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lunedì 28 gennaio 2013

Israele teme il destino dell'arsenale chimico della Siria

Il timore che l'arsenale chimico siriano, o parte di esso, possa cadere nelle mani dei miliziani di Hezbollah o della parte islamica dei ribelli di Siria, sta provocando uno stato di allarme in Israele. Nell'immediato, batterie di missili "Iron Dome" sarebbero state schierate a nord del paese ed esisterebbe già un progetto per la costruzione di una barriera di sicurezza, lungo il confine siriano, del tutto simile a quella sul confine meridionale con l'Egitto. La preoccupazione è molto alta a Tel Aviv, dove la minaccia potenziale che potrebbe provenire dalla Siria viene considerata pericolosa al pari dell'Iran, per la stessa esistenza dello stato di Israele. Ciò che è molto temuto è l'inserimento di Teheran nella dissoluzione del regime di Assad e nella possibilità di impadronirsi delle tanto temute armi chimiche, l'Iran è il maggiore alleato della Siria di Assad e suoi uomini hanno combattuto o stanno combattendo a fianco dell'esercito regolare contro i ribelli, questa presenza sul territorio potrebbe permettere un facile accesso agli arsenali non convenzionali ed una conseguente distribuzione alle milizie degli armamenti. Israele guarda con preoccupazione a questi possibili sviluppi, tanto da definire la movimentazione delle armi chimiche il confine oltre il quale sarebbe altamente probabile un intervento diretto, volto a scongiurare tale possibilità. Malgrado le affermazioni ufficiali circa lo schieramento delle batterie "Iron Dome", venga definito come un normale avvicendamento, la tensione negli ambienti militari è palpabile, mentre si guarda allo sviluppo della situazione. Quando si parla di un possibile coinvolgimento diretto di Israele fuori dai propri confini è inevitabile analizzare la situazione negli Stati Uniti: Obama continua ad essere scettico in un coinvolgimento diretto delle forze armate USA in Siria; il Presidente americano deve valutare le conseguenze di un conflitto sia in rapporto all'impegno ancora esistente in Afghanistan, sia agli sviluppi della guerra civile siriana, le risorse americane, benchè ingenti, non sono infinite ed il timore di un nuovo impegno prolungato spaventa la Casa Bianca. Tuttavia se Tel Aviv decidesse di intervenire non sarà lasciato solo, la speranza a Washington è che si possa trattare di un'azione lampo circoscritta al solo scopo di impedire la distribuzione degli arsenali chimici. Ma la presenza iraniana sul campo rischia che da un episodio circoscritto si arrivi ad un confronto più ampio, proprio tra Tel Aviv e Teheran sebbene in campo neutro. Questo scenario sarebbe completamente nuovo rispetto alle tante congetture elaborate per un possibile attacco dei caccia israeliani ai siti dove si pensa venga costruita l'atomica scita. Difficile pensare ad una soluzione certa di tale confronto, se non una completa destabilizzazione della regione, la Siria potrebbe diventare un gigantesco campo di battaglia, dove andrebbe in scena non soltanto la guerra civile già in corso, ma un conflitto tra potenze straniere capace di alterare le alleanze e lo sviluppo del conflitto interno con conseguenze pericolose per i rapporti internazionali anche tra stati non direttamente coinvolti. La questione è seguita anche dalle altre cancellerie, in particolare il Cremlino, che mantiene la sua posizione pilatesca, che propugna la soluzione interna riservata al solo popolo siriano. La formula mira alla salvaguardia della persona del dittatore Assad, cui potrebbe essere riservato diritto di asilo e nel contempo che possa permettere a Mosca di mantenere la propria base navale, unica presenza russa nel Mediterraneo. Ma i negoziati che la Russia continua a promuovere tra le parti hanno ormai poca speranza di arrivare ad una conclusione, come poche possibilità sono ormai che Assad abbia ragione dei ribelli, i quali, però a causa delle loro divisioni non riescono a dare la spallata finale al regime, ma l'allargamento del conflitto potrebbe ridare speranze allo stesso Assad, a cui potrebbe giovare una situazione di maggiore confusione. In questa ottica, la presenza di piani per favorire tale degenerazione non sarebbe così improbabile, sopratutto in relazione alle parti che potrebbero avvantaggiarsene.

La Cina minaccia la Corea del Nord

La pazienza della Cina, nei confronti della Corea del Nord sembra finita. L'interesse principale di Pechino è che nella regione vi sia stabilità e la tensione che si è sviluppata in conseguenza del lancio del razzo da parte di Pyongyang ha provocato le dure reazioni di USA, Corea del Sud e Giappone, che sono culminate nelle nuove sanzioni a cui la dittatura ereditaria è stata sottoposta, proprio con l'avallo cinese. La Corea del Nord può contare solo sull'alleanza con la Cina, per il resto non intrattiene, praticamente relazioni con altri stati, tanto da essere stata definita stato eremita. Dal legame con la Repubblica Popolare Cinese provengono, in maniera esclusiva, tutti gli aiuti economici, che consentono al paese, seppure tra infinite difficoltà, la sopravvivenza. Questa situazione permette di comprendere come la Cina sia l'unico attore internazionale che possa esercitare una influenza concreta sulla Corea del Nord, tale da fermare l'escalation nucleare di Pyongyang. Si è arrivato così alla concreta minaccia della riduzione degli aiuti essenziali per il paese nordcoreano, se si verificheranno ulteriori test nucleari. Del resto mai, fino ad ora, la posizione cinese era stata più esplicita di adesso, con l'approvazione delle sanzioni Pechino ha formalmente censurato di fronte al mondo intero le velleità della Corea del Nord. Ma il passo successivo, della minaccia della sospensione degli aiuti, segna uno sviluppo ancora ulteriore nel volere esercitare l'influenza decisiva nei confronti dell'alleato, tanto che le relazioni tra i due paesi stanno attualmente vivendo il punto più basso della loro storia. Pechino ha più volte mostrato comprensione verso questo stato ed i comportamenti bizzarri dei suoi governi, sfruttandone in maniera funzionale ai suoi scopi le azioni estemporanee, in maniera di avere un mezzo di persuasione indiretto contro gli stati concorrenti della regione, come la Corea del Sud ed il Giappone. Ma il nuovo corso cinese pare ormai orientato ad un maggiore pragmatismo, da attuare soltanto trovando un rapporto il più redditizio possibile tra gli investimenti effettuati, anche in politica estera, ed i guadagni strategici ricavabili. Se questo teorema è vero l'inaffidabilità della Corea del Nord la pone al di fuori dello spettro degli investimenti potenziali cinesi, almeno finchè non manterrà una condotta più regolare. Nel passato parevano esistere progetti di Pechino sull'utilizzo della manodopera nordcoreana, senz'altro a bassissimo costo, ma non certo specializzata a causa dell'arretratezza sia dell'istruzione, che del livello di industrializzazione del paese. Tale situazione presupponeva investimenti massicci, sia in formazione, che in macchinari per rendere i prodotti finiti vendibili in mercati emergenti, con il vantaggio, per Pyongyang della creazione di un reddito capace di innalzare il livello di vita del popolo nordcoreano. Il cambio al vertice con il nuovo dittatore al potere, pareva incoraggiare questa apertura, tuttavia con il passare del tempo e l'intensificarsi degli episodi dubbi, non risultano più chiare le intenzioni del governo e gli effettivi assetti di potere e le ultime vicende possono essere la spia del peso sempre più crescente dei militari. La Cina, inoltre, non ha gradito le dichiarazioni nordcoreane, che anzichè apprezzare il proprio impegno per ridurre gli effetti delle sanzioni, ha bollato Pechino di avere subito l'influenza determinante degli Stati Uniti. Ma ciò non corrisponde al vero: Pechino ha ormai preso atto della assoluta necessità della denuclearizzazione della penisola coreana, allineandosi alle posizioni di Washington, Seul e Tokyo, per la stabilità regionale e per il fastidio di avere un paese confinante con un governo così fuori dai canoni, che dispone dell'arma atomica. Per Pyongyang la minaccia cinese non è da sottovalutare: l'interruzione degli aiuti getterebbe il paese nel dramma, creando una situazione totalmente insostenibile, il finale più probabile, quindi, è una retromarcia della Corea del Nord verso posizioni più miti, anche perchè la Cina non può accettare altra soluzione, dato che un isolamento ancora maggiore della nazione eremita, potrebbe determinare un esodo in massa, a causa della fame, della popolazione nordcoreana proprio entro il territorio di Pechino; esito fortemente temuto dal governo cinese, ma previsto in più simulazioni nel caso della caduta della dinastia comunista ereditaria nordcoreana.

venerdì 25 gennaio 2013

Le necessità dell'UNICEF ed una strada per riformare l'ONU

L'UNICEF ha presentato il rapporto Humanitarian Action for Children per il 2013. Il contenuto rivela lo stato di necessità dell'ente delle Nazioni Unite che si occupa dell'aiuto dell'infanzia, in particolare viene richiesto un impegno per una cifra di circa 1,4 miliardi di dollari. Non si tratta di una cifra esorbitante, che potrebbe essere facilmente raggiunta con una contribuzione volontaria degli stati più ricchi, che, aldilà, dell'aspetto umanitario potrebbe rappresentare un investimento per la pace e la stabilità mondiale. Le aree di crisi dove l'UNICEF stima di intervenire, a causa dello stato di emergenza presente di tipo umanitario, di carestia alimentare o per conflitti in corso, sono ben 45 in tutto il mondo. Nel periodo compreso tra gennaio ed ottobre 2012 i dati dell'attività dell'ente risultano impressionanti: è stato fornito l'accesso all'acqua potabile a 12,4 milioni di persone, permettendo così di limitare o addirittura fermare epidemie legate al consumo di acqua non potabile, i bambini vaccinati sono stati 38,3 milioni operando così una azione di prevenzione efficace che ha risparmiato ulteriori interventi, 2 milioni hanno ricevuto cure per combattere la malnutrizione permettendo di combattere il triste fenomeno della mortalità infantile, 2,4 milioni sono stati fatti oggetto di programmi di protezione applicati spesso nel campo dello sfruttamento minorile mentre a 3 milioni è stata fornita l'istruzione scolastica, collocata per ultima in questo elenco non certo per ragioni di importanza. La necessità del reperimento di nuovi fondi potrà permettere il proseguimento e l'ampliamento di questi programmi e, nel contempo, servirà per migliorare le capacità di risposta, in termini di qualità e velocità, dell'ente in relazione alle calamità, sia naturali che causate da guerre, riducendo le conseguenze dei disastri sull'infanzia. Le emergenze più rilevanti attualmente riguardano la situazione della Siria e dei paesi confinanti, oggetto della destinazione dei tanti profughi fuggiti dal conflitto, le zone del Mali e della Repubblica Centrafricana, dove è in corso l'ultimo dei conflitti aperti in ordine di tempo e dove l'influenza dei terroristi islamici sottopone la popolazione e quindi anche la parte infantile a violenze inaudite in nome della sharia. Restano, poi le zone dove la fame a causa delle carestie è una presenza ingombrante: il corno d'Africa e la regione al confine con il Kenya. Oltre a queste zone vi è poi una serie di nazioni dove la povertà espone l'infanzia ad esperienze traumatizzanti caratterizzate da violenze e sfruttamento, malattie ed abbandono. La necessità di una azione sempre più penetrante de l'UNICEF è anche dovuta alla crisi economica che ha colpito il mondo, le organizzazioni umanitarie faticano sempre più a reperire fondi ed il loro ruolo, fondamentale, rischia di subire una contrazione che si traduce in condizioni ancora peggiori per la parte più povera del pianeta. I programmi internazionali spesso si basano su volontari o organizzazioni che vivono grazie a sovvenzioni di privati o aziende. In questo campo l'azione degli stati, quelli più ricchi, è spesso insufficiente o troppo legata ad interessi politici od economici che ne condizionano l'efficacia. Una strategia più globale contro la povertà e l'indigenza manca, paradossalmente, in uno scenario mondiale condizionato dalla globalizzazione pressochè integrale. In un tale contesto, ancora una volta, manca il coordinamento delle Nazioni Unite, incapaci di elaborare, insieme a strategie efficaci anche forme cogenti ed allo stesso tempo incentivanti per i singoli stati; così tutto è lasciato praticamente ad una azione ancora troppo influenzata dall'interesse e dai secondi fini. Questa situazione, senz'altro negativa, può però fornire una via dalla quale partire per effettuare una riforma che porti ad una drastica revisione degli strumenti, anche legali, a disposizione delle Nazioni Unite. Se è difficile fare una riforma dell'ONU partendo dal Consiglio di sicurezza, potrebbe essere più agevole iniziare dalla programmazione, dal coordinamento e sopratutto dal reperimento delle risorse a fini umanitari: raggiungendo risultati concreti in questo campo, così delicato, la strada per migliorare i rapporti ed i regolamenti che determinano il funzionamento delle delle Nazion Unite potrebbe diventare, se non in discesa, almeno più pianeggiante.

La Corea del Nord minaccia gli USA

Dopo il lancio del missile a lungo raggio, il dodici dicembre scorso, presentato come semplice vettore per la messa in orbita di un satellite, la Corea del Nord sale di nuovo alla ribalta delle cronache mondiali. La decisione del Consiglio di sicurezza delle nazioni Unite di applicare nuove sanzioni contro Pyongyang, proprio per il lancio del razzo, ha scatenato la reazione nordcoreana, che ha percepito come un sopruso il provvedimento partito dal Palazzo di vetro. Nel mirino sono entrati gli Stati Uniti e la Corea del Sud, accusati espressamente di essere gli istigatori dell'ostilità dell'ONU. La Corea del Nord ha dichiarato che non parteciperà più ad alcuna discussione con i sudcoreani sul tema della denuclearizzazione della penisola e che intende rispondere con pesanti ritorsioni contro Washington e Seul. Inoltre, come ulteriore reazione alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Pyongyang ha annunciato che eseguirà un nuovo test nucleare, che costituirebbe la terza prova, dopo quelle del 2006 e del 2009. Il fatto più grave resta la minaccia esplicita contro gli Stati Uniti, che diventano un obiettivo dichiarato dei missili a lungo raggio nordcoreani. La decisione del Consiglio di sicurezza è stata approvata anche dalla Cina, l'unico alleato del regime al governo nella Corea del Nord, e ciò rappresenta l'espressione della volontà di Pechino di non avere alle sue frontiere un paese confinante, che, seppure alleato, possa disporre di un armamento nucleare o soltanto in grado di potere avere nel suo arsenale missili a lungo raggio. Dietro ai timori cinesi vi è, sia la chiara inaffidabilità di Pyongyang, che si ostina a mantenere un atteggiamento ondivago, sia il completo interesse a mantenere lontano dalla regione la marina militare americana, che già in altre simili occasioni si è avvicinata minacciosamente alla Corea del Nord, dietro richiesta di Seul e Tokyo. In questa ottica si inquadrano le dichiarazioni ufficiali di Pechino, che è intervenuta nel dibattito chiedendo calma e moderazione tra le parti coinvolte per evitare una pericolosa degenerazione della situazione. La Cina ha ribadito la sua opposizione all'incremento del nucleare nella penisola e si è, anzi, detta favorevole al processo inverso che ha l'obiettivo di rendere denuclearizzato il territorio delle due Coree. Anche gli Stati Uniti, pur oggetto delle minacce, hanno mantenuto un basso profilo, invitando il regime di Kim Jong-un ad ascoltare gli inviti della comunità internazionale. Tuttavia Pyongyang è rimasta ferma nel suo atteggiamento di rifiuto di ogni confronto internazionale futuro sul tema della denuclearizzazione, scartata anche la ripetizione del già avvenuto incontro a sei con la partecipazione delle due Coree, degli USA, della Cina, di Giappone e di Russia, tenutosi nel 2009, che doveva arrivare ad un accordo sulla fornitura di aiuti economici, tecnologici, umanitari e la promozione di un maggiore coinvolgimento del paese più isolato del mondo nella comunità internazionale in cambio della rinuncia al programma nucleare. Il fallimento di quella trattativa diede corso al test del 2009, che avrebbe portato lo sviluppo tecnologico nordcoreano ad un livello tale da consentire la produzione attuale di circa 40 chilogrammi di uranio altamente arricchito, anche se ciò non dovrebbe essere ancora sufficiente per completare una testata balistica a lungo raggio. Resta da capire con quali scopi, un paese ridotto allo stremo, con problemi di approvigionamento alimentare tali da precludere le normali condizioni di vita per il suo popolo, continui nella sua politica di auto esclusione dal consesso mondiale. Alla Corea del Nord non si può imputare altro, se non la incapacità endemica ad uscire dal proprio stato di crisi. Risulta evidente che in caso di un malaugurato conflitto, l'esercito nord coreano potrebbe opporre ben poca resistenza e che le provocazioni di questi giorni, pur da non sottovalutare, possono essere scongiurate dai sistemi di difesa americani. Più in pericolo può essere la Corea del Sud, ma gli alleati americani assicurano una copertura sufficiente per fornire contromisure efficaci. Forse il governo a capo del paese non riesce a chiedere aiuti in altro modo se non con minacce, che sortiscono soltanto una allerta particolare, nel quadro di una regione già sottoposta a forti tensioni. L'unico attore che può intervenire in maniera sostanziale è la Cina, che finora si è contraddistinta per un attendismo esagerato, ma che con l'appoggio alla decisione del Consiglio di sicurezza, pare avere imboccato una strada più definita.

giovedì 24 gennaio 2013

La strategia inglese per uscire dalla UE

David Cameron, per mascherare i risultati insufficienti del suo governo rinforza il suo atteggiamento euroscettico, che, implicitamente, da le colpe alla UE, o meglio alle sue regole, della mancata realizzazione delle promesse elettorali del premier inglese. La decisione di indire un referendum sulla continuazione della partecipazione del Regno Unito all'Unione Europea, si colloca, quindi, in questo percorso, che ha anche la doppia valenza di cercare di intercettare il sempre più diffuso sentimento contrario all'Europa, presente nel popolo inglese. Il punto nevralgico, al di fuori delle questioni interne del Regno Unito, è però, che tale operazione rischia di portare maggiore divisione all'interno degli altri membri del consesso europeo. Non si può credere che ciò sia soltanto un caso: Cameron, per i suoi interessi di bottega, non esita a mettere a rischio i già precari equilibri di una unione sovranazionale alle prese con una gran quantità di temi da risolvere, senza, peraltro, avere a disposizione gli strumenti necessari. Solleticando gli altri membri che soffrono di scetticismo verso la UE, si può ragionevolmente pensare all'Ungheria o alla Polonia, o soltanto acuendo quelle differenze di visione, presenti nei membri più importanti e fedeli all'idea unitaria, come Francia e Germania, la strategia inglese punta a creare una situazione di caos ed incertezza, che possa permettere al governo inglese di guadagnare tempo per aspettare l'evoluzione della crisi economica ed il conseguente da farsi. L'ambiguità è il tratto caratteristico che da tempo contraddistingue l'azione inglese nei confronti della UE: sganciarsi dagli impegni più gravosi, mantenendo i migliori vantaggi dell'appartenenza ad una unione così vasta, ma mai come in questo periodo questo aspetto è stato esagerato nelle relazioni con Bruxelles. Per adesso Londra ha usato una politica sempre in equilibrio, tale da scontentare molti membri ma non spinta in modo tale da generare situazioni peggiori, tuttavia ora si ha l'impressione che la corda, troppo tirata, stia per spezzarsi. In Francia le speranze di tenere ancora ancorata alla piattaforma continentale l'isola britannica si scontrano, pur nella consapevolezza della necessità di mantenere lo spirito europeo nelle reciproche differenze, con il senso di fastidio per l'attesa delle concrete richieste inglesi, peraltro mai pronunciate. La Germania, viceversa, mostra un atteggiamento più pragmatico, mantenendo inalterata l'intenzione di procedere con il processo di unificazione senza aspettare le intenzioni del Regno Unito. Ma su questo aspetto rischia proprio di cadere la strategia di Cameron: il continuo ondeggiare dell'atteggiamento inglese, che minaccia il referendum, lasciando intendere la volontà di uscire dalla UE, senza presentare le sue richieste a Bruxelles, può creare la fine della pazienza del resto dell'Unione Europea. In realtà questo elenco di richieste non esiste concretamente ma è rappresentato dall'intenzione e probabilmente dalla necessità interna, di rinegoziare il trattato di Lisbona. Dal punto di vista legislativo, questo trattato può essere modificato in qualsiasi momento, a condizione che le modifiche siano approvate da tutte le capitali europee. Si capisce che una tale trattativa è troppo laboriosa, specialmente in un momento come quello attuale, dove la portata della crisi e le necessità politiche europee impongono scelte di veloce esecuzione (che comunque non sono garantite neanche col trattato di Lisbona); impegnare la UE in un tale sforzo significherebbe soltanto togliere energie per processi semplicemente più necessari. Non è possibile che Londra ignori queste esigenze è soltanto che, se venisse imboccata tale strada, le esigenze inglesi avrebbero tutto da guadagnare in un periodo di inevitabile immobilismo delle istituzioni europee. Infatti nessuno vuole riaffrontare quanto già deciso escluso il Regno Unito. La decisione negativa a questa richiesta inglese potrebbe però portare lo stesso ad un blocco dell'attività della UE, nel caso Londra non ne uscisse autonomamente e scegliendo una strada di ostruzionismo interno. Si tratta di una possibilità poco probabile, perchè il lavoro del membro più importate, la Germania e sostenuto dagli altri paesi principali, per cercare una unione maggiore, non potrebbe essere certamente vanificato dalle azion inglesi. A quel punto per Londra non ci sarebbe che l'uscita, per scelta o per esclusione, dall'Unione Europea ed il problema insorgente diventerebbero le relazioni tra Bruxelles e Londra. Alcuni hanno già pensato ad una forma di federazione morbida, che non permettesse un distacco traumatico tra le due parti, tuttavia, tale tipo di rapporto, la cui collocazione legislativa è tutta da pensare, dovrà essere vagliato sulla base del comportamento inglese. La reale intenzione di Cameron è quella di avere mani libere su aspetti che riguardano la finanza, principale fonte di guadagno del Regno Unito, se ciò potesse generare fonti di contrasto con la UE, quest'ultima dovrebbe assumere ritorsioni del caso, come arrivare ad imporre imposte più alte sulle operazioni finanziarie con l'Inghilterra. Si tratta soltanto di un esempio, che può fornire un possibile scenario futuro sui rapporti tra le due parti. D'altra parte, al momento attuale, una permanenza inglese dentro la UE è veramente difficile da pronosticare, i vincoli più stringenti sulla sovranità dei singoli stati saranno l'inevitabile sviluppo dell'avanzamento del processo di unificazione ed, a meno di una svolta totale nella direzione della politica e, sopratutto, dell'impostazione politica della Gran Bretagna, le strade tra Londra e Bruxelles sono destinate a dividersi.

Israele: il nuovo scenario dopo il voto

La maggiore conseguenza della vittoria insufficiente di Benjamin Netanyahu e quindi del risultato elettorale israeliano è lo spostamento dal centro di quella che sarà l'azione politica del prossimo governo israeliano della questione internazionale verso una maggiore concentrazione sui problemi interni del paese, sopratutto di natura economica. L'accresciuto numero di votanti, fenomeno non atteso in queste dimensioni, che ha sostanzialmente determinato lo spostamento della centralità dei temi sui quali viene richiesta maggiore attenzione ha determinato nuovi equilibri all'interno del parlamento del paese. Benjamin Netanyahu, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, sarà ancora il primo ministro di Israele, ma la sua forza politica non sarà la stessa ed i suoi obiettivi dovranno cambiare se vorrà assicurare stabilità alla compagine governativa ed al paese. Yair Lapid, il vero vincitore di questa tornata elettorale, a capo di una formazione di centro che si chiama "C'è un futuro" ha assicurato il suo appoggio al premier uscente per la formazione della nuova coalizione di governo, a patto, appunto, che il nuovo esecutivo si occupi della deriva della classe media, colpita dalla crisi economica, e dia un maggiore impegno sui temi sociali. Nel suo discorso, tenuto dopo la proclamazione dei risultati, Netanyahu ha dato poco spazio ai problemi con i palestinesi, lasciando spazio soltanto alla questione della bomba iraniana, che vede però Lapid contrario a qualsiasi azione unilaterale, ma la maggiore rilevanza è stata per i tre cambiamenti sostanziali, che intende fare in politica interna: il cambiamento dei metodi di governo, una maggiore eguaglianza ed una politica degli alloggi a prezzi più accessibili; questi argomenti ricalcano i punti principali del programma proposto da Lapid, che, a dire il vero, comprendeva anche la leva obbligatoria per i giovani religiosi ultra ortodossi, tenuti finora al riparo dalle formazioni di estrema destra presenti nei governi precedenti. Il risultato del voto, al fine delle alchimie della composizione del governo, ha determinato una situazione in cui non si può governare senza Netanyahu, ma neppure senza Lapid, ed è più il primo che ha bisogno del secondo, come ha già evidenziato la necessità di porre al centro le questioni interne. Il calendario politico dice, che dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, il capo dello stato Shimon Peres, avrà sette giorni per designare colui il quale dovrà cercare la maggioranza per la formazione del governo, verosimilmente Netanyahu, che, a sua volta, dovrà formare il governo entro quattordici giorni. Data la grave immagine internazionale di Israele, una delle possibilità è che proprio Lapid vada a sedere sulla scomoda poltrona di ministro degli esteri, anche se non pare sufficiente un volto telegenico per fare riacquistare credibilità ad un paese che ha ora necessità di compiere degli atti verso cui si è mostrato sempre restio. Israele può uscire dall'isolamento in cui si è andato a cacciare soltanto se intraprende un reale e sopratutto leale percorso di pacificazione con i palestinesi, il cui risultato finale deve essere l'accettazione ed il riconoscimento dello stato palestinese. Ma la presenza probabile di Netanyahu ancora al posto di primo ministro rende scettici gli ambienti palestinesi, anche se l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha dichiarato di essere pronta a lavorare con qualsiasi governo israeliano che riconosca lo Stato della Palestina. Ed in effetti sarebbe questo il primo passo atteso dalla platea del teatro internazionale da parte del nuovo governo di Israele, in modo da fare ripartire in modo concreto e, possibilmente, definitivo l'annoso e problematico processo di pace.

mercoledì 23 gennaio 2013

L'Egitto non approva l'intervento nel Mali

Nel Mali vanno avanti le operazioni militari, con l'avanzata congiunta delle forze governative e di quelle francesi, che hanno registrato la ripresa del controllo delle città di Diabalay e Douentza. Il prossimo obiettivo è quello di riguadagnare la sovranità su Timbuctu, sulla cui area sono iniziati i raid aerei, propedeutici all'avanzata di terra. Il principale effetto delle azioni dal cielo è stato il ripiegamento dei miliziani fondamentalisti islamici, che stanno arretrando le proprie posizioni nella parte più settentrionale del Mali, praticamente molto vicino al confine con l'Algeria. Se, da un lato questo fatto è il segnale dell'inizio della probabile sconfitta dei Jihadisti nel territorio maliano, la nuova situazione potrebbe aprire un nuovo scenario di guerra capace di coinvolgere ancor più direttamente l'Algeria, dopo il sanguinoso episodio dell'attacco al sito per l'estrazione di gas di In Amenas. All'interno dell'opinione pubblica algerina è in corso un dibattito, molto sentito, sui metodi e sulla gestione da parte del governo di Algeri della vicenda, sopratutto in relazione alla concessione, per la prima volta nella storia del paese, dello spazio aereo per l'operazione militare in Mali da parte delle forze armate francesi; si comprende molto bene che l'argomento sia delicato per il significato intrinseco dell'avallo all'intervento di Algeri e per la natura della Francia, quale ex paese coloniale proprio dell'Algeria. Uno dei sentimenti dominanti è il timore di essere coinvolti in una guerra capace di riaprire vecchie ferite nel rapporto con i gruppi oltranzisti islamici, che potrebbero ripetere, sotto forma di attentati, l'attacco terroristico dei giorni scorsi, facendo entrare il paese in una spirale di violenza e di tensione. Questi dubbi, però non riguardano solo l'opinione pubblica algerina, dubbi che, per ora, non riguardano il governo di Algeri, ben conscio che una possibile espansione del fenomeno terroristico rappresenta un pericolo da evitare, ma che sono stati espressi in forma ufficiale dallo stato egiziano. Il Presidente Mohammed Mursi ha espresso la sua contrarietà all'intervento militare, che potrebbe destabilizzare la regione grazie all'aumento della conflittualità e della possibilità della divisione dell'Africa settentrionale da quella centrale, isolate reciprocamente dal conflitto. Nella visione presentata da Mursi, manca, però, un disegno alternativo per dirimere la situazione e ciò rende le dichiarazioni del Presidente egiziano alquanto sospettose. Il legame sempre più stretto della massima carica de Il Cairo con i salafiti induce a pensare che la sua posizione, in relazione alle vicende del Mali, sia funzionale al tentativo di guadagnare influenza nel campo dell'islamismo fondamentalista internazionale adiacente all'estremismo islamico, dopo che le vicende interne del paese delle piramidi hanno dimostrato come si sia sviluppata una tendenza della parte al governo, sempre più affine a movimenti caratterizzati da ideologie teocratiche molto radicali. Un'altra possibilità è che le dichiarazioni di Mursi siano eterodirette dai gruppi che lo sostengono al potere, in ogni caso, una ipotesi non esclude l'altra. Quello che interessa rilevare è la sempre maggiore distanza dall'occidente di quello che è ritenuto il paese arabo più influente nella politica internazionale, anche l'Egitto dovrebbe essere preoccupato di una crescita dei gruppi terroristici operanti, alla fine, a poca distanza dai suoi confini. Ciò, però, non emerge dalla contrarietà dimostrata con le dichiarazioni di Mursi, che hanno riguardato l'operazione in se stessa e non , ad esempio, l'intervento di un paese occidentale che poteva richiamare gli spettri del colonialismo.