Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 30 novembre 2011
Una critica al ruolo della Germania nell'attuale fase di crisi
La turbolenza economica dell'europa alimenta dissidi e potenziali contrasti di ampia portata tra gli stati. Bersaglio principale è la Germania, che in forza della propria capacità economica, si è, praticamente attribuita, oltre che il ruolo guida, non sancito da alcun avallo politico democratico, anche il ruolo di moralizzatore nei confronti dei paesi in difficoltà. Il disagio verso questo atteggiamento tedesco sta montando in maniera esponenziale negli ambienti politici, sopratutto dei paesi definiti come PIGS, che oltre le misure draconiane di cui sono oggetto, dietro cui si vede chiaramente la mano tedesca, patiscono anche l'atteggiamento paternalistico proveniente da Berlino. In effetti la Germania ha intrapreso una politica a senso unico in nome del solo rigore, tralasciando la fase espansiva necessaria per la crescita. Il forte sospetto è che Berlino voglia applicare all'area euro una politica economica di questo tipo per preservare la propria crescita, rafforzando così, oltre alla propria economia, il conseguente ruolo primario in eurolandia, senza dare alcuna o poche possibilità alla crescita degli altri paesi, sacrificandoli soltanto al recupero del loro debito, misura che andrebbe così a rafforzare l'euro e quindi la stessa Germania, che avrebbe quindi un vantaggio doppio dalle misure cui intende costringere gli altri paesi. Una ipotesi del genere inquadrerebbe una alleanza sbilanciata, se non una vera e propria forma di supremazia velatamente nascosta. Se questo ragionamento è vero le alternative sono due: espulsione dall'area euro dei paesi più deboli, ipotesi praticabile fino a che non si include tra questi l'Italia, i cui effetti di una esclusione sarebbero ancora più nefasti per la moneta unica, oppure continuazione dell'attuale area con però sacrifici sempre maggiori per i pesi più deboli. Anche dal punto di vista morale, costringere le popolazioni i cui governi non sono stati all'altezza della situazione, rappresenta un abuso da parte dell'Unione Europea, che tra l'altro, ha le sue colpe concrete, grazie al proprio immobilismo di fronte al sorgere del problema; è infatti opinione diffusa che una azione subitanea, effettuata cioè in tempi più rapidi avrebbe limitato i sacrifici da imporre alle popolazioni degli stati in oggetto. La richiesta di rigore tedesca è comprensibile ma deve essere stemperata con provvedimenti con possano dare speranze concrete alle popolazioni oggetto delle misue di sacrificio, in sintesi la Germania per potere esercitare il suo ruolo di leadership deve essere quella locomotiva economica che dice di essere, ma facendone ricadere i benefici anche al di fuori dei suoi stretti confini, solo così si giustificherà ancora l'esistenza dell'euro con la prospettiva dell'unione politica in virtù di una alleanza a tutti gli effetti.
Dietro all'assalto all'ambasciata inglese
Le modalità dell'assalto all'ambasciata inglese a Teheran sono quelle già viste in Siria e peraltro, tatticamente già sperimentate, contro l'ambasciata USA, quando il presidente era Carter. Quella che appare più evidente è la similitudine con gli atti di Damasco, una vera e propria scelta di colpire le sedi di rappresentanza dei paesi ritenuti nemici. Un avvertimento chiaro a non continuare con la politica contraria verso il paese dove sono ospiti, ma non per concessione, ma in virtù di accordi internazionali liberamente sottoscritti. Sembra evidente che vi è una unica mano dietro questa strategia e non è difficile individuarla nei servizi fedeli al presidente iraniano in carica, che è anche il suggeritore che sta dietro le repressioni siriane. Purtroppo sta diventando una prassi, usata anche però in Egitto, quella di assaltare le ambasciate che dovrebbero avere assicurata la protezione del paese dove operano. Violare questo precetto del diritto internazionale mette su una brutta china qualsiasi rapporto tra stati, non assicurare l'extraterritorialità è poco meno che una dichiarazione di guerra aperta, che implica, per il paese che compie questa violazione, intraprendere una strada di isolamento praticamente scontato. Potrebbe essere una nuova modalità per rompere accordi sottoscritti in maniera ufficiale, obbligando i paesi i cui uffici diplomatici sono stati violati, ad agire in modo unilaterale chiudendo le ambasciate e, di fatto, rendere lettera morta il trattato bilaterale firmato. Sembra proprio questa la strada intrapresa dal regime iraniano: obbligare alla chiusura le ambasciate dei paesi che vengono individuati come potenziali nemici che agiscono sul territorio con modalità spionistiche. Il tutto si inquadra nella lotta al nucleare iraniano ed ai mai chiariti attentati verso scienziati locali impegnati nello sviluppo della tecnologia atomica. Che sia vero o meno l'Iran vede dietro a questi attentati il Regno Unito (e gli USA, certamente, ma non è ancora venuto il momento per affrontarli in modo così aperto) ed in più da un chiaro avvertimento agli altri stati, di cosa può aspettarli se insistono nelle sanzioni. E' il contrario di un atteggiamento conciliante, una situazione precipitata con il rapporto AIEA, ed insieme una sorta di ammissione di colpa sui reali scopi della ricerca atomica intrapresa da Teheran. In questo modo la strada è segnata: da un lato l'Iran vuole liberarsi della presenza dei diplomatici occidentali perchè tutti potenziali spie, dall'altro lato viene scelto il muro contro muro contro la comunità internazionale ed in special modo con l'occidente. Il Presidente iraniano spera ancora di potere agire contro gli USA ed i suoi alleati in virtù delle ampie discordanze che essi hanno con Cina e Russia, e sul breve periodo ha qualche ragione: in questo momento l'atteggiamento di Mosca e Pechino è di forte distanza da Washington, ed anche il nucleare iraniano è una leva da fare valere in un raggio più ampio dei rapporti tra questi colossi; ma se l'Iran riuscisse a raggiungere veramente l'obiettivo dell'atomica, anche i rapporti regionali, data la vicinanza con Cina e Russia, andrebbero per forza a cambiare. Se invece di girare le rampe dei missili verso ovest, Teheran le ruotasse verso est, la gittata degli ordigni nucleari potrebbe raggiungere facilmente i loro territori. E' una ipotesi remota, ma nessuno può prevedere l'evoluzione delle dinamiche dei rapporti tra gli stati, con la velocità dei cambiamenti, caratteristici di questa fase storica. Mosca e Pechino stanno conducendo un gioco molto pericoloso di cui potrebbero diventare a loro volta vittime, una minaccia di un'atomica in più, specialmente in mano a regimi non che non proprio garantiscono una condotta univoca, non è comunque da sottovalutare, anche per il solo fatto di potere potenzialmente variare rapporti di forza militare certi ed abbastanza definiti. L'attacco all'ambasciata inglese deve quindi fare suonare un campanello d'allarme non solo nella NATO e nell'occidente ma in tutto il consesso mondiale, sopratutto per quello che sotto intende, oltre alla gravità del fatto in sè, verso possibili negativi sviluppi per l'equilibrio mondiale.
martedì 29 novembre 2011
L'affermazione dei movimenti islamici impone un nuovo approccio dei governi occidentali
L'atteggiamento dell'occidente nei confronti della primavera araba è stato di sostegno materiale e, salvo alcune eccezioni, di simpatia generalizzata. Nell'ottica democratica occidentale la caduta dei tiranni arabi, cui peraltro l'aspetto funzionale ai governi dell'ovest è risultato acclarato, è stata inquadrata nell'ottica positiva di un possibile sviluppo democratico della forma di governo di questi paesi. Tuttavia le ipotesi di un indirizzamento verso la predominanza di movimenti di tipo laico, più conformi al modello occidentale, stanno venendo progressivamente meno in virtù delle massiccie affermazioni elettorali di formazione di ispirazione islamica. Si tratta, è vero, di partiti di indirizzo moderato, in cui la componente islamica, pur ricoprendo la centralità dell'azione politica, non si richiama praticamente mai a sistemi violenti dell'affermazione dell'islamismo entro i confini sia della società, che dello stato stesso. Ma la connotazione, che resta profondamente religiosa, rischia comunque di costituire un ostacolo nei rapporti con i governi occidentali, proprio sulla dialettica del confronto, in vista di una maggiore integrazione tra queste parti, che mirano, entrambe a trovare nuovi terreni di dialogo. La preoccupazione, da parte occidentale, è di non riuscire a trovare intese praticabili nei rapporti tra gli stati, più facile dialogare con dittatori che davano un'impronta occidentale ai loro paesi, gli esempi di Egitto e Tunisia, a questo scopo sono altamente esemplificativi. Quello che sorprende è che l'ocidente non fosse preparato a risultati elettorali del genere in paesi dove l'unica struttura sociale alternativa al soffocante abbraccio dei regimi era rappresentata soltanto dal rifugio religioso. Piuttosto può essere un elemento di novità l'affermazione dei partiti islamici anche in Marocco, governato da una monarchia più illuminata rispetto ai governi dei paesi vicini. In questo caso il fattore di emulazione con gli stati contigui può essere una spiegazione. In assoluto il fatto è lampante, il risultato democratico parla chiaro e non può essere confutato con ritorni al passato o paure che devono essere superate ad ogni costo. Quello che deve cambiare è la disposizione verso movimenti di natura teocratica che imporranno inevitabilmente nei loro paesi modi di vita nettamente in contrasto con gli usi occidentali. D'altro canto questo è quello che è emerso o sta emergendo dalle indicazioni delle urne, vi è una omogeneità dei corpi elettorali delle nazioni al voto, che indica un bisogno, quasi fisiologico di regolare le società che si sono affrancate dai regimi in maniera più orientata ai valori religiosi propri, quasi a sviluppare una reazione ad una identificazione dei valori occidentali alle dittature decadute. Se questo è vero, rappresenta un punto fondamentale da cui partire per stabilire contatti consoni con i nuovi governi, trovando quel terreno d'intesa fondamentale nel rispetto dei nuovi indirizzi assunti, che contemplano una applicazione pratica dei precetti islamici. Questo punto deve essere, anzi coltivato in maniera assidua in maniera da non favorire una deriva estremista, intensificando i rapporti di vicinanza e di collaborazione in modo di favorire il rispetto e la comprensione reciproca.
lunedì 28 novembre 2011
Hamas ed Al fatah più vicini
Anche in Palestina si comprende l'importanza di annullare nel modo maggiormente possibile le differenze tra le due formazioni di più grande peso. Se questo è obiettivamente un progetto ancora troppo ambizioso, per le note distanze, l'avere compreso che intessere sempre maggiori legami tra i due movimenti rappresenta l'unico viatico per trovare quella unità del popolo palestinese necessaria alla costruzione dello stato. L'incontro avvenuto ad Il cairo il 25 novembre cerca di percorrere pienamente questa direzione, almeno nella forma dove si usa la rassicurante formula di avere rimosso ogni divergenza tra le due parti, cosa, ovviamente non vera, ma che segnala l'ampia volontà delle due formazioni di trovare un'intesa comune sempre crescente. Il primo appuntamento di rilievo concordato, entro il piano più vasto ed ambizioso di riconciliazione nazionale, sono le elezioni previste per il prossimo maggio. Si tratta, è bene dirlo subito, di una data che difficilmente potrà essere rispettata, perchè frutto di una previsione troppo ottimistica, minata dalle sempre presenti difficoltà di trovare una intesa sulla costruzione del nuovo esecutivo palestinese. Intorno alla questione del governo ruota l'accordo di riconciliazione nazionale, che doveva essere il collante principale per la ricostruzione dello strappo tra i due movimenti avvenuto quatro anni prima. In particolare Hamas si è irrigidito nella propria contrarietà al nome designato da Al Fatah, che altri non è l'attuale premier in carica: l'ex economista della Banca mondiale Salam Fayyad. Tuttavia sull'altro punto cruciale, che anzi ha risvolti programmatici ben maggiori, l'intesa è netta e rappresenta l'istituzione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Anche sul piano militare la necessità di mantenere la tregua con Israele è condivisa da entrambe le parti; ciò significa molto, sopratutto per Hamas, perchè si riconosce che il processo di pace deve essere perseguito senza atti di terrorismo. Si tratta di una posizione che, tra l'altro, mette in grossa difficoltà Israele, che conta sull'estremismo di Hamas per trovare giustificazioni sempre nuove alla politica violenta del governo in carica di Tel Aviv, sopratutto sul tema delle colonie abusive che vengono di fatto permesse da Netanyahu. Inoltre la sempre minore divisione tra i due maggiori movimenti palestinesi mina una dei caposaldi della politica israeliana che contava, ed alimentava questa divisione proprio per allontanare lo spettro della creazione dello stato palestinese. Dietro il pesante lavorio per la distensione e l'accordo tra i movimenti palestinesi si distingue e si muove l'azione egiziana, che ritiene fondamentale per il grande paese confinante la creazione dello stato palestinese, come fattore di stabilizzazione regionale e l'allontanamento definitivo del problema alle proprie frontiere. Del resto una situazione stabilizzata su questo fronte, che da troppi anni mantiene una temperatura troppo elevata, va al di la del benessere del medio oriente ma riguarda il mondo intero. Una regolarizzazione definitiva della questione che comprendesse finalmente la creazione dello stato di Palestina, toglierebbe parecchie argomentazioni ad un estremismo islamico sempre più crescente ed operante in diverse aree del pianeta.
venerdì 25 novembre 2011
Dietro alla crisi dell'Euro
Sulle prospettive dell'euro ormai le ipotesi si sprecano. Mai come in questo momento, dove perfino i titoli tedeschi vanno invenduti, non vi è alcuna certezza, addirittura sulla vita della moneta unica europea. E' una situazione paradossale, fino all'estate, ma anche dopo, l'euro era la divisa più forte, tanto da sostituire, in alcune economie, il dollaro come moneta di riferimento. L'avvitamento di alcune economie, prima fra tutte quella greca, che si è scelto di non salvare fin da subito con interventi strutturali da parte dell'Europa, dispensando, viceversa, anche con ragione, consigli e rimbrotti, ha rotto la diga che ha permesso alla speculazione di sfondare, trascinando nella difficoltà altri paesi, ben più pesanti nella complessità del sistema. Ma perchè proprio ora l'euro è entrato in difficoltà, quando le condizioni erano già presenti e conosciute prima? La sola spiegazione della speculazione non può convincere completamente, non può essere soltanto una somma di speculatori tesi a guadagnare dalla sconfitta dell'euro a determinarne la sua possibile fine. E' vero che sono stati fatti errori marchiani e ripetuti da più di un soggetto che doveva regolamentare e sopratutto vigilare sulla questione, ma questo può bastare a decretare una simile e rovinosa caduta? Il sospetto che ci sia una o più mente pensante dietro a questo sviluppo di cose non può non sfiorare chi è spettatore dei fatti. Senza dubbio, anche se sul lungo periodo, una caduta dell'euro, con il ritorno a tutta la frammentazione delle singole monete nazionali, sopratutto senza una organicità univoca dell'economia europea, conviene sia alla Cina che agli USA. L'Europa, forse tranne la Germania, che sarebbe però fortemente indebolita, diventerebbe un conveniente mercato da colonizzare, non solo in senso strettamente economico, ma anche politico. La difficoltà sarebbe riuscire ad assorbire un periodo dove il principale cliente di Pechino e Washington, non sarebbe più in grado di ricevere le merci, fatto parzialmente bilanciato dalla nuova condizione europea di non essere più un concorrente pericoloso. In questa fase la contrazione delle vendite potrebbe essere ulteriormente compensata indirizzando il flusso di vendita verso nuovi mercati in espansione e l'incremento verso la clientela dei maggiori paesi emergenti. L'Europa, divisa e con le monete locali tornate in auge, sarebbe costretta, specialmente nelle economie più deboli a fare ricorso a politiche inflattive per ricercare maggiore competitività per i propri prodotti, ma nel contempo sarebbe costretta ad un indebitamento incontrollato per l'approvigionamento delle materie prime, diventando cosi' preda di potenze dotate di maggiore liquidità. E' una prospettiva reale, che si può ostacolare soltanto con l'unità continentale di tipo politico, anche soluzioni più ristrette, mantenendo cioè una unione monetaria dei soli paesi con economie virtuose, come prospettato da alcune ipotesi, si arriverebbe soltanto ad un soggetto comunque più debole nell'agone internazionale, non in grado di avere il sufficiente peso politico per bilanciare il peso dei soggetti più grandi. Se tale ipotesi può sembrare fantapolitica, si pensi alla strategia cinese di riempire di immigrati con grandi disponibilità economiche, che quindi generano più di un sospetto sulla reale necessità di lasciare la loro terra di origine, i paesi occidentali. Tale metodo appare chiaramente guidato da una strategia politica alle spalle del fenomeno, che contempla una sorta di invasione dal basso nelle strutture produttive del paese oggetto dell'immigrazione. Queste avanguardie costituiscono l'inizio della colonizzazione sopratutto perchè rifiutano una integrazione con il tessuto sociale pre esistente, rinchiudendosi in comunità a se stanti, che finiscono per fornire argomenti ad i gruppi e partiti localistici, che tanto premono su queste tematiche. Ancora una volta l'antidoto è il rafforzamento dell'unione politica continentale, per rinforzare e rilanciare la moneta unica, unico baluardo sicuro contro le speculazioni economiche.
martedì 22 novembre 2011
Superare il G7
Il numero uno di Goldman Sachs, Jim O'Neil, prevede che entro il 2027 la Cina sarà l'economia numero uno del mondo e che il PIL di India e Brasile crescerà in maniera esponenziale. Da qui la necessità di una riforma del G7, che dovrebbe riunire le maggiori economie mondiali per dare gli indirizzi dello sviluppo. Il funzionamento del G7 è infatti sostanzialmente fermo, se non per pochi aggiustamenti, alla sua fondazione avvenuta nel 1975. Da allora troppo è cambiato sia sul piano economico, che politico ed il mondo è totalmente diverso, grazie ai grandi mutamenti che hanno ridisegnato lo scenario internazionale. Non ha più senso tenere fuori dal ristretto gruppo che dovrebbe guidare l'economia mondiale sistemi economici come la Cina, il Brasile, l'India e la Russia, che costituiscono i principali motori dell'economia della terra. Secondo O'Neil la partecipazione al G7 di ben tre paesi che fanno parte dell'area euro: Germania, Francia ed Italia non ha alcun senso, sopratutto se si pensa alla forza economica non solo dell'Italia, ma anche della Francia, viceversa, una unificazione effettiva delle economie mediante riforme del governo dell'euro, sarebbe preferibile perchè porterebbe un solo socio nel G7, ma con una forza maggiore. Una partecipazione più fattiva delle nuove potenze al governo dell'economia dovrebbe essere ormai un fatto assodato, che nessun G20 mitiga, perchè troppo ampio. Viceversa un consesso più ristretto potrebbe prendere delle decisioni più appropriate, nell'ottica effettiva della potenza economica. Certo sarebbe una perdita di potenza per l'occidente ridotto, nella migliore delle ipotesi alla presenza di USA, Gran Bretagna, Giappone ed Europa (area Euro), con l'eliminazione anche del Canada perchè troppo piccolo come economia. Forse quello da riformare è proprio il pensiero della logica economica nella visione complessiva che non deve più privilegiare uno scenario che favorisce, in ambito decisionale, le economie più ricche. Però non visto da occidente questo teorema sembra volere ribadire la supremazia delle economie più ricche di più antico lignaggio, penalizzando le economie emergenti, che però sono quelle che stanno diventando prevalenti. La necessità è di riequilibrare anche in altri ambiti, quello che rappresenta la normativazzione che si cerca di dare al mercato, anche in altri ambiti, come quello sovranazionale: si pensi alla costituzione che regola il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ancora fermo al periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra: l'apertura a maggiori soggetti potrebbe favorire una maggiore integrazione, necessaria a compensare la sempre crescente globalizzazione. Tuttavia anche prendere in esame la creazione di organismi ex novo, sopratutto per l'economia, potrebbe rappresentare una soluzione per ricercare nuove forme di governo dell'economia mondiale potrebbe essere una soluzione da percorrere. Considerando questa possibilità, ma non solo, l'apporto dell'occidente dovrebbe essere di natura maggiormente normativa, per fare sviluppare quelle legislazioni necessarie per garantire una concorrenza equa attraverso la tutela del lavoro estesa a tutte le economie, almeno quelle più rilevanti, con una maggiore permeabilità in quei sistemi economici più restii a garantire le sicurezze di base al mondo del lavoro. Si tratta di una sfida epocale per riformare in senso più ampio tutta l'economia del pianeta verso una maggiore equità, che possa garantire un pieno accesso alle opportunità per tutti i lavoratori del sistema terra.
Sulla cattura del figli di Gheddafi possibili contrasti tra CNT e Corte dell'Aja
Con la cattura di Saif al Islam, l'unico figlio di Gheddafi rimasto sul suolo libico ed il capo dei servizi segreti, Abdala Senussia, il CNT dovrebbe avere eliminato, almeno dal territorio nazionale, le potenziali minacce costituite dalla presenza di esponenti del vecchio regime. Il problema che si pone ora per la comunità internazionale è come si comporterà la giustizia libica nei confronti dei due esponenti del clan Gheddafi; l'esecuzione sommaria del dittatore libico è ancora impressa per la ferocia dei modi ed i sospetti che l'hanno accompagnata e per come sia avvenuta nonostante il mandato di cattura della Corte penale internazionale dell'Aja. Analogo mandato era stato spiccato contro i due esponenti appena catturati per crimini contro l'umanità. L'intenzione della Corte con sede in Olanda sarebbe quella di processare in ambito internazionale sopratutto il figlio di Gheddafi, che era destinato alla sua successione e si ritiene condividesse con il padre diversi segreti inerenti allo stato libico, tuttavia il vice presidente del CNT Abdelhafiz Ghogaha già annunciato che i due saranno giudicati da un tribunale del nuovo stato. Le ragioni di questa decisione sono duplici, da un lato il bisogno di cancellare la vergogna dell'uccisione di Gheddafi ed accreditarsi come stato di diritto pienamente operante e capace di garantire le condizioni per un giusto processo, dall'altro lato, però, potrebbe esserci l'interesse di scavalcare la Corte dell'Aja e quindi l'opinione pubblica internazionale, per impedire la divulgazione di segreti scomodi per le potenze alleate al CNT. Su questo tema si è discusso parecchio e per gli aspetti della repentina morte di Gheddafi, avvenuta in maniera alquanto sospetta, si riversano anche i timori per una possibile fine del figlio. Nonostante questa volontà del CNT di effettuare il processo in Libia, il nuovo governo deve comunque collaborare con la Corte dell'Aja per dimostrare almeno le proprie buone intenzioni in campo giuridico sul piano internazionale, anche perchè il governo libico non ha esercitato il proprio diritto di contestare la competenza della Corte internazionale, in quanto i capi d'accusa contestati agli imputati sono i medesimi. Quello che appare è un CNT ancora poco abituato a rapportarsi con le organizzazioni internazionali, in bilico tra il desiderio di regolare entro i propri confini le questioni con il passato regime e nello stesso tempo di apparire affidabile sul piano internazionale. La questione è fondamentale per l'immagine del regime che si rifletterà sul piano internazionale, una esecuzione sommaria non sarà tollerata dalla comunità internazionale, ed è ormai fuori dalle opzioni disponibili per il nuovo governo libico, che, anzi, dovrà prepararsi ad per effettuare un processo con tutte le garanzie, anche se probabilmente in contrasto con la Corte dell'Aja.
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