Politica Internazionale

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giovedì 13 dicembre 2012

Sempre più difficile i rapporti tra Cina e Giappone

L'intrusione di un aereo militare cinese, nello spazio aereo delle contese isole Senkaku / Diaoyu, alza la temperatura, peraltro già elevata, tra Giappone e Cina. Tokyo ha risposto con due passi formali, che sono consistiti nell'invio di aerei militari, in quello che ritiene proprio spazio aereo e con la protesta dell'ambasciatore giapponese a Pechino. Ad aggravare la situazione vi è la ricorrenza in cui è stata fatta l'incursione aerea: il settantacinquesimo anniversario del massacro di Nanchino, quando truppe dell'impero nipponico massacrarono migliaia di persone nella città cinese. Questa coincidenza è tutt'altro che casuale, Pechino sa bene come puntare sull'orgoglio del popolo cinese in una disputa che tende ad estremizzare una situazione già fortemente compromessa. Dietro la tattica cinese, pare esserci la volontà di provocare uno scontro che sollevi definitivamente la questione della sovranità delle isole, in una prospettiva più ampia, che mira alla colonizzazione completa attraverso le vertenze ingaggiate anche con gli altri paesi del Mare Cinese meridionale. Del resto rientra nei programmi della nuova dirigenza cinese affermare la propria potenza nella regione, sia dal punto di vista territoriale che politico, andando così a toccare i temi cruciali dello sfruttamento delle risorse e del dominio delle vie di comunicazione marittima. Non è un caso che si scelga la provocazione verso un avversario, il Giappone, indebolito da una crisi economica che è recentemente sfociata in recessione e dilaniato nel suo tessuto politico. D'altro canto Tokyo non si sottrae allo scontro, anzichè cercare una soluzione concordata e meno travagliata. Se i cinesi puntano sul fattore del nazionalismo, non da meno sono i giapponesi, che anzi ne fanno elemento trainante, anche come fattore mascherante del dissesto in atto nel proprio paese. La situazione è però ogni giorno più preoccupante, i casi di provocazione, da una parte e dall'altra, si susseguono senza sosta, attraverso incursioni navali ed aeree, con il contorno di discorsi più o meno ufficiali che richiamano a patrie violate, rendendo, di fatto, sempre più probabile che si verifichi l'eventualità di uno scontro. La preoccupazione del mondo intero e degli Stati Uniti, in particolare, non è servita granchè fino ad ora, e tutta una regione cruciale per l'economia del mondo intero vive una situazione di sempre maggiore precarietà nel proprio equilibrio geopolitico. Mentre si moltiplicano, quindi, le occasioni per il verificarsi di un incidente che potrebbe dare il via ad un confronto il cui sviluppo non è facilmente prevedibile, non si può che registrare l'assenza assordante delle Nazioni Unite, che senza assolvere al proprio ruolo, non esprimono una volontà di intervento pacificatorio.

Siria: gli USA riconoscono la coalizione contro Assad come leggitimo rappresentante del popolo siriano

Dopo Francia, Regno Unito, Turchia e Stati del Golfo Persico, anche gli USA hanno riconosciuto ufficialmente la coalizione di opposizione siriana, impegnata nei combattimenti contro Assad, come legittimo rappresentante del popolo siriano. Questo riconoscimento esclude dalla rappresentanza ufficiale Assad per quanto riguarda la Siria e lo pone in una grave condizione di isolamento diplomatico, che potrebbe essere il preludio ad azioni più concrete e dirette. Il riconoscimento americano è avvenuto con un distinguo particolare, ufficialmente, infatti, Washington ha affermato che, per il momento, non fornirà armi ai ribelli. Se questa è, però, la posizione ufficiale, occorre ricordare che l'amministrazione americana ha già intrapreso diverse collaborazioni con i ribelli, a livello differenziato, che hanno compreso la fornitura di apparati di telecomunicazioni, di assistenza medica e formazione militare. Difficile credere che all'interno di questa collaborazione non sia stata ricompresa anche qualche fornitura di armamenti, se non in maniera diretta, almeno attraverso gli alleati islamici del Golfo. Washington ha tenuto a rimarcare questa decisione di non fornire armi, per non incorrere a contrasti con la Russia, che resta il principale alleato di Assad, per interessi esclusivamente propri. La scelta di Obama, però non fornisce alibi, per una eventuale ripresa del dialogo che possa porre fine ad una guerra civile che ha già provocato più di quarantamila morti e che lascia profondi interrogativi sull'equilibrio della regione. Se le ragioni diplomatiche del rifiuto della fornitura di armi vanno verso la ricerca di una soluzione negoziata, la ragioni pratiche parlano della perplessità americana riguardo alla composizione eterogenea della forza che si oppone al regime di Damasco. In particolare la presenza dell'organizzazione al-Nosra, gruppo che è stato identificato come terroristico e testa di ponte di Al-Qaeda, può giustificare le paure statunitensi di una virata del paese siriano verso posizioni concordi con l'estremismo islamico; è proprio questo il maggiore timore di Washington: che possano ripetersi casi dove l'integralismo religioso, in nome di un concetto distorto della democrazia, possa instaurare nel nuovo governo del paese la legge coranica, elemento capace di bloccare del tutto i potenziali rapporti con una Siria rinnovata. La forte differenziazione, segnata da una grave mancanza di omogeneità, delle forze che compongono la costellazione che si oppone ad Assad è stata, fino ad ora, l'ostacolo principale al rovesciamento del regime, che ha spesso approfittato di queste profonde divisioni. L'importanza del riconoscimento di quella che è la più grande potenza mondiale, fornisce alla coalizione dei ribelli di accrescere la propria legittimità sul piano internazionale, anche in una ottica che possa aumentare la propria capacità negoziale ed il proprio peso politico in una trattativa al di fuori del contesto militare; è probabilmente questo che Washington intende favorire per porre fine allo stato di grande difficoltà di un paese allo stremo. Ma questa tattica morbida scelta da Obama, non gli ha permesso di evitare le critiche dei repubblicani che spingevano per un impegno più diretto nella soluzione del conflitto. Si tratta, però, di una soluzione difficilmente percorribile senza l'avallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un impegno diretto sotto la bandiera americana potrebbe generare tensioni ancora maggiori con l'Iran, che resta il maggiore alleato di Assad. Obama ha optato, almeno per il momento, per evitare questa soluzione sperando in una soluzione interna al paese, che è, però, obiettivamente difficile, dato lo stallo della situazione militare. La sensazione è che gli USA siano in attesa di un qualche sviluppo, che possa portare i contendenti ad una negoziazione perseguita senza il mezzo militare, a quel punto tutto il peso politico di Washington peserà sul piatto della bilancia dei ribelli.

martedì 11 dicembre 2012

Berlusconi spaventa l'Europa

La decisione di candidarsi nuovamente al ruolo di Presidente del Consiglio da parte di Silvio Berlusconi crea apprensione in una Unione Europea alle prese con la crisi economica. Le dimissioni di Mario Monti hanno avuto come immediata reazione la risposta negativa dei mercati, mettendo a rischio gli sforzi fatti dal paese italiano per il risanamento dei conti. Il riflesso che questa caduta ha avuto, si teme possa poi ripercuotersi anche all'intera Europa, dove l'Italia è pur sempre il terzo produttore dell'area euro. Scongiurando una caduta di Roma, che non è Atene ne Madrid, per il suo complesso tessuto industriale, Bruxelles contava di essersi messa al riparo da un possibile effetto domino, tale da mettere in crisi la tenuta dell'istituzione europea. La ricandidatura di Berlusconi rimette tutto in discussione, portando incertezza nei mercati. Ma se questo è l'effetto immediato, che i sostenitori di Berlusconi però ascrivono esclusivamente alle dimissioni di Monti, slegando le due vicende, quello ancora più temuto riguarda i temi che l'ex presidente del consiglio vorrà affrontare in campagna elettorale. Gli analisti, infatti, prevedono, una campagna elettorale fortemente anti europeista e populista, capace di puntare sugli scontenti del rigore e della moneta unica e su chi sostiene la contrarietà al predominio tedesco, cioè di chi accusa la Germania di essere la vera ispiratrice delle politiche del rigore economico che impediscono la crescita, traendone vantaggio. Si capisce che se tali temi avranno presa, per l'Europa si annuncia un periodo di forti divisioni, anche in ragione dell'emulazione da parte dei movimenti, già fortemente presenti, contro le azioni economiche caldeggiate dalla UE. Occorre specificare che, sul fronte dell'economia, i risultati, nel caso italiano, sono arrivati soltanto a livello macro economico, mettendo in difficoltà le famiglie e le imprese. Sopratutto le prime hanno pagato un conto salato per responsabilità non proprie, vedendosi alzare il livello di tassazione e diminuire quello dei servizi. E' essenzialmente questa la platea a cui si rivolgerà Berlusconi, cercando di sfondare con argomenti anche propriamente di sinistra, promettendo l'abbassamento delle tasse e l'uso di leve finanziarie per produrre posti di lavoro. In questo momento i sondaggi non danno speranza al partito di Berlusconi, al minimo storico del gradimento, va detto, però, che questi sondaggi furono elaborati quando ancora si considerava che lo stesso Berlusconi non prendesse parte alla competizione elettorale, la sua ridiscesa in campo potrebbe sovvertire i pronostici in un elettorato complessivo che conta un astensionismo pari al venti per cento e che potrebbe sentire il richiamo delle urne in presenza di proposte convincenti e differenti rispetto al passato. Tuttavia la mossa delle dimissioni di Monti intralcia i piani di Berlusconi, che contava di avere tempo fino ad Aprile per riorganizzare un partito allo sbando. Ora, verosimilmente, si andrà alle elezioni a Febbraio, con in più l'incognita della partecipazione dello stesso Monti, chiamato alla contesa a gran voce dai movimenti del centro politico del paese. Se questa ipotesi si verificasse lo scenario dei concorrenti si articolerebbe essenzialmente su quattro soggetti: oltre ai già citati Berlusconi e Monti, in rappresentanza della destra e del centro, ci sarebbero anche Bersani, leader della sinistra italiana, ed un candidato ancora da individuare in rappresentanza del Movimento Cinque Stelle, partito anti sistema all'esordio in una competizione politica, pur avendo già partecipato con discreto successo ad elezioni regionali ed amministrative. L'Europa in quanto istituzione, preferirebbe una affermazione di Monti o, almeno, di Bersani, ritenuti continuatori della politica del rigore, sebbene con sfumature differenti. Ritrovarsi a trattare con Berlusconi, pubblicamente dileggiato dopo la sua uscita di scena dello scorso anno, potrebbe presentare difficoltà non facilmente sormontabili, portando addirittura in blocco le relazioni tra gli stati. L'Italia, insomma, dopo la parentesi generata dalla brutta copia delle larghe intese tedesca, ritorna alla sua parte di variabile del sistema e mai come ora si pone in un futuro molto incerto: sarà difficile, infatti, che l'Europa possa sopportarla nel caso di una deviazione dal percorso intrapreso, la UE non può più supportare i costi di bilanci fuori controllo e pratiche indebite di ricorso a prestiti in serie, sopratutto senza risultati.

Gli USA prima potenza mondiale almeno fino al 2030

Un recente rapporto del US National Intelligence Council, afferma che gli USA resteranno la potenza dominante almeno fino al 2030, nonostante il sorpasso cinese sul fronte economico, che avverrà nel 2020. Mentre la previsione della Cina come prima potenza mondiale è stata largamente accettata, sulla questione del primato geopolitico, vi erano e vi sono perplessità sulla continuazione del predominio americano. I punti di forza statunitensi vengono individuati nella capacità di creare innovazioni tecnologiche e sull'abilità di sapere risolvere i conflitti mondiali, restando l'ago della bilancia del panorama internazionale. Se ciò, fino ad ora è stato vero, pur con alterne fortune nell'esercizio di questa funzione, il non essere più la maggiore economia mondiale può creare qualche dubbio sulla reale capacità di continuare ad esercitare, in maniera prioritaria, la propria influenza sul mondo. Tuttavia la Cina appare ancora indietro nella propria crescita politica e sul lato del suo prestigio internazionale, sul quale gravano i pesanti giudizi derivanti dallo scarso stato di salute del tema dei diritti. Se Pechino vorrà vedere crescere la prorpia influenza internazionale dovrà dotarsi di un sistema politico differente e non solo di portaerei. La crisi economica e le continue divisioni, invece penalizzano l'Unione Europea, che pare andare incontro allo status di grande incompiuta. Certo il range di circa quindici anni è molto ampio e la previsione può andare incontro a larghi errori. Tuttavia la tendenza di una continua affermazione degli Stati Uniti può essere considerata una buona previsione, anche se occorre collocarla in un contesto in continua mutazione. La prima considerazione da fare è che se gli USA manterranno il primato di potenza geopolitica più importante, ciò avverrà in condizioni nettamente diverse da come maturato nei periodi precedenti. Il sorpasso della Cina nell'economia è solo il dato più rilevante, ma occorre considerare anche una ricchezza disponibile minore per Washington, in ragione di una maggiore crescita di nuovi attori comparsi sulla scena internazionale. India, Brasile e Russia saranno soggetti con sempre maggiore potere grazie alla ricchezza di materie prime e di capacità industriali, ciò comporterà un crescente peso anche politico all'interno del panorama internazionale, andando a frazionare così, non solo la ricchezza economica disponibile, ma anche il peso dell'influenza nelle decisioni per l'equilibrio mondiale. La differenza più grossa con il periodo della guerra fredda è che già ora gli USA, fronteggiano più di un avversario, che quasi mai è un nemico certo e dichiarato come era l'URSS fino alla caduta del muro di Berlino. In futuro questa tendenza aumenterà sempre di più: non ci saranno confronti netti, se non per temi particolari, ma si verificherà una situazione sempre più fluida con la necessità di intervenire valutata caso per caso. In un tale contesto e senza una autorità superiore, finchè non si metterà mano ad una riforma radicale e condivisa delle Nazioni Unite, il ruolo di risolutore delle crisi internazionali resterà nelle mani della nazione con maggiori mezzi, non solo militari, ma politici. Questo connubio è e sarà necessario per potere affrontare e dirimere le controversie internazionali. Soltanto gli Stati Uniti, effettivamente, hanno queste caratteristiche, frutto di esperienze decennali, che in un solo quindicennio non possono essere recuperate da altri paesi, nonostante la potenza economica a disposizione. Certo gli USA dovranno rinunciare a grosse fette di questo potere, specie per quanto riguarda le dispute regionali, dove si farà sentire maggiormente il peso del paese più importante. Tuttavia l'influenza americana, se accompagnata da successi tangibili, potrà riuscire ad avere risultati tali da confermarne l'importanza, se saprà agire in modi sempre meno appariscenti. Del resto questa è la linea scelta da Obama, che ha, almeno in parte, cambiato l'immagine imperialista degli Stati Uniti. I banchi di prova arriveranno presto: le dispute delle isole contese, nel Mare Cinese Meridionale, diranno molto sulla previsione del US National Intelligence Council, anche in un periodo molto più breve che i quindici anni previsti. Se gli USA sapranno mettere da parte i propri interessi per una soluzione il più condivisa possibile, aumenteranno il proprio peso specifico all'interno del panorama internazionale, confermando la previsione ed anche la necessità della loro presenza in questa funzione.

La condizione femminile egiziana esempio di mancata democrazia

Uno dei problemi non abbastanza rilevati della questione sulla nuova costituzione egiziana è rappresentato dal problema femminile. Con la vittoria elettorale delle forze musulmane, le aspettative delle donne egiziane sono rimaste frustrate dalla direzione confessionale presa dalla politica egiziana. Pur non essendo ancora in vigore la carta fondamentale, che tanti scontri ha provocato, la condizione femminile in Egitto pare peggiorata rispetto alla dittatura di Mubarak, alle donne è stato, infatti, riservato un ruolo di subordinazione nella società, con limitazioni evidenti, che avranno carattere di legge una volta approvata la tanto contestata carta costituzionale. La presenza all'articolo due, della costituzione che si vuole approvare, di un chiaro riferimento alla legge coranica, la sharia, come base della legislazione, confina la donna a spazi ristretti, sia nella vita pubblica, che in quella familiare, limitandone di fatto la libertà. Il fenomeno è un indice chiaro del modo distorto in cui si è evoluta la protesta egiziana, che ha regalato, forse anche inconsapevolmente, il potere a gruppi di fondamentalisti, che rappresentano il dieci per cento del paese, malgrado abbiano raccolto nella consultazione elettorale la maggioranza. Ma per l'importanza e l'influenza del paese egiziano nella fascia costiera meridionale del Mediterraneo e nel mondo arabo in generale, il fenomeno rischia di diventare un pericoloso precedente, che, da un lato, potrebbe impedire l'evoluzione della condizione femminile e dall'altro creare fenomeni di emulazione in altri parlamenti. Vista da occidente la situazione diventa sempre più la conferma di quanto siano distante le valutazioni intorno alla democrazia, dei due punti di vista, talmente lontani da apparire inconciliabili. Quello che stanno esprimendo le primavere arabe, va sempre più spesso lontano dalla concezione di democrazia che si ha nella visione occidentale: il mancato rispetto dei diritti e della parità tra i sessi, rappresenta però l'esempio più eclatante. Il fatto che la condizione della donna sia addirittura peggiorata, non solo in Egitto, ma anche, per esempio in Iraq, inquadra bene il fatto che le democrazie islamiche non siano compiute e che non basta una vittoria elettorale per fare di un paese una democrazia. Non che non ci siano forme di opposizione a queste politiche discriminatorie, ma quello che è evidente è che l'indirizzo religioso avvalla questo comportamento; è questo, sostanzialmente, il punto di frattura che delegittima l'islam di matrice politica come forza democratica. Le promesse di islam moderato cadono quando si arriva alla questione della parità dei sessi, non superare questo scoglio significa aprire ad una serie di restrizioni ancora più ampie che rendono inconciliabile l'indirizzo confessionale con l'esercizio delle regole democratiche. In questo contesto il futuro della condizione femminile appare problematico e bene fanno coloro che si battono affinchè la costituzione egiziana non passi, del resto il comportamento del presidente Mursi è stato eloquente: la risoluzione dei conflitti con le opposizioni è passata attraverso un quasi colpo di stato. Un altro chiaro segnale della poca propensione alla democrazie dei partiti al governo in Egitto. Tutto ciò rende facile pronosticare una evoluzione difficile dei rapporti tra gli stati occidentali e gli stati arabi, sempre più divisi e distanti, non solo politicamente ma sopratutto culturalmente.

venerdì 7 dicembre 2012

Venti di guerra tra Cina ed India?

La difficile situazione che sta aumentando nel mare Cinese Meridionale tra Cina e Vietnam, rischia di degenerare pericolosamente per la possibile entrata sulla scena dell'India. Tra i due maggiori paesi emergenti i rapporti non sono buoni e la rivalità è cresciuta di pari passo con i rispettivi passi avanti nell'economia. La necessità di sempre maggiori quantitativi di materie prime ha aperto nuove occasioni di scontro, nel quadro di un allargamento di alleanze e sfere di influenza, che ha rotto equilibri ormai superati. La concorrenza tra le due potenze potrebbe essere un elemento determinante per delineare i nuovi scenari internazionali e gli equilibri che ne scaturiranno. Nel caso specifico tutto ruota attorno all'invito fatto da Pechino al Viet Nam di interrompere le perforazioni che hanno come scopo la ricerca di idrocarburi nel tratto di mare conteso. Intorno a questo episodio si sono verificati anche incidenti navali di piccola entità, che hanno visto coinvolte navi dei rispettivi paesi. I rapporti di forza tra Viet Nam e Cina sono nettamente a favore di Pechino, tuttavia esiste una joint venture tra la società indiana Oil and Natural Gas Corp ed Hanoi che potrebbe giustificare, nonostante l'India non abbia rivendicazioni territoriali nel Mare Cinese meridionale, un ingresso delle navi militari indiane a protezione delle imbarcazioni battenti la propria bandiera. La Oil and Natural Gas Corp è ritenuta dal governo indiano impresa di interesse nazionale e quindi soggetta a particolare protezione. Quello che si minaccia è un confronto di gran lunga ben più pericoloso delle dispute tra Cina e Giappone o tra Cina e Filippine, paesi comunque legati da strette collaborazioni economiche, che possono aprire con maggiore facilità canali di dialogo. Tra Cina ed India non vi sono rapporti che vadano aldilà della formalità diplomatica ed un eventuale confronto non avrebbe come uscita di sicurezza interessi comuni da tutelare. Inoltre il problema è aggravato a livello generale dalla disposizione emanata dal governo cinese, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2013, che prevede un allargamento della propria sovranità marina, forse anche in violazione della prassi del diritto internazionale, che prevede la confisca dei mezzi navali ed il conseguente arresto dell'equipaggio di quei natanti sorpresi entro i nuovi confini. Ciò implica che la Cina intende pattugliare questi tratti acquei con mezzi militari, alzando di molto le possibilità di scontri armati. Gli USA hanno chiesto chiarimenti su questa nuova legislazione ed sicuro che la questione sarà materia di scontro tra Washington e Pechino. A conferma dello stato di agitazione che si respira nella regione il Segretario dell'Associazione dei Paesi del Sudest asiatico, Surin Pitsuwan, ha affermato che la regione sta per diventare la Palestina asiatica, un termine di paragone che autorizza la massima preoccupazione nel mondo intero, è bene infatti ricordare, che per questi tratti di mare transita la maggior parte della produzione manifatturiera mondiale, ed un eventuale allungamento delle rotte marine avrebbe riflessi sicuramente pesanti sul rialzo dei prezzi.

giovedì 6 dicembre 2012

Gli interrogativi della situazione egiziana

Dietro il deteriorarsi della situazione egiziana si agitano spettri pericolosi. L'atteggiamento di Mursi, che non ha compreso le necessità globali del paese di dotarsi di forme democratiche più avanzate, restando fermo all'esclusiva situazione derivante dal voto, che ha regalato la maggioranza alla parte più confessionale e meno progressista della nazione, evidenzia in modo chiaro l'inadeguatezza della persona a ricoprire una carica così delicata. La netta divisione in cui è caduto il paese avrebbe dovuto imporre una maggiore cautela nell'uso di leggi speciali, che hanno richiamato i tempi di Mubarak. Se è, però, difficile credere ad una ingenuità non è difficile prefigurare un progetto portato avanti in maniera precipitosa. Le rassicurazioni di Mursi sia al paese, che alla comunità internazionale, di essere il rappresentante di un islam moderato, si sono rivelate false ed infondate, rendendo così illusoria la speranza di potere vedere una forma conciliante tra islam e democrazia, il requisito tanto atteso dall'occidente per potere instaurare un dialogo con i paesi a guida musulmana su di un piano nuovo. Resta il dubbio se Mursi, che all'inizio pareva effettivamente un moderato, sia stato travolto dalla crescente influenza dei salafiti e dei fratelli musulmani, che ambiscono a cancellare le opposizioni con l'instaurazione della sharia o ne sia stato complice fin dall'inizio. In ogni caso un paese fondamentale come l'Egitto, nel delicato scacchiere regionale, crea notevole apprensione in mano a forze che sfiorano l'estremismo islamico. In questa situazione la grave accusa proveniente dai Fratelli musulmani all'opposizione, che riguarderebbe un presunto coinvolgimento israeliano in un tentativo di rovesciare il presidente egiziano, non pare troppo peregrina: effettivamente Tel Aviv, ma non solo, avrebbe tutto l'interesse che a Il Cairo sedesse al potere un governo di orientamento laico, tuttavia l'accusa è tutta da dimostrare, anche se sia per Israele che per Washington, la piega che hanno preso gli eventi non può che essere vissuta con inquietudine per la stabilità regionale. Resta veramente difficoltoso prevedere il futuro del paese, dove, al momento, non si intravedono possibilità di dialogo, per una situazione di forte tensione sfociata in ripetuti scontri tra le opposte fazioni. Vi è però un attore che al momento è stato in disparte limitandosi al suo ruolo strettamente istituzionale: l'esercito. Le forze armate sono, infatti, la grande incognita della questione. Nonostante i cambi al vertice i sentimenti della maggior parte degli uomini in armi restano profondamente anti confessionali e non hanno gradito fin da subito l'ascesa al potere degli islamici. Per il momento hanno protetto Mursi schierando i carri armati davanti alla residenza del presidente, ma la sensazione è che l'apparato militare sia in attesa di una qualche possibilità per esercitare il ruolo di garanzia già ricoperto con il rovesciamento di Mubarak ed il conseguente vuoto di potere. Le forze armate sono l'unico attore sul palcoscenico in grado di rovesciare gli equilibri, hanno forti contatti con gli Stati Uniti e non gradiscono la svolta impressa al paese dai vincitori delle elezioni, se la situazione dovesse ulteriormente deteriorarsi, andando ad innescare un concreto pericolo per la stabilità dello stato, un loro intervento è tutt'altro che remoto. Non è un mistero che le forze laiche ed i copti preferirebbero una soluzione del genere alla promulgazione della costituzione voluta da Mursi, ma finchè la situazione non sarà maggiormente delineata, anche con un passo indietro del presidente, le forze armate staranno in attesa di ciò che segnalerà l'evoluzione della questione.