ed il Qatar, per gli sciti l'Iran. E' uno scontro che si ripete nella storia e che ha ripreso vigore da quando Teheran ha intrapreso una politica che mette al centro la strategia di diventare paese di riferimento, prima per gli sciti e poi come guida dell'Islam. La rivalità con l'Arabia Saudita non ha potuto che aumentare, aggravata dal fatto che Riyad, rappresenta il principale alleato americano della zona. Con l'aggravarsi della situazione questo confronto rischia di ripetersi in quella che viene indicata la zona immediatamente più delicata in prossimità delle frontiere siriane. Gli scontri e gli sconfinamenti di truppe sul territorio libanese testimoniano che questa preoccupazione è tutt'altro che infondata. L'instabilità dei confini del paese dei cedri e la presenza sul suo territorio di una nutrita rappresentanza di Hezbollah, estremisti islamici naturali alleati di Teheran, non fanno che completare il quadro di una situazione che diventa sempre più pericolosa. Quello che viene maggiormente temuto dagli osservatori internazionali, indipendenti e no, è il coinvolgimento del Libano nel conflitto siriano, per prossimità con Damasco e per i profondi legami che legano i due popoli, che aumentano le possibilità di replicare nella società libanese ciò che sta avvenendo in Siria. Questo comporterebbe il tanto temuto allargamento del conflitto fino alla soglia di Israele, con pericolose opportunità che l'Iran potrebbe prendere in considerazione. Anche perchè nell'ambiente degli hezbollah una caduta di Assad significherebbe un profondo ridimensionamento della visibilità e del peso del movimento, recuperabili solo con azioni da protagonisti contro lo stato israeliano. Se questo fa degli hezbollah un'arma in mano all'Iran, potenzialmente molto pericolosa, la circostanza è una delle spie della pericolosità della scarsa stabilità libanese, paradossalmente messa in crisi dalla possibile caduta del dittatore di Damasco. Secondo molti osservatori la diffusione del conflitto in Libano è probabile ancora prima di una eventuale caduta di Assad proprio per la ridotta superficie del paese, che non permette distanze di sicurezza tra le opposte fazioni. Se, infatti, una soluzione del conflitto siriano può essere la frantumazione del paese, in rispettive zone di competenza delle diverse fazioni in campo, di cui è composta l'opposizione al regime, particolarmente frammentata e divisa, nel Libano questo non è ritenuto possibile. Da non sottovalutare poi il ruolo di Al Qaeda, che ha adottato, dopo l'avvento delle primavere arabe, la strategia di infiltrarsi fin dentro le forze laiche e democratiche, per sfruttare questi canali ed inserire elementi di sovversione ulteriore destinati a complicare maggiormente la situazione. Con queste premesse la necessità di fermare la questione siriana diventa ancora più pressante, aldilà delle attuali gravi condizioni umanitarie, che rischiano di moltiplicarsi su di una scala più vasta e con ben altri attori coinvolti e conseguenze non solo limitate al suolo della Siria. Se il conflitto dovesse dilagare in Libano sarà molto più difficile fermarne il contagio anche ad altre zone della regione, con tutte le peggiori conseguenze del caso.

lunedì 23 luglio 2012

La crisi: occasione per cancellare i diritti

Le implicazioni della grande crisi economica che attraversa i paesi del sud europa ha imposto misure draconiane che hanno avuto l'immediato effetto di abbassare la qualità della vita delle popolazioni di questi paesi. La congiuntura particolarmente negativa è frutto di un concorso di cause, che riguardano in special modo, l'uso distorto dello strumento finanziario, con le banche principali indiziate del dissesto, e gli elevati debiti sovrani degli stati, frutto di imperizia e cattiva amministrazione continuata negli anni. Se non si può essere che d'accordo con la necessità di un aggiustamento dei conti, con il fine di favorire gli investimenti sulla parte sana dell'economia, in modo di stimolare una crescita invocata da più parti, quello che desta dubbi consistenti è la scelta degli strumenti per mettere riparo al dissesto economico. Anzichè puntare sui grandi patrimoni, con l'introduzione di patrimoniali che permettessero di alleggerire la tassazione del lavoro ed introdurre forme di tassazione sulle transazioni finanziarie, come la Tobin tax, in quest'ultimo caso con il doppio scopo di tassare dei guadagni ottenuti sempre al netto e di introdurre una forma sanzionatoria per il mondo finanziario, responsabile di gran parte dell'attuale situazione, si è preferito fare gravare il peso delle manovre economiche sulla maggior parte dei salariati introducendo nuove imposte ed aggravando quelle già esistenti, associandole ad un drastico taglio dei servizi, che va, quindi, ulteriormente a colpire lo stesso ceto sociale oggetto della maggiore tassazione. La percezione che lasciano queste manovre è di un intento punitivo, dietro il quale potrebbe leggersi una strategia più complessa della revisione totale dei diritti acquisiti in campo lavorativo e sociale per la parte numericamente più consistente della società nel suo complesso. L'esempio greco risulta essere illuminante se letto con questa logica: riduzione drastica degli stipendi, senza contrattazione sindacale, tagli al sistema sociale in settori particolarmente delicati come l'assistenza e la sanità e conseguente impoverimento, per decreto, della popolazione. Anche in Spagna ed in Italia, sebbene in forme più attenuate, ma sempre dure, rispetto al paese ellenico, si sono o si stanno attuando gravi tagli imposti esclusivamente dall'alto, eliminando percorsi di scelta condivisa. Quello che viene messo in piedi è un sistema di governo imposto dall'economia e non dalla politica, dove spesso chi detta queste regole proviene dagli stessi ambienti che hanno provocato il disastro. E' la stessa logica che attribuisce importanza ai giudizi degli istituti di rating, che giudicavano positivamente titoli che hanno contribuito a determinare la crisi economica. Il pagamento delle tasse serve a fornire servizi, non per ripianare debiti contratti da soggetti privati. Il caso delle banche spagnole è il chiaro esempio di come fare ricadere sulla collettività il costo di scelte sbagliate compiute da istituti privati, che dovrebbero fallire come qualunque altra azienda non più produttiva. Questa violazione del patto sociale tra stato e cittadini può costituire un pericoloso precedente, come quello della cancellazione arbitraria di alcuni diritti giustificata dalla necessità di porre rimedio allo stato di crisi. La creazione, quindi, di questi precedenti sovverte la logica dei rapporti tra lo stato e di alcuni suoi componenti, più deboli nelle trattative ancorchè numericamente maggiori, perchè adotta, facendole scendere dall'alto, scelte che variano la modalità del dialogo con le istituzioni finora vigente. Non è un caso che uno degli effetti rilevati da subito è stato l'aumento della diseguaglianza sociale, materializzatosi con l'aumento del divario tra i pochi ricchi, che spesso detengono percentuali altissime della ricchezza complessiva del paese, e la gran parte dei cittadini, che vedono ridursi drasticamente il reddito a loro disposizione. Questi segnali fanno sospettare che la presenza della crisi economica sia usata in modo strumentale per rivedere l'intero complesso del sistema dei diritti, specialmente quelli inerenti al lavoro, per promuovere una radicale revisione a favore di settori economici particolarmente attivi in questa dinamica. Questi aspetti sono favoriti in Europa dal vuoto della politica in ambito comunitario, infatti anzichè procedere da una unione politica, da cui fare discendere quella economica, si sta procedendo in senso inverso, con il settore economico, che riempiendo l'assenza della politica, ne ricopre anche le funzioni. Ma l'ottica dell'economia non è la stessa della politica e quello che privilegia è ben diverso da chi avrebbe o dovrebbe avere una visione più complessiva tale da salvaguardare diritti faticosamente conquistati.

venerdì 20 luglio 2012

La situazione somala resta difficile

Ad un anno di distanza dalla dichiarazione dello stato di carestia in Somalia, da parte delle Nazioni Unite, la situazione nel paese africano resta sempre molto grave. Secondo l'Alto Commissariato per i rifugiati, sarebbero oltre un milione i somali in esilio, ed il numero, nell'ultimo anno, ha avuto un notevole incremento. Le condizioni atmosferiche, segnate dalla mancanza di pioggia, hanno causato un ritardo nella raccolta dei prodotti agricoli, che, peraltro, si annuncia minore nel quantitativo, rispetto alla già scarsa dello scorso anno. L'effetto immediato è una penuria di generi alimentari, che per di più, subiscono un aumento dei prezzi, tale da generare una nuova carestia. Già nello scorso anno la siccità aveva colpito duramente il paese, provocando esodi massicci di persone in cerca di cibo, quella attesa è quindi una situazione che, inevitabilmente, aggraverà la situazione somala ed anche quella del Kenya, principale destinazione dei profughi. Le condizioni sono, infatti, particolarmente critiche a Dadaab, uno dei campi profughi più grandi del mondo, distante circa 100 chilometri dalla frontiera tra il Kenya e la Somalia. Ufficialmente questo campo profughi ospita 463.000 persone, ma calcoli ufficiosi parlano di 630.000 persone, nello scorso anno gli arrivi giornalieri, sono stati in media di 1.000 persone al giorno, ma nei periodi più critici della carestia la cifra è stata abbondantemente superata, con 40.000 arrivi mensili a Luglio e 38.000 ad Agosto. Ma sulla Somalia grava anche la difficile situazione politica, per la presenza del gruppo integralista islamico di Al Shabab, vicino ad Al Qaeda, che ha spesso interferito sugli aiuti alimentari da parte dell'ONU, non graditi perchè di provenienza occidentale. Il primo ministro somalo Ali Mohammed Abdiweli aveva già annunciato a Giugno, una offensiva militare, prevista per Agosto, sulla città di Kismaayo, situata nella regione del Basso Giuba, relativamente vicina al Kenya, base operativa dei ribelli di Al Shabab. Questa eventualità, resa necessaria dalla continua intraprendenza dei ribelli islamici e sollecitata dallo stesso Kenya, in seguito ai ripetuti sconfinamenti in territorio kenyota delle azioni militari dei miliziani di Al Shabab, rischia di essere una aggravante sulla situazione alimentare della Somalia, perchè potrebbe impedire o almeno rendere più difficili, gli aiuti alimentari portati dalle organizzazioni internazionali. Proprio su questo argomento è necessaria una revisione dell'atteggiamento delle potenze mondiali e dell'ONU, che si sono limitate, fino ad ora, a portare soltanto aiuti di emergenza senza organizzare una adeguata programmazione capace di comprendere più livelli per scongiurare l'emergenza somala. E' necessaria una prima forma di aiuto militare che permetta al governo somalo di liberare il proprio territorio da forze che ne impediscono la stabilità e quindi la capacità di affrontare il problema alimentare con un efficace programma basato sulla autosufficienza. Il problema somalo non è meno grave di quello libico o di quello siriano, soltanto perchè la regione non è strategica o non possiede risorse tali da muovere le forze occidentali. Lo stesso Kenya va aiutato perchè fino ad ora si è fatto carico di un problema enorme per le proprie risorse, la presenza del fondamentalismo islamico è comunque pericolosa anche se confinata nel territorio della frontiera somalo keniota.

giovedì 19 luglio 2012

Israele sempre più provocato

Il grave attentato contro i turisti israeliani compiuto in Bulgaria, costituisce un ulteriore elemento di di destabilizzazione della già precaria situazione in cui risulta essere la pace mondiale. Per Tel Aviv la responsabilità è iraniana, Teheran sarebbe stato individuato come l'organizzatore di una rete terroristica che comprende, oltre allo stesso stato iraniano, gli Hezbollah, Hamas ed anche Al Qaeda. Se ciò fosse dimostrato saremmo di fronte ad un disegno complesso la cui vera finalità sarebbe di mettere in discussione gli attuali equilibri mondiali. In realtà i sospetti su quello che dice Israele non sono nuovi, l'azione di Teheran da tempo si concentra sulla distruzione dello stato ebraico e diversi attentati, le cui vittime erano personalità israeliane, dimostrerebbero legami comuni. L'Iran ha da tempo messo al centro della propria politica estera l'annientamento di Israele, come fattore aggregante di una comunità più vasta di soggetti, che si richiamano anche espressamente all'anti americanismo, questo collante, nelle intenzioni di Teheran, dovrebbe permettere al paese di guadagnare una sorta di leadership su di un insieme di medie e piccole potenze, caratterizzate principalmente dalla forte connotazione islamica radicale ed, in seconda battuta, da sentimenti contrari alla bandiera a stelle e strisce. L'uso del terrorismo è soltanto una parte della strategia di Teheran, che si avvale anche di strumenti quali finanziamenti verso terzi e, sopratutto, l'allacciamento di una vasta rete di rapporti internazionali con scopi principalmente commerciali, che si sono andati intensificando, dopo che il paese è stato sottoposto alle sanzioni economiche per la ricerca nucleare, dietro cui ci sarebbe la volontà di costruire l'ordigno atomico. Pur mantenendo una condotta pericolosa, l'impressione che Teheran ha sempre alimentato è stata quella di avvicinarsi al punto di rottura senza mai raggiungerlo, le provocazioni, talvolta molto pesanti e pericolose, non hanno mai raggiunto livelli tali da provocare una risposta, che non fosse ferma ma sempre pacifica. L'innalzamento esponenziale della tensione dovuta al problema atomico, ha però variato di molto la situazione: Israele è costantemente in allerta, ed i contrasti profondi nel proprio tessuto sociale, tra chi è favorevole ad un intervento preventivo e chi è contrario, hanno prodotto lacerazioni significative. Per ora grazie agli USA, la soluzione bellica è stata scongiurata, ma le continue provocazioni sollevano considerevoli dubbi su quanto possa continuare questa situazione. Israele si considera vittima di vari attentati operati a danno di diverse comunità ebraiche sparse nel mondo, in particolare in Kenya, Thailandia, Azerbaijan, Turchia, Grecia, Georgia e Cipro, e questo contribuisce ad innalzare un livello di tensione già pericolosamente vicino al punto critico. Con l'attentato in Bulgaria, gli autori paiono volere ridurre le possibilità di evitare una rappresaglia, avvicinando sempre di più Israele alla decisione di intraprendere una risposta di tipo bellico. Su quali possano essere le ragioni di esprimere una volontà così decisa a provocare un paese già sull'orlo di una crisi di nervi, è opportuno fare delle considerazioni. Se l'attentato è opera, come indicato dal governo di Tel Aviv, diretta od indiretta di Teheran, allora sembrerebbe evidente l'intenzione di provocare una reazione israeliana, per trascinare in un teatro bellico anche gli Stati Uniti. Una ragione potrebbe essere per consentire in qualche modo all'Iran di mantenere il controllo della Siria, tuttavia tale risultato non pare giustificare il tributo di sangue a cui i bombardamenti di Israele sotto porrebbero la teocrazia islamica. Un'altra ipotesi è favorire un governo di falchi, che condanni lo stato israeliano ad un isolamento internazionale a causa di una azione oltre il limite consentito dal pensare comune. Ma anche per questa eventualità i danni che per l'Iran potrebbero prefigurarsi potrebbero essere contro producenti anche sul piano politico, andando a favorire le forze di opposizione interna. Mettendo a bilancio tutte le possibilità pare obiettivamente difficile che all'Iran sia conveniente essere vittima di una rappresaglia israeliana, infatti pur non essendo quella iraniana una forza armata debole, pare difficile una capacità di opporsi alla potenza di fuoco di Tel Aviv, tale da garantire una adeguata difesa del proprio territorio. Se questo è vero, Tel Aviv potrebbe avere elaborato una teoria, almeno in parte errata, nel senso che l'Iran è stato effettivamente dietro a varie manovre terroristiche ma potrebbe essere anche possibile che parti consistenti dei movimenti che potrebbe avere controllato, abbiano compiuto una fuga in avanti. Queste schegge impazzite potrebbero avere interesse a portare Israele alla reazione, anche in ragione della situazione siriana, che è legata a filo doppio con il Libano sempre in bilico e della situazione venutasi a creare in Egitto, con i partiti islamici al governo. In questo caso è evidente che l'interesse principale è creare una polveriera in medio oriente, che vada poi a coinvolgere anche Iran, Iraq ed Afghanistan, nel tentativo, difficilmente realizzabile, di saldare tra di loro gli elementi più estremisti dell'Islam. Se, infatti a livello di collaborazione trans nazionale, come è stato nell'esperienza di Al Qaeda, si sono sviluppati contatti tra diversi esponenti di stati differenti, la matrice del radicalismo religioso fusa con la volontà militare, ha dato luogo ad un movimento terroristico abbastanza omogeno, diverso è il caso di volere unificare punti di vista molto diversi a causa di diverse esigenze basate su territori differenti e percezioni talvolta opposte. Tuttavia il pericolo rimane, un conflitto in questo momento storico, potrebbe facilmente allargarsi dal medio oriente a tutto il mondo, sebbene con forme non convenzionali e potrebbe riportare il mondo molto indietro.