Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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lunedì 11 febbraio 2013
L'Iran potrebbe aprire a nuovi negoziati
Il discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione dell'anniversario della rivoluzione islamica del 1979, ha puntato sul risveglio dell'orgoglio nazionale ed alla difesa della dignità dell'Iran, con un elevato grado di enfasi e retorica. L'organizzazione delle marce, tenute nelle varie parti del paese, per festeggiare il 34° anniversario della caduta dello Scià di Persia, ha registrato, secondo le fonti governative, un grande numero di adesioni, che serviranno per testimoniare al mondo l'unità del paese. Che una gran folla, sopratutto a Teheran, abbia manifestato è vero, i manifestanti, dotati di bandiere iraniane, hanno gridato slogan a favore del regime e contro i nemici internazionali dello stato: USA ed Israele. La ricorrenza è stata anche l'occasione per i militari di sfoggiare i nuovi armamenti, usati anch'essi come strumento di coesione della cittadinanza. In realtà i manifestanti scesi in piazza non rappresentano l'intero paese, che sulle questioni interne patisce un impoverimento economico assoluto, che ha colpito prima di tutto la classe media, che ha visto, a causa delle sanzioni, ridurre il proprio tenore di vita. Gli espedienti del governo di Teheran per aggirare le sanzioni, sopratutto grazie alla vendita del petrolio iraniano alla Cina, non hanno permesso di recuperare reddito a causa delle politiche governative che hanno indirizzato i guadagni verso altri scopi. Tuttavia, grazie alle repressioni degli oppositori, ed un consenso guadagnato in maniera non sperata, proprio a causa dell'isolamento internazionale per la questione dell'atomica, il governo iraniano rappresenta la maggioranza dei cittadini del paese, mentre le minoranze politiche, rese impotenti dalle persecuzioni, hanno assunto un atteggiamento di rassegnazione, che contraddistingue, infatti, chi non appoggia con entusiasmo il governo in carica. Ma i problemi del paese restano evidenti ed il governo centrale dispone di sempre minori mezzi per combattere il malcontento derivante dalla depressione economica. I mezzi retorici, che ricalcano schemi sempre usati in casi come questo, possono permettere di fornire al mondo una immagine di untà, garantita solo dalla mobilitazione dei sostenitori più accesi. Tra le righe del discorso del presidente iraniano, si è potuto leggere, però una apertura a nuovi negoziati con gli USA, sulla materia del nucleare. Il discorso, seppure infarcito di minacce verso Washington, ha sottinteso che, a determinate condizioni, le trattative possono ripartire. Il fatto costituisce una svolta nell'atteggiamento iraniano, che può significare essenzialmente due cose, peraltro opposte tra di loro: l'impossibilità di arrivare alla costruzione della bomba o il vicino raggiungimento dell'obiettivo. In entrambi i casi, vi è comunque, la necessità di attenuare le sanzioni internazionali, i cui effetti hanno provocato una inflazione ormai insostenibile. Ragionevolmente pare, però, che l'ipotesi della reale capacità di costruire l'ordigno atomico non sia avallata dalle pur scarse notizie a disposizione. Nonostante la capacità di arrichire l'uranio degli iraniani si a assodata, l'intera tecnologia necessaria non sarebbe a disposizione di Teheran. Se ciò fosse vero, ed è la cosa più probabile, la tattica di Obama si sarebbe rivelata vincente, ottenendo un duplice risultato: costringere l'Iran a scendere a patti ed avere bloccato Israele dalle tentazioni di attacco militare. Resta chiaro che se Teheran vorrà riprendere i negoziati, dovrà rivedere il proprio atteggiamento di chiusura verso gli ispettori, aprendo tutti i siti che ha finora tenuto sigillato. Soltanto questa evenienza dirà se le intenzioni iraniane sono sincere o se si tratta dell'ennesimo tentativo per guadagnare tempo prezioso.
venerdì 8 febbraio 2013
Le primavere arabe si ripeteranno?
Lo schema delle primavere arabe mostra tutti i suoi limiti. La presenza di un dittatore, con poteri immensi, era la prima costante, in tutti i casi verificati ed anche in quello siriano la situazione è analoga; la seconda costante era che non esisteva una forza unica alternativa, capace di rovesciare il potere, era necessaria l'unione di più forze, che, tuttavia, prese singolarmente, erano addirittura opposte tra di loro. Il legame che manteneva uniti i movimenti che formavano la ribellione era unicamente, l'intenzione di rovesciare la dittatura. Il carattere di urgenza di popoli esasperati e spesso alla fame non ha permesso la necessaria elaborazione di un piano organico, sopratutto fondato su aspetti legali condivisi e fondanti, che sapesse prevenire una caduta generalizzata, in alcuni casi, ancora peggiore dell'oppressione da cui le nazioni arabe si erano liberate. Si è arrivati così ad un risultato che accomuna i destini di tutti i paesi in cui le primavere arabe hanno fatto il loro corso. Dai risultati elettorali è uscita, in modo omogeneo, la vittoria dei partiti confessionali, spesso espressione di un islam tutt'altro che moderato, incapace di conciliare la vittoria delle urne con i diritti delle minoranze politiche. La prevaricazione dei vincitori, giustificata con leggi costituzionali elaborate a loro consumo ed ispirate alla legge islamica, ha portato alla naturale reazione di quei movimenti che si erano impegnati per una rinascita politica, attraverso l'applicazione dei diritti civili prima soppressi, poi di nuovo soffocati da provvedimenti liberticidi, questa volta elaborati su base religiosa anzichè politica. Era impensabile che persone impegnate direttamente nelle piazze avessero interrotto la loro azione solo per la caduta di un regime sostituito da un'altra forma illiberale; il processo era ormai avviato ed era inarrestabile. Piuttosto resta l'errore di fondo che accomuna i partiti confessionali al potere nei paesi arabi, l'assoluta mancanza della capacità di elaborare un comportamento alternativo all'assolutismo religioso. Se poi si aggiunge che la situazione economica, che occorre ricordarlo molto bene, ha costituito la scintilla che ha provocato la deflagrazione delle ribellioni, non è cambiata con l'avvento dei governi eletti, ecco che il mix di cause si ripresenta tale e quale come si è presentato con le dittature al potere. Del resto anche i regimi dittatoriali all'inizio avevano i loro sostenitori che si battevano, anche fisicamente, contro gli oppositori; ora sono cambiati gli schieramenti, da una parte i sostenitori dei partiti vincenti dalle urne, connotati da un islamismo radicale, sono fortemente motivati dall'investitura che, credono provenga da Dio, anzichè dal popolo, ma che non sono che una piccola parte della società e non rappresentano in alcun modo la totalità di quelle persone che pure hanno contribuito a renderli vittoriosi, dall'altra parte i cosidetti laici, perchè non si riconoscono in partiti a regime confessionale, ma che speravano in una forma di governo, che aderisse alle regole democratiche classiche. Il confronto, pur essendo in corso da tempo, entra in una fase delicata, perchè ormai riguarda Tunisia, Libia ed Egitto, tra i paesi che sono riusciti a costruire un evento elettorale, e Siria dove la guerra civile rischia di trasformarsi direttamente da battaglia contro Assad a conflitto tra estremisti religiosi e movimenti partitici democratici.
L'occidente, affascinato dalle rivoluzioni contro le dittature, non ha saputo, al momento giusto, elaborare un piano di aiuto concreto per sostenere l'affermazione della democrazia compiuta e non soltanto il verificarsi di un mero atto dell'esercizio del diritto di voto, a cui è mancato tutto il relativo seguito. I paesi arabi sono così daccapo, senza avere una parvenza di via di uscita da una impasse difficilmente risolvibile, dove l'ipotesi più verosimile è una ripetizione del corollario di violenze, questa volta perpetrato dai nuovi governi, i quali, detto per inciso, usano le identiche giustificazioni delle repressioni di chi li ha preceduti, rischiando di fare altrettanto identica fine.
giovedì 7 febbraio 2013
Egitto ed Iran si incontrano a Il Cairo
La visita egiziana del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha avuto un notevole risalto sui media dell'Iran, a cui non è stata corrisposta pari esaltazione in Egitto. Ma Teheran ha bisogno di enfatizzare ogni possibile occasione che faccia uscire il paese dal proprio isolamento ed un incontro con una nazione simbolo dell'islam sunnita può rappresentare un valore molto alto in questa ottica. L'occidente, intanto, resta alla finestra, seguendo con attenzione ed anche apprensione gli sviluppi di un incontro bilaterale che potrebbe spostare equilibri consolidati nel confronto religioso tra islam scita e sunnita, che, però, può travalicare gli aspetti puramente confessionali ed abbracciare quelli politici. Comunque la stampa iraniana ha qualche giustificazione per definire storico l'incontro de Il Cairo, dalla rivoluzione di Khomeini, dal 1979, un presidente dell'Iran si trova, per la prima volta nella capitale egiziana, ed il colloquio avuto con il suo omologo Mursi, in attesa dell'apertura del vertice dell'Organizzazione della cooperazione islamica, ha avuto, come tema centrale, le relazioni bilaterali tra i due paesi. Lo scopo di Mahmud Ahmadinejad è quello di rafforzare le relazioni tra i due paesi, in realtà da riprendere dall'inizio, con l'intenzione di trovare delle convergenze comuni sulle questioni regionali ed internazionali. Per l'Iran, che sta perdendo il principale alleato nell'area, la Siria, diventa importante, se non vitale, trovare un nuovo canale, che possa potenzialmente, sostenere la sua politica contro Israele e rompere l'accerchiamento in cui si troverebbe con la caduta di Damasco. Se una intesa completa con Teheran pare impossibile, l'Egitto, incontrando in modo formale il presidente iraniano su questi temi, manda un chiaro messaggio agli USA ed allo stesso Israele, praticando una politica dell'equilibrio precario, fatta di virtuosismi pericolosi nelle relazioni internazionali. Ciò è ancora più vero se rapportato alla politica interna egiziana fortemente instabile. I sentimenti dell'esercito sono noti, gli ambienti delle forze armate prediligono un approccio politico più laico e nelle relazioni diplomatiche rimpiangono gli stretti rapporti con gli USA, che permettevano un livello avanzato degli armamenti ed una eventuale relazione tra Il Cairo e Teheran rischia di compromettere ulteriormente il rapporto con Washington. Anche gli ambienti religiosi non vedono di buon occhio uno sviluppo con il principale paese scita, il gran imam di Al Azhar, Ahmed El Tayyeb, vede come una intromissione indebita, il tentativo iraniano di inserirsi nelle nazioni sunnite, avvertendo i possibili pericoli del proselitismo sciita in un Egitto che, ultimamente, ha imboccato posizioni fondamentaliste. L'imam egiziano ricorda con preoccupazione le veementi proteste della minoranza sciita in Bahrein, temendo una ripetizione nel paese delle piramidi, già condizionato da grande instabilità, fomentate proprio dall'Iran. Inoltre il rapporto con Teheran non è apprezzato per le discriminazioni continue a cui è sottoposta la minoranza sunnita nel paese iraniano. Vi è, poi, un aspetto tutt'altro che secondario che riguarda il rapporto, molto conflittuale, dell'Iran con i paesi del Golfo Persico, vicini all'Egitto: il ministro degli Esteri egiziano, Kamel Amr, ha messo in chiaro che la stabilità e la sicurezza delle nazioni del Golfo è una frontiera che non deve assolutamente essere valicata, esclusivamente su questa condizione di partenza si possono sviluppare le relazioni tra i due paesi. Resta da notare come la fase storica attuale, sia per le relazioni tra i paesi arabi molto più fluida che in passato, il tentativo di avvicinamento tra Egitto ed Iran, segnala un nuovo fattore nello scenario diplomatico: il tentativo di Ahmadinejad di scardinare l'unità dell'area sunnita per aprirsi nuove possibilità, difficile, per ora che il tentativo abbia successo, ma l'avanzata dell'islamismo più radicale nei paesi della primavera araba, potrebbe determinare scenari completamente nuovi.
mercoledì 6 febbraio 2013
Provocazioni militari tra Cina e Giappone
Il pericolo di uno sviluppo imprevisto tra Cina e Giappone, per le isole Senkaku, si sta avvicinando sempre di più. Le scaramucce tra i due paesi stanno salendo di tono e finora non è successo nulla soltanto grazie alla freddezza degli equipaggi delle rispettive forze navali ed aeree. Gli ultimi casi riguardano una nave da guerra ed un elicottero giapponesi, entrati nei mirini di navi militari cinesi; il puntamento elettronico è ormai facilmente rilevabile dagli strumenti di cui sono dotati i mezzi da guerra moderni ed è ritenuto un atto ostile che va oltre la mera provocazione e che può causare una risposta preventiva. Tecnicamente quindi lo scontro a fuoco, da cui poteva divampare l'incendio, è stato molto vicino, ma in futuro, non è detto che una eventuale ripetizione dell'accaduto, non porti ad un fraintendimento o ad un malinteso, anche per lo stato di tensione senz'altro presente tra i militari delle due nazioni. Peraltro questo episodio rappresenta l'ultimo caso, conosciuto, di una serie sempre più lunga, con invasione di quello che il Giappone ritiene il proprio spazio aereo, inseguimenti di aerei militari ed arresti di equipaggi di pescherecci. L'ultima evoluzione della contesa sull'arcipelago delle Senkaku è la creazione, da parte del Giappone, di una forza navale riservata al controllo delle isole, formata da due portaelicotteri e coadiuvata dall'impiego di circa 600 uomini stanziati nell'arcipelago, che dovrà essere operativa entro tre anni. Nel mentre la Cina potrebbe, però, prendere delle contromisure per vanificare gli sforzi giapponesi di tutelare quello che considerano il proprio arcipelago, dando luogo ad una possibile escalation militare. L'aggravamento della situazione è maturato in un momento che pareva preludere ad una distensione diplomatica, per i segnali che provenivano da entrambe le parti, tuttavia le provocazioni avvenute hanno riportato lo scenario su tinte più fosche.
martedì 5 febbraio 2013
La Francia ha difeso il Mali per proteggere il Niger?
Vi è un'ottica particolare per leggere il significato dell'intervento francese nel Mali: proteggere il Niger dall'invasione islamica e di conseguenza, tutelare gli investimenti di Parigi nelle miniere di Uranio che sono nel territorio di Niamey. Una instabilità del Mali avrebbe grosse possibilità di allargarsi nel vicino Niger, quindi l'operazione nel paese maliano, oltre ai risvolti di politica internazionale, ne ha uno molto pratico di prevenzione contro attacchi analoghi a quello che si è verificato in Algeria, nell'impianto di produzione di gas di Amenas. Da solo l'esercito del Niger non può proteggere le installazioni presenti nel paese perchè dispone di soli 5.000 uomini, che dovrebbero presidiare gli 840 chilometri di frontiera con il Mali, senza alcun mezzo aereo ed elettronico per la sorveglianza della linea di confine. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo, ma è il quarto produttore di uranio del mondo, ed è destinato a balzare al secondo posto entro sette anni. Il solo comparto dell'uranio rappresenta per il paese il 60% delle proprie esportazioni, tuttavia di tutta questa ricchezza resta ben poco al paese, circa 100 milioni di euro l'anno, che non permettono di elevare il tenore di vita della popolazione locale. Già nel periodo tra il 2007 ed il 2009, gruppi di indipendentisti tuareg, avevano scatenato una serie di attentati nel nord del paese, quello dove vi è la maggiore concentrazione di miniere, che era stata definita la guerra dell'uranio. Il malcontento, insomma, è presente e strisciante nel paese e può rappresentare un buon terreno di coltura per l'inserimento del fondamentalismo islamico, sulla base di uno sfruttamento delle materie prime nazionali che si eleva soltanto di poco dalle pratiche colonialiste. La Francia, che utilizza per la produzione del suo fabbisogno di energia elettrica ben 58 centrali atomiche, che producono il 78% del totale dell'elettricità consumata, preleva dal Niger, ex colonia francese, tra il 30 ed il 40 per cento dell'uranio consumato. La multinazionale Areva, di proprietà dello stato francese per l'ottanta per cento, gestisce direttamente ben due grandi miniere.
Per Parigi, quindi, la stabilità della nazione nigerina risulta fondamentale e strategica per la propria economia. Ma non è solo la Francia ad interessarsi dell'uranio del Niger, anche la Cina, attraverso la China Nuclear Internazionale Uranium Corporation, gestisce una miniera, quella di Azelik, anche se è la più piccola del paese. Pechino però ha un maggiore sfruttamento del petrolio, grazie alla gestione del sito di Agadem, capace di una produzione di 2.000 barili al giorno. Gli investimenti cinesi hanno incontrato maggiormente il favore del governo, come in molte altre realtà africane, e ciò determinerebbe maggiori opportunità per Pechino nel futuro. Questa situazione potrebbe essere però fonte di scontro tra i due partner commerciali del Niger, intanto Pechino non ha collaborato alla difesa contro l'islamismo fondamentalista, se non con l'appoggio interessato tramite il parere favorevole alla risoluzione del Consiglio di sicurezza, che, in fin dei conti, ha permesso di sfruttare l'impegno militare francese a costo zero. Questo fatto non potrà passare sotto silenzio da parte di Parigi, che potrà presentare il conto sia alla Cina che al Niger. Nonostante ciò Parigi dovrà rivedere la politica economica nel paese africano, verosimilmente incrementando il gettito a favore di Niamey, sia per calmarne lo scontento del governo, sia per contrastare l'avanzata cinese nel paese e sopratutto per permettere di creare una maggiore diffusione del benessere tra la popolazione, che impedisca alle idee fondamentaliste di attecchire.
Nel Mali del nord è necessario sostituire l'economia criminale
Non rientra nelle intenzioni del governo del Mali trovare un accordo con i radicali islamici che hanno occupato il paese. La dichiarazione è ufficiale e proviene dal ministro degli esteri del paese africano, Coulibaly Hubert Tieman; la posizione del paese maliano è inconciliabile con coloro che hanno distrutto il processo democratico nella parte settentrionale del paese ed una pace con Al Qaeda nel Maghreb Islamico è quindi impossibile. Ma per evitare il ritorno dei jihadisti non può bastare solamente l'attuale fase militare, seppure vittoriosa, grazie all'appoggio determinante di Parigi. La gestione del periodo immediatamente successiva al conflitto è la più difficile perchè, oltre a mantenere il presidio del territorio, occorre analizzare e correggere le cause, che hanno portato alla sottrazione così veloce della sovranità nazionale. Se risulta essenziale un presidio armato sufficientemente attrezzato, formato, presumibilmente da una forza di caschi blu di origine africana, come auspicato dalla Francia, che impedisca nel breve periodo un ritorno immediato di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, che avrebbe conseguenze terribili, sopratutto per la popolazione, la priorità nel lungo periodo è impiantare una economia che vada a sostituire l'insieme di traffici e contrabbando, che hanno permesso ai terroristi di conquistare la fiducia della popolazione, nelle prime fasi dell'invasione. La parte di territorio che era stata conquistata dai ribelli è contraddistinta da una povertà endemica all'interno di una conformazione geomorfologica che ha favorito un ampio sviluppo di un insieme di attività, che sono state definite come economia criminale. In effetti la ricchezza dei gruppi terroristici in questi pochi mesi di dominazione pare essere accresciuta in modo esponenziale, per avere assunto il controllo delle vie di passaggio, dove transitavano i migranti, la droga, il traffico di armi ed infine gli ostaggi occidentali, i cui riscatti pagati dagli stati di appartenenza consistevano in somme in euro a sei zero. Di tutti questi flussi di denaro per la popolazione locale restavano pochi spiccioli, che erano però somme molto alte se immesse in una economia di pura sussistenza. Il reclutamento nelle formazioni dei ribelli era pagato, infatti, dai 300 ai 600 euro al mese, stipendi quasi al pari dei precari occidentali, che permettevano un innalzamento immediato del tenore di vita. Si capisce allora come la penetrazione sociale, almeno iniziale, sia stata facilitata. L'instaurazione del regime del terrore dovuto alla applicazione integrale della sharia, avvenuto nella fase successiva ha raffreddato il rapporto della popolazione con Al Qaeda, tuttavia l'emergenza economica individuata dal governo del Mali resta una priorità da risolvere, per fare mancare a possibili ritorni dei radicali islamici, gli appigli con cui entrare in sintonia con il tessuto sociale. Non secondaria, poi, è anche la questione prettamente della sicurezza, del controllo territoriale e della lotta alla criminalità, che ha diverse ricadute anche sul piano internazionale. Sono, infatti, per primi ad essere interessati i paesi occidentali che si affacciano sul Mediterraneo affinchè sia stroncato il traffico di droga e di armi e la tratta degli esseri umani, che transitano nelle vie del deserto del Sahara, come altrettanto lo sono le organizzazioni internazionali ed umanitarie. Il Mali non possiede i mezzi per affrontare da solo tutte queste emergenze, che sono anche un investimento per l'occidente. La necessità di investimenti occidentali si scontra con lo stato di crisi delle economie più ricche, tuttavia se si vuole salvaguardare la sicurezza europea ed occidentale, occorre elaborare dei piani che assecondino la volontà del paese africano ad esercitare una sovranità completa sui territori del nord, che non deve essere soltanto militare ma sopratutto sociale.
lunedì 4 febbraio 2013
La Corea del Nord vicina al terzo test nucleare
Le linee guida illustrate nel fine settimana, durante un incontro del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, la formazione egemone nel paese, Kim Jong-un ha illustrato le linee guida per il rafforzamento delle strutture militari al fine di proteggere la sovranità nazionale. Secondo gli esperti il linguaggio criptico dei burocrati nordcoreani, significa che il temuto test nucleare di Pyongyang sarebbe imminente. Anche nella Corea del Sud si ritiene che i preparativi siano completati e che la Corea del Nord stia per fare esplodere il suo terzo ordigno nucleare, dopo quelli del 2006 e del 2009. Per Seul la decisione su come affrontare la questione è ormai di natura politica. Ma nel frattempo sono iniziate le manovre navali congiunte con gli Stati Uniti, mentre sulla terra anche gli eserciti dei due paesi stanno effettuando esercitazioni comuni. Si tratta della risposta, in tempo praticamente reale, alle intenzioni nordcoreane, che costituisce una prova di forza destinata ad aumentare una tensione già di per se molto elevata. Ma per Pyongyang il test nucleare è diventato un passo obbligato, sopratutto in risposta alle sanzioni, che colpiscono un paese già duramente provato economicamente a causa della sua arretratezza, imposte dal Consiglio di sicurezza per il lancio di un missile, che ufficialmente doveva mettere un satellite in orbita, mentre in realtà era il test per un razzo a lunga gittata. Da valutare le reazioni di Pechino, sia alle esercitazioni militari, mai troppo gradite, che alla perseveranza della Corea del Nord, già ripresa nei canali ufficiali e non dalla Repubblica popolare cinese. Altrettanto problematica potrebbe essere la gestione della situazione al momento dello scoppio dell'ordigno, con la Corea del Nord praticamente accerchiata, sia dal mare, che dalla presenza dei 28.000 marines americani attestati sul confine nel 38° parallelo. Per Obama la regione orientale è diventata preminente per i suoi risvolti economici e, pur mantenendo per scelta un basso profilo, sopratutto in sede diplomatica, la posizione americana è quella di non concedere alcunchè alle pretese di Pyongyang, sopratutto sul versante nucleare, posizione in cui Pechino ha dimostrato di essere d'accordo per avere accordato il proprio sostegno alle sanzioni ONU. Per la Corea del Nord potrebbe essere arrivato il fatidico momento di avere passato il segno, con un futuro immediato sotto stato di assedio, mentre nel lungo periodo, senza anche gli aiuti cinesi, il regime potrebbe implodere sotto se stesso.
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