Politica Internazionale

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lunedì 18 febbraio 2013

L'Egitto distrugge i tunnel di Hamas

La politica inaugurata dal governo egiziano, del Presidente Mursi, di distruggere i tunnel sotterranei che comunicano con Gaza, pare muoversi in netta controtendenza, rispetto alle attese degli abitanti della Striscia ed ai pronostici degli osservatori internazionali, che prevedevano una politica preferenziale del paese egiziano verso Hamas. L'ascesa al potere dei partiti islamisti a Il Cairo, pareva indirizzarsi, seppure tra molti equilibrismi, in una direzione nettamente favorevole alla popolazione palestinese, suscitando la preoccupazione israeliana ed americana. In questo scenario l'apertura del valico, in superficie, di Rafah aveva già allarmato le forze armate di Israele per i possibili passaggi di armi. Parallelamente, però, il canale principale di comunicazione e, sopratutto, di passaggio delle merci, erano state le centinaia di tunnel, scavate con relativa facilità in un suolo particolarmente adatto allo scopo, presenti nel sottosuolo al confine tra Egitto e Striscia di Gaza. Costruiti durante il regime di Mubarak, i tunnel hanno permesso di aggirare il rigido embargo israeliano, che riguardava anche generi alimentari e medicinali, oltre ad altre svariate specie di materiali, tra cui quelli da costruzione e carburanti a prezzo decisamente minore da quello imposto da Tel Aviv. Si stima che le merci che giungevano dai tunnel rappresentassero circa un terzo del fabbisogno totale delgi abitanti della Striscia di Gaza. Chiaramente la natura del traffico di queste merci non era legale, trattandosi della violazione dell'embargo israeliano, si poteva inquadrare il fenomeno come una forma necessaria di contrabbando, conveniente, però a quasi tutti gli attori coinvolti nello scenario. I mercanti egiziani e palestinesi davano incremento ai loro guadagni, per le guardie di frontiera dell'Egitto era una fonte alternativa di guadagno e per Hamas una entrata fiscale vera e propria, in quanto le merci che attraversavano il sottosuolo erano soggette ad un regime di tassazione. Negli ultimi giorni, però, l'attività dei tunnel è stata fortemente compromessa dall'azione dell'esercito egiziano che ha provveduto a piazzare cariche di esplosivo, che ne hanno provocato il parziale crollo, assieme alla pratica di inondare le vie sotterranee, di fatto diminuendone la capacità del transito delle merci. La situazione economica di Gaza, già molto difficoltosa a causa di una disoccupazione che si aggira intorno al 50%, ha subito così un contraccolpo importante, che non poteva non essere stato valutato dal governo egiziano. Tali misure mettono in chiara difficoltà Hamas, che è al governo nella Striscia, e che aveva speso parole di elogio e di speranza per l'elezione di Mursi. Il Presidente egiziano, con questa mossa, pare, invece, avere sacrificato la parte più estremista, ma più affine al suo partito, del movimento per la liberazione della Palestina: Hamas. Le ragioni non paiono essere ben chiare, una motivazione potrebbe essere la pressione USA, dietro sollecitazione israeliana, di chiudere una via che possa permettere un passaggio di armi; in questo momento Tel Aviv è impegnata sul confine settentrionale a controllare la minaccia proveniente dalla dissoluzione siriana ed un eventuale risveglio militare di Hamas potrebbe creare problemi all'esercito per uno schieramento massiccio su due fronti contemporaneamente. I militari egiziani intendono mantenere buoni rapporti con gli USA e questo elemento potrebbe favorire la disponibilità con la quale si sono prestati al sabotaggio dei tunnel. Tuttavia, se queste ipotesi possono ritenersi concrete e verosimili, è altrettanto credibile che il presidente egiziano voglia accreditarsi sotto una luce particolarmente positiva alle potenze occidentali e filoisraeliane per distogliere l'attenzione dalla situazione interna del paese. Le feroci repressioni dell'opposizione, a causa dell'approvazione di una carta costituzionale fortemente sbilanciata verso posizioni di radicalismo islamico, hanno provocato parecchi dubbi sulla legittimità e l'affidabilità del nuovo governo dell'Egitto, peraltro democraticamente eletto. L'evoluzione politica interna del paese, ritenuto molto importante dalle cancellerie occidentali per l'equilibrio regionale, ha suscitato negli ambienti governativi de Il Cairo, un timore assoluto di essere relegato in un pericoloso isolamento dai paesi dell'occidente, condizione che aggraverebbe un tessuto economico già molto compromesso e che, è bene ricordarlo, è stato la causa scatenante della ribellione contro Mubarak. Mursi, che non vuole o non può cambiare la sua politica interna, sia per proprie convinzioni, che per essere ostaggio delle parti politiche più radicali, cerca di attuare strategie alternative che possano consentirgli accrediti ritenuti sufficienti presso la diplomazia occidentale. Con la distruzione dei tunnel il messaggio che si vuole fare passare è quello di combattere il terrorismo palestinese, ma se Israele potrebbe ringraziare per questa azione, è proprio dal fronte interno, nei movimenti più vicini al presidente egiziano, che possono venire i contraccolpi maggiori. La strategia è quindi di azzardo, perchè a Mursi potrebbe sfuggire il controllo dei gruppi contrari ad Israele, andando ad innescare un pericoloso cortocircuito proprio all'interno della compagine governativa.

venerdì 15 febbraio 2013

La prova del coinvolgimento dell'Iran in Siria

Il funerale di un generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, i cosidetti Pasdaran, l'ala militarista più fondamentalista del regime di Teheran, rischia di diventare un caso diplomatico. Il militare sarebbe rimasto ucciso in Siria, mentre stava coordinando il trasferimento di razzi ed altri armamenti dell'arsenale di Assad in Libano, durante il raid aereo compiuto dall'aviazione militare israeliana del 30 gennaio. Questa versione è quella presentata dal portavoce dell'Esercito siriano libero, Fahd al Masri, che ha affermato che il generale stava agendo, nel trasferimento delle armi, per conto delle forze armate iraniane. Se ciò corrispondesse al vero, come numerosi osservatori sospettano, la posizione iraniana sarebbe diventata difficile, perlomeno sullo stesso piano di quella israeliana, tanto contestata da Teheran, al punto di minacciare ritorsioni contro Tel Aviv per l'azione compiuta sul territorio del migliore alleato dell'Iran: la Siria. Nella versione ufficiale, accompagnata dalla solita retorica del regime, che incolpa della morte del generale i mercenari ed i sostenitori del regime sionista, il militare sarebbe deceduto martedì scorso ed il nome fornito dalla televisione iraniana di lingua inglese, Press TV, è stato quello di Hassan Shateri, mentre l'Ambasciata iraniana a Beirut a fornito il nominativo di Khoshnevis Husam. In realtà si tratterebbe della stessa persona, in quanto il nome fornito dalla sede diplomatica dell'Iran in Libano, sarebbe il nominativo di copertura utilizzato per ricoprire a Beirut il ruolo di presidente della Commissione iraniana per la ricostruzione del Libano, una associazione fondata da Teheran dopo il conflitto combattuto tra Israele ed Hezbollah nell'estate del 2006, identificata come la struttura incaricata di fornire gli estremisti libanesi di armi. La vicenda costituirebbe così la prova del coinvolgimento, sempre negato, della Repubblica islamica iraniana, nella guerra civile siriana al fianco di Assad, per la verità un segreto niente affatto tale. I sospetti dell'attivismo iraniano nella guerra in corso in Siria, sono stati, peraltro sempre suffragati, dall'azione diplomatica di Teheran, tesa a preservare il governo in carica, perchè punto chiave nella strategia della politica internazionale dell'Iran. Esiste anche un precedente che ha coinvolto 48 membri dei Pasdaran, presi in ostaggio dai ribelli siriani, ma identificati dalle fonti iraniane come pellegrini. La vicenda, comunque, alzerà ancora di più il livello dello scontro sotterraneo, mai chiaramente ammesso da ambo le parti, tra Israele ed Iran, che si innesta nel contronto armato ancora da più tempo in corso tra i due stati per la questione del nucleare iraniano. Dal punto di vista internazionale, invece, la conferma del coinvolgimento diretto dell'Iran nella guerra siriana, non rappresenta una novità, se non per le potenziali conseguenze che Teheran potrà potenzialmente patire in termini di censura diplomatica, nel caso l'ONU intenda procedere in questo senso.

giovedì 14 febbraio 2013

Seul risponde a Pyongyang

Dopo il test nucleare nordcoreano, Seul ha risposto con il lancio di missili da crociera, durante una esercitazione. La gittata di questi missili consente il raggiungimento di qualsiasi obiettivo nella Corea del Nord, avendo un raggio massimo di azione di quasi 1.500 chilometri, che equivale circa al doppio della lunghezza dell territorio nordcoreano. Lo scopo dell'esercitazione è duplice: da una parte vi è un motivo di ordine internazionale, consistito nell'evidenziare a Pyongyang la capacità di fuoco sudcoreana, peraltro ben conosciuta, dall'altra parte l'atto è stato quasi obbligato da ragioni interne, per mostrare ad una popolazione allarmata, le capacità difensive nazionali e la disposizione della propria forza armata alla difesa della nazione. Per altro, dal punto di vista internazionale vi è un significato ancora ulteriore, oltre al segnale diretto verso Pyongyang, ed è quello inviato alla comunità internazionale, comunque già molto sensibile al problema. Seul sta dicendo in modo chiaro di essere pronto ad intraprendere azioni militari sia in risposta al test nordcoreano, che contro eventuali minacce provenienti dalla stessa parte settentrionale della penisola della Corea. Anche la tempistica scelta per fare presente al mondo intero della disponibilità di tali armi missilistiche, avvenuta in un momento di massima tensione nella regione, aggiunge motivi di preoccupazione per il panorama internazionale. Contemporaneamente le forze armate sudcoreane hanno svolto quattro giorni di esercitazioni congiunte con gli Stati Uniti, che mantengono la presenza di 28.500 militari, da impiegare nella malaugurata ipotesi di un attacco proveniente dalla Corea del Nord. Questa attività militare ha provocato la precisazione di Pyongyang, che pur ribadendo la propria capacità a fare fronte ad eventuali attacchi esterni, ha insistito sul bisogno del rafforzamento del proprio deterrente nucleare, più che altro contro gli USA, che guidano le forze ostili al paese nordcoreano. Siamo quindi di fronte ad un soggetto che non solo conferma la propria appartenenza al club nucleare, ma che ribadisce la propria necessità ad ampliare il proprio arsenale: una situazione ben diversa da quella dell'Iran, dove il governo, ufficialmente, ammette soltanto richerche nucleari ad esclusivi fini pacifici. In entrambi i casi si è adottato lo stesso mezzo di dissuasione, le sanzioni, che pur avendo peggiorato notevolmente la condizione di entrambi gli stati, non hanno sortito gli effetti desiderati. Con la fine della guerra fredda la proliferazione nucleare ha avuto un incremento che provoca, non più crisi globali ma crisi regionali, moltiplicando i potenziali conflitti. Resta il fatto che nessuno, se non qualche paese arabo, condanna Israele quale possessore di ordigni atomici ed analogamente neppure Cina, India e Pakistan ricevono censure per avere nel proprio arsenale bombe nucleari. Se la Corea del Nord può essere pericolosa, cosa dire allora di un paese come quello pachistano, dove esistono, spesso anche negli apparati governativi, tendenze collimanti con il radicalismo islamico. Ed in ultima analisi quale è il diritto di possedere tali ordigni di USA, Francia Inghilterra e Russia? La verità è che non si è fatto abbastanza per mettere al bando le armi atomiche sia dalle nazioni principali che dagli organismi internazionali. Accettare come legittimo il possesso di questi armamenti per Washington e non per Pyongyang, ha certamente delle basi relative valide, ma non ne ha in senso assoluto.

mercoledì 13 febbraio 2013

Per l'Africa le attenzioni dell'Iran

L'Africa diventa sempre più centrale nelle strategie delle potenze legate al radicalismo islamico. L'Iran e lo Yemen, avrebbero, secondo gli osservatori delle Nazioni Unite, fornito armi alla milizia islamica Al Shabab, presente in Somalia e nemica del governo in carica. D'altro canto Teheran ha però finanziato per ben 43 milioni di dollari il paese africano, da destinare alla lotta alla fame. Va specificato che il rifornimento delle armi è avvenuto in violazione dell'embargo di cui la Somalia è destinataria e che ha suscitato più di una protesta proveniente dagli ambienti governativi, che non possono rifornirsi di materiale adeguato per combattere proprio le milizie islamiche. Alla luce di questi sviluppi l'Iran ha assunto, quindi, una condotta non univoca con il potere legittimo somalo, perseguendo una doppia strada che significa soltanto la ricerca assoluta del mantenimento dell'influenza sull nazione, qualunque sia, alla fine, la parte prevalente. Per Teheran l'influenza sulla Somalia, potrebbe rientrare in un quadro più ampio di controllo sia della costa del paese, importante via di transito marittimo commerciale, che come porta di ingresso verso il canale di Suez. Del resto esiste un rapporto delle Nazioni Unite fin dal 2006, che denuncia l'appoggio militare iraniano ai movimenti islamisti da cui è scaturito Al Shabab. Il rovesciamento delle fortune militari di Al Shabab, ad opera del Kenya, che non gradisce lo sconfinamento nel suo territorio delle milizie islamiche e per la reazione del governo di Mogadiscio, anche per proteggere l'attività delle Organizzazioni internazionali contro le carestie, ostacolate dai radicali islamici, hanno obbligato l'Iran ad un comportamento più duttile per essere accettato dal governo somalo. Ma le attenzioni del regime degli ayatollah per il continente africano è più esteso che alla sola Somalia. Sono, infatti, altri tre i paesi dove sono state inaugurate sedi diplomatiche iraniane: Gibuti, dove esiste una grande concentrazione di militari USA per la presenza del comando americano per l'Africa, il Sud Sudan, la nazione più giovane del mondo, nata dalla scissione con il Sudan, a maggioranza cristiana e ricca di giacimenti petroliferi ed il Camerun. Teheran, oltre a perseguire una politica che favorisca la parte islamica scita, spesso coincidente con i movimenti più estremi e violenti, sta attuando, di pari passo, in Africa, ma non solo, una azione diplomatica che mira a trovare nuovi contatti, in modo da potere rompere gli effetti sempre più pesanti delle sanzioni a cui viene sottoposta per la questione del nucleare. La scelta cade su nazioni chiaramente non allineate, che possano a loro volta sfruttare vantaggi, sopratutto di natura economica, intrecciando nuovi legami diplomatici. Resta però una caratteristica negativa dall'azione iraniana, che potrebbe dare seguito a nuove censure, sia dall'ONU, che dagli USA: le ripetute violazioni all'embargo sulla fornitura di armi, che riguarda ben sette nazioni africane (Repubblica Democratica del Congo, Costa d'Avorio, Eritrea, Liberia, Libia, Somalia e Sudan) e che Teheran avrebbe infranto con invii effettuati attraverso la terraferma. In alcuni casi questi traffici hanno anche scatenato le repressioni violente, per altro mai ammesse, di Israele e degli stessi USA, che hanno bombardato i convogli destinati a formazioni islamiche estremiste, con azioni dal cielo.

martedì 12 febbraio 2013

La Corea del Nord ha eseguito il test nucleare

La Corea del Nord ha ufficializzato che l'esperimento nucleare, fonte di molte tensioni internazionali, è riuscito grazie ad un dispositivo di nuova concezione, con caratteristiche di minore peso, nonostante contenesse un maggiore quantitativo di esplosivo. Il test nucleare, secondo le fonti ufficiali, non avrebbe causato alcun danno all'ambiente. Il fatto ha scatenato la reazione immediato delle Nazioni Unite, che mediante il suo Segretario generale, Ban Ki Moon, ha condannato l'accaduto invitando il Consiglio di sicurezza ad assumere misure appropriate per sanzionare l'esperimento. L'atteggiamento sprezzante di Pyongyang, che ha insistito sulla propria linea, nonostante gli appelli e le condanne della comunità internazionale, è sentito dalla platea diplomatica come un vero e proprio atto di sfida. Il leader nordcoreano era stato sollecitato a non proseguire sulla strada della nuclearizzazione militare del paese, come base per instaurare un dialogo fondato sulla reciproca fiducia, con i vicini regionali. L'atto di sfida, che in verità era dato per sicuro nonostante la speranza che non venisse attuato, apre definitivamente a possibili nuovi scenari ed equilibri regionali, che saranno, comunque, contraddistinti da una fase molto probabile di forte instabilità. La prima conseguenza sarà l'inasprimento delle sanzioni, provvedimento che metterà ancora più in difficoltà una nazione alla fame. La seconda sarà il peggioramento ulteriore dei rapporti con la Cina, che con questo test è stata sfidata apertamente, malgrado gli avvisi ripetuti di Pechino a desistere dai piani nucleari di Pyongyang. Il grado di peggioramento dei rapporti tra i due stati non è prevedibile con sicurezza, si può andare da un semplice taglio ai fondamentali aiuti provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, fino alla rottura totale dell'alleanza. Questa eventualità rappresenta lo scenario peggiore, per la Corea del Nord significherebbe il più assoluto isolamento nel mondo, con ricadute quasi certe sulla stessa esistenza del regime. Ma ciò potrebbe anche provocare reazioni inconsulte, attuate senza il filtro di Pechino. Anche perchè la terza conseguenza che si attuerà come risposta al test nucleare sarà l'intensificazione delle manovre militari congiunte tra USA e Corea del Sud e forse anche del Giappone. A quel punto la Corea del Nord si sentirà circondata e vorrà mostrare i muscoli dando luogo ad una escalation di difficile previsione. Ma anche senza questo possibile confronto militare, che la Cina non gradirebbe perchè troppo vicino al suo territorio, sia marino che terrestre, il raffreddamento con Pechino rappresenta l'elemento più importante da analizzare. Se la condanna della Cina è scontata, come conseguenza ai tanti appelli disattesi ed in coerenza con il voto favorevole dato nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, fatto, peraltro, niente affatto consueto, Pyongyang perde in maniera molto rilevante la propria autonomia economica, dipendente in larga parte da Pechino. In questo caso l'implosione del regime diventa un fatto altamente probabile. La carenza alimentare potrebbe spingere masse di persone, ormai incontrollate, verso le opposte frontiere di Corea del Sud e Cina, creando una emergenza umanitaria di grande rilevanza. Questo aspetto potrebbe però essere anche pilotato da Pyongyang come ritorsione al regime sanzionatorio a cui verrà sottoposto il paese. In entrambi i casi si aprirà un problema ancora maggiore rispetto alla situazione attuale, circa la presenza di un fattore di così forte destabilizzazione della regione, rappresentato proprio dallo stato nordcoreano. Nel passato i tentativi di riunire le due Coree non erano ben visti sopratutto da Pechino, che temeva, non tanto di perdere un alleato di poca importanza strategica, quanto di incrementare un concorrente economico come la Corea del Sud. Tuttavia le attuali condizioni geopolitiche fanno propendere, per la Cina, la preferenza per una situazione di maggiore stabilità, sopratutto alle sue frontiere, nell'ottica di una maggiore facilitazione della propria attività commerciale. Se questo è vero non è però detto che la riunificazione delle due parti della penisola coreana sia l'unica soluzione possibile. Pechino potrebbe optare, al fine di mantenere Pyongyang nella propria sfera di influenza, ad un passaggio di potere in modo da rendere la Corea del Nord più funzionale ai suoi scopi, quasi uno stato satellite; in questo senso soltanto la Cina, per il grado di penetrazione nel chiuso stato comunista dinastico, potrebbe riuscire nell'intento. La situazione attuale si presente, comunque, in un continuo divenire difficile da prevedere con certezza a causa delle tante variabili presenti nella vicenda.

lunedì 11 febbraio 2013

L'incertezza del conflitto siriano potrebbe obbligare Israele ad un attacco militare

La minaccia più immediata per Israele è il conflitto che sta provocando la dissoluzione della Siria. La grande eterogeneicità della composizione delle forze che stanno combattendo contro Assad, con visioni anche diametralmente opposte tra di loro e quindi potenzialmente avversarie, determina profonda incertezza al confine con il paese israeliano. Comunque, quale sia il destino di una guerra ancora tutto da decidere, per Tel Aviv non si profila una soluzione congeniale. Da una parte il regime di Damasco, profondamente legato ai nemici di Israele, Iran ed Hezbollah, con i quali è in debito per gli aiuti forniti, in caso di vittoria, potrebbe vedersi presentare un conto costituito da azioni contro il paese israeliano, dall'altra parte, nelle forze ribelli, stanno emergendo sempre più due matrici confessionali in concorrenza tra di loro, si tratta di gruppi di opposizione sunniti nemici dei salafiti al potere e gruppi jihadisti provenienti dall'Iraq, che si definiscono sciti e quindi, presumibilmente sostenuti da Teheran. Per entrambi, però, Israele resta un nemico da colpire. L'azione di questi gruppi ha come teatro le alture del Golan, territorio immediatamente confinante con Israele. Una delle ipotesi fatte dagli analisti è che colpire la nazione israeliana potrebbe fare accrescere il prestigio tra le varie fazioni che si oppongono ad Assad. Vi è poi la questione degli arsenali di armi chimiche, che preoccupano pesantemente Tel Aviv; nei giorni scorsi un attacco israeliano ha già colpito un convoglio di armi destinato ad Hezbollah, scatenando le minacciose reazioni di Siria ed Iran a cui non vi è stato, per ora, seguito. Le forze armate israeliane, del resto, sono da tempo impegnate in manovre militari per evitare attacchi a sorpresa provenienti dal territorio siriano. Nel frattempo la guerra civile in corso in Siria assume destini sempre più incerti: se fino a poco tempo fa la sorte di Assad pareva sicuramente segnata, gli ultimi sviluppi hanno indicato una situazione meno definita. Le diserzioni dall'esercito regolare, che avevano assunto una dimensione elevata, si sono arrestate e l'offensiva dei ribelli contro la roccaforte del regime, Damasco, hanno avuto risposte adeguate, rendendo, almeno per il momento, la capitale inespugnabile. Israele potrebbe così cercare, mediante un attacco armato in grande stile, di prevenire, una volta per tutte, un attacco di cui potrebbe essere vittima proveniente dalla Siria. In questo momento il nemico non è quindi l'esercito regolare. ma formazioni ribelli occupanti le zone a ridosso della zona di confine. L'eliminazione di questi gruppi consentirebbe a Tel Aviv di scongiurare il pericolo dei traffici di armi e, nello stesso tempo, di evitare di essere nel mirino di formazioni fondamentaliste. Inutile dire che ciò andrebbe a costituire un favore ad Assad, che potrebbe vedere arrivare un aiuto insperato. Tuttavia una mossa del genere da parte dello stato di Israele potrebbe aprire una vasta zona di instabilità compresa tra la riva del Mediterraneo fino all'Iraq, paese di provenienza di diversi combattenti. In una visione più ampia, quello che si teme è che dalla scintilla provocata da un intervento militare di Israele, si determini lo stravolgimento stesso di alcuni stati in preda a forti tensioni opposte, che si materializzano nell'eterno confronto tra sciti e sunniti. Quello che Tel Aviv non sfrutta è un dialogo con gli stati sunniti, che dovrebbe sfociare in una qualche forma di alleanza. Ma senza la definizione dello stato di Palestina questa strada è impraticabile e ad Israele non resta altra soluzione che la strada delle armi per difendersi dai suoi nemici. Al contrario con la risoluzione del problema della Palestina, con la creazione dello stato palestinese ed il reciproco riconoscimento, l'apertura della porta diplomatica presso i paesi sunniti sarebbe una realtà, che determinerebbe la fine dell'isolamento israeliano e la possibilità di intraprendere soluzioni alternative all'uso della forza.

Le dimissioni del Papa

Benedetto XVI ha annunciato che lascerà il soglio di Pietro il 28 febbraio. Si tratta di un evento di portata storica, che non accade dal medioevo, e comunque mai successo con dimissioni causate da motivi di salute, come ammesso dalla stesso Joseph Ratzinger. La pubblica ammissione di non essere più all'altezza del proprio compito, fa di Benedetto XVI un personaggio caratterizzato da estrema responsabilità verso il proprio ruolo, preoccupato per le sorti della chiesa cattolica, che sta attraversando un momento particolare al proprio interno. Va detto che, nonostante il giusto stupore per la notizia, la possibilità delle dimissioni era già stata ventilata dallo stesso pontefice fin da due anni prima, quando inquadrava come un dovere lasciare la carica qualora non si fosse più sentito nella più completa disponibilità fisica e psichica. La decisione non deve essere stata comunque facile, perchè le pressioni per non compiere il passo devono essere state molto pesanti. A contribuire alla scelta di lasciare il soglio pontificio potrebbero avere influito anche le vicende del recente scandalo legato alle lotte di potere all'interno dello stato Vaticano. L'elezione di Benedetto XVI era stata vista come una tappa di passaggio, dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, che potesse permettere alla chiesa romana un periodo di assestamento, dopo un Papa di così grande spessore. Ratzinger, uomo mite e grande studioso, ha cercato di mediare tra le varie parti della chiesa, tra le più conservatrici e quelle più moderniste, anche in maniera energica, cercando di focalizzare aspetti importanti per la vita dei fedeli, come la questione del lavoro. Il conclave che si svolgerà presumibilmente da marzo, dovrà trovare, per eleggere il successore di Benedetto XVI, una sintesi non facile da raggiungere, anche se le manovre tra le varie fazioni della chiesa cattolica saranno già, probabilmente, cominciate. L'assetto dei cardinali che compongono il collegio dal quale uscirà il nuovo papa è caratterizzato ancora dall'impronta tradizionalista lasciata da Giovanni Paolo II, le possibilità che si affermino tendenze anti conciliari sono concrete. Vi sono, poi, le istanze delle chiese emergenti e delle comunità che subiscono le persecuzioni islamiche, che potrebbero incidere notevolmente sulla scelta del 266° papa di Roma. Occorre vedere come saprà reagire il corpo ecclesiale alla domanda di modernità lanciata dalla maggioranza dei fedeli, ma spesso lasciata inascoltata per abbracciare posizioni neoconservatrici. Mentre nell'occidente più ricco si assiste ad una diminuzione dei fedeli, che si allontanano da una istituzione che avvertono sempre più distante, nei paesi ex socialisti ed in generale in quelli più poveri, di matrice cattolica, vi è un incremento della religiosità popolare, anche per un impegno sempre costante dell'assistenza da parte del clero più basso. Ma nelle alte gerarchie prevale un istinto di conservazione a mantenere divisa la spiritualità dalle cose terrene. Questa sorta di protezione ha favorito la crescita di posizioni sui grandi temi ancora arretrate rispetto alla società civile. Il nuovo papa, qualunque sia la sua impostazione, dovrà, per forza di cose, affrontare tutte le questioni di grande rilevanza che il pontificato di Benedetto XVI lascia in sospeso, ma dovrà, sopratutto, sapere riportare l'istituzione vaticana al livello delle grandi emergenze mondiali, sia teoriche che pratiche, rispetto alla posizione attuale che appare sempre troppo distante e permeata soltanto di grande spiritualità.