L'incontro a Nuova Delhi dei paesi emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, definiti comunemente BRICS, può portare delle conseguenze importanti sul piano internazionale dal punto di vista degli equilibri geopolitici ed economici. Le cinque nazioni costituiscono la metà della popolazione mondiale ed un quinto della produzione del pianeta, sono quindi un soggetto potenzialmente molto influente e potente, che può prendere decisioni capaci di influenzare l'intero sistema sia diplomatico che finanziario mondiale. Il vertice ha evidenziato la comune necessità di riformare le Nazioni Unite nel suo organo più importante, il Consiglio di Sicurezza, regolato da un sistema elaborato alla fine del secondo dopo guerra ed ormai troppo rigido per affrontare le continue situazioni emergenti e non più rappresentativo nella sua parte fissa degli attuali equilibri mondiali. Il problema, già sollevato dalla Germania, è molto sentito da India e Brasile che ambiscono ad un seggio permanente, proprio in rappresentanza dei paesi emergenti. Per la verità già due dei BRICS, Cina e Russia, sono già membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma l'accresciuta importanza mondiale dei paesi emergenti può rendere legittima l'aspirazione di Brasilia e Nuova Delhi. Un'altra questione molto sentita dai cinque paesi, riguarda la lentezza della riforma del Fondo Monetario Internazionale, che va ad investire il metodo, ritenuto poco trasparente dell'elezione del Presidente e, sopratutto, lo scarso peso dei paesi emergenti, che lamentano una scarsa diffusione dei diritti di voto a loro assegnati. In realtà la riforma è già stata elaborata, ma è rallentata la sua ratifica dagli USA, fatto che viene percepito come timore di Washington di perdere influenza sull'organizzazione.
In realtà quello che preme a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è evitare l'eccesso di liquidità per riparare le loro economie dal processo inflattivo, vero freno della crescita. Sul piano diplomatico i cinque paesi hanno sposato una politica del dialogo, che eviti conflitti armati, anche sotto la bandiera dell'ONU, in questo, perfettamente allineati con Cina e Russia, che fanno della non interferenza armata negli affari interni di altri stati un caposaldo della loro politica estera. Questa posizione è diametralmente opposta a quella americana, che è più volte ricorsa all'intervento armato, come nei casi di Iraq ed Afghanistan, e nel caso siriano anche a quella della Lega Araba, fautrice di un intervento a favore della ribellione contro Assad. Anche sulle sanzioni all'Iran, per la questione nucleare, non vi è identità di vedute con Washington, fatto oltre politico anche di convenienza economica, dato che Cina ed India rappresentano due principali importatori del petrolio di Teheran. Ma oltre le valutazioni contingenti quello che è più interessante rilevare è che si sta delineando all'orizzonte, non la nascita perchè quella vi è già stata, ma la consapevolezza della forza di un nuovo soggetto sovranazionale, unito non da vincoli di territorio o di politica, al suo interno vi sono democrazie e dittature, ma da legami di natura economica, da cui discendono le mosse sia diplomatiche, che, eventualmente, militari, pur se non espressamente dichiarate. L'obiettivo è quello di scardinare la potenza egemonica, sopratutto in campo finanziario, non quello operativo, bensì in quello della costruzione delle regole, di USA ed Europa. La pretesa di, almeno, affiancarsi nella stanza dei bottoni non pare illegittima, il peso produttivo e la stessa capacità finanziaria dei cinque paesi giustifica un loro maggiore coinvolgimento nella elaborazione di provvedimenti che per ora ricevono già confezionati. La volontà di proseguire sulla strada di un unione che avvantaggi i cinque membri alla rincorsa di USA ed Europa, va così a costituire un elemento di novità sul mercato mondiale, che andrà a contrastare le politiche occidentali; tuttavia pare anche difficile che paesi come Cina ed India, che sono concorrenti spietati, riescano a portare avanti una politica comune in armonia, che non intralci, cioè, i loro singoli programmi. Sta di fatto che la sfida è formalmente lanciata: un nuovo attore farà sentire il suo peso nell'agone mondiale.
Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 29 marzo 2012
mercoledì 28 marzo 2012
Le implicazioni della missione di Kofi Annan per la Siria
Mentre la Siria afferma di accettare il piano di Kofi Annan, che comprende un pacchetto in sei punti per le esigenze più immediate della popolazione, come un cessate il fuoco per permettere aiuti sanitari ed alimentari, allo stesso tempo respinge ogni iniziativa proposta dalla Lega Araba, in ragione della sospensione avvenuta in modo unilaterale di Damasco da questo organismo. La reazione siriana, invero scontata, rischia di aprire nuovi motivi di contrasto in un organismo già lacerato da profonde differenze. Va ricordato che la sospensione della Siria è avvenuta per il rifiuto di quest'ultima di di applicare, come promesso, un piano arabo per porre fine alla crisi. Questo contrasto rischia di diventare un punto forte della politica estera iraniana, ormai l'ultimo alleato di Assad. Un primo risultato è la partecipazione a Teheran dell'ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per un incontro con il governo iraniano sulla questione siriana. La necessità di Annan di incontrare i vertici dell'Iran, testimonia l'importanza della Repubblica Islamica, direttamente coinvolta nella questione e ridà visibilità ad una diplomazia appannata. L'occasione si presta, però, ad essere anche una cassa di risonanza dei soliti proclami iraniani contro gli USA, l'Europa e le monarchie arabe del Golfo, colpevoli di alimentare la rivolta contro Damasco e di praticare una politica anti iraniana. Alla base del viaggio dell'ex segretario dell'ONU vi è lo strappo sostanziale per le enormi differenze di vedute tra Iran e Turchia, che sulla Siria si trovano ormai su posizioni opposte; tuttavia è difficile che si riesca a colmare le differenze e fare rientrare in gioco la Lega Araba, proprio bloccata da questi contrasti, come organismo univoco. Per il momento tutti sembrano attendere l'esito della missione di Annan, che per altro ha già dato buoni risultati in Cina, ed ha aperto possibilità sulla variazione dell'atteggiamento russo. In questa fase anche gli USA e l'Europa stanno alla finestra, attendendo gli eventi. Devono restare in attesa, quindi, anche le monarchie del Golfo, prima fra tutte l'Arabia Saudita, che deve frenare la sua volontà di armare i ribelli siriani. Ma l'ipotesi non è scartata. Questa fase attendista da modo a tutti i contendenti di ripensare le proprie strategie ed una delle ragioni che hanno permesso che il piano di Annan venisse accettato, si sospetta che sia proprio l'esigenza di Assad di riorganizzarsi in vista del possibile annientamento della ribellione. Il Presidente siriano, d'altro canto, non ha soluzioni alternative, la sua permanenza al potere è possibile soltanto cancellando l'opposizione presente sul territorio e questa tregua conviene più a lui che ad altri proprio per elaborare una strategia definitiva. Se le esigenze geopolitiche Russe continueranno a considerare Damasco uno dei propri cardini strategici, per Assad potrebbero esserci ancora delle possibilità di rimanere al comando della Siria, viceversa, anche in ragione del mutato atteggiamento cinese, la sola alleanza con l'Iran non basterebbe a mantenerlo al potere. Quindi, se nell'immediato la missione di Annan, può portare benefici alla popolazione, in un'ottica di più lungo periodo, rischia di agevolare Assad, lasciando le ambizioni del popolo siriano di diventare una democrazia una vana speranza. Ma questo è il massimo che è riuscito a fare l'ONU bloccato dai veti incrociati nel Consiglio permanente, una prova in più della necessità più che urgente di una sua riforma.
La Tunisia non metterà la Sharia nella Costituzione
La Tunisia fa ancora da battistrada al mondo arabo. Dopo che la sua rivoluzione inaugurò la primavera araba, ora lo stato tunisino si sforza di presentarsi al mondo intero come laico, omettendo dalla nascente costituzione la tanto temuta citazione della Sharia. Tuttavia nel paese esistono profondi contrasti circa l'argomento, la crescente visibilità dei salafiti, minoranza religiosa che appoggia il governo, ha portato a crescenti differenze di vedute con i modernisti, che spingono per uno stato più laico, capace di affrontare i reali problemi del paese. In realtà il problema della Sharia è ritenuta da molta parte dell'opinione pubblica una falsa questione, giacchè la Tunisia già nell'articolo uno della Costituzione afferma che la religione dello stato è l'Islam. Quella della Sharia sarebbe una argomentazione per nascondere alla società civile le difficoltà dell'economia e la sempre più crescente disoccupazione. Ciò non è del tutto vero giacchè il programma di crescita economica del paese, che prevede un balzo del 4% ritenuto dai più troppo ottimistico, si basa maggiormente sul turismo. Diventa così essenziale arginare gli eccessi dei comportamenti da parte degli estremisti religiosi in nome di un pragmatismo sia politico, in grado cioè di presentare un paese moderno e non arroccato su posizioni troppo fondamentaliste, sia economico, per non deprimere il settore considerato trainante per l'economia, bollando come sconvenienti comportamenti, ormai quasi universalmente accettati, in special modo in paesi votati al turismo. Resta il fatto che, contrariamente ad altri paesi attraversati dalla primavera araba, la Commissione costituente ha respinto, con 59 voti contro 12, l'espressa citazione della Sharia nella legge fondamentale del paese, questo fatto, al di la di ogni considerazione di carattere accessorio, rappresenta un indubbio fattore di modernismo perchè indirizza il paese verso una democrazia di tipo laico, non contaminata da elementi estremistici fino da quella legge a cui dovranno conformarsi tutte le altre disposizioni legali elaborate dal parlamento. Si tratta, appunto, di una posizione che se farà scuola nel mondo arabo, permetterà una migliore convivenza con l'occidente, pur nel rispetto della diversa fede religiosa e consentirà ai propri cittadini una vita meno condizionata dal fattore religioso estremista. Per i paesi del Mediterraneo, sopratutto quelli europei della sponda settentrionale, si tratta di avere come interlocutore un paese che cerca di porsi non come stato teocratico ma come interlocutore laico. Questo aspetto non era scontato, ed anzi dopo i risultati elettorali che davano la vittoria ai partiti islamici moderati, vi era qualche apprensione nelle cancellerie europee, che temevano di avere come dirimpettaio un novello stato degli Imam. Le implicazioni, che potranno derivare dalla votazione della Commissione costituente Tunisina, sugli altri stati della primavera araba sono difficili da prevedere, le altre nazioni che si sono sollevate nello scorso anno sono maggiormente condizionate da formazioni islamiche a tendenza non moderata, tuttavia sullo slancio di quanto avvenuto a Tunisi non è escluso che il fatto dia un impulso maggiore alle formazioni laiche presenti nei vari paesi coinvolti nella trasformazione della forma di stato, verso una organizzazione maggiormente sganciata da vincoli religiosi.
Tra Sudan e Sud Sudan ritorna la tensione
Riprendono le tensioni tra Sudan e Sud Sudan, dopo che quest'ultimo si è staccato dal primo con un referendum popolare che ha indicato la scissione territoriale con il 99% dei consensi. La consultazione pubblica ha seguito un a guerra sanguinosa, durata oltre 50 anni, combattuta proprio con lo scopo della costruzione della nuova nazione. Nel Sud Sudan, vi sono i maggiori giacimenti petroliferi dell'intero Sudan, anche se, poi, il nuovo paese ha bisogno del vecchio per il trasporto del greggio attraverso gli oleodotti che passano sul territorio di Khartum. E' su questo sfondo che si sono verificati gli scontri tra le truppe dei due paesi, avvenuti sulla linea di confine per due giorni consecutivi e causati da un bombardamento, denunciato dall'autorità sud sudanesi, di una installazione per l'estrazione del greggio. Il problema del petrolio è comunque soltanto un aspetto della diatriba, vi sono anche circa 1.800 chilometri di frontiera contestati e la differenza religiosa, che costituisce sempre più fonte di contrasto, tra il Sud Sudan, musulmano ed il Sudan, cristiano. Malgrado la tensione in atto, fonti vicine al governo di Khartum tendono a minimizzare l'accaduto e smentiscono la ripresa di una guerra su vasta scala. Intanto, però, è stata annullata la programmata visita del Presidente sudanese Omar Hassan al Bashir, al suo omologo del Sud Sudan, Salva Kiir. La visita doveva portare nuovi elementi di distensione tra i due paesi ed è stata cancellata per la mancanza di presupposti e per il clima che si è venuto a creare dopo gli scontri. Apprensione è stata espressa dal Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), per la presenza di campi profughi, che ospitano circa 16.000 sfollati, proprio nelle zone dove sono avvenuti gli scontri militari.
martedì 27 marzo 2012
Mentre la Lega Araba si riunisce per la Siria, Cina e Russia cominciano a prendere le distanze da Assad
Era dall'invasione del Kuwait, che l'Iraq subiva l'ostracismo del mondo arabo, proseguito poi con l'invasione americana. Dopo il ritiro delle truppe USA l'ex paese di Saddam Hussein prova a riconquistare una posizione di prestigio ospitando il summit della Lega Araba. Si tratta di un incontro cruciale perchè tratterà il tema della questione siriana e la ristrutturazione della Lega Araba stessa, per dotarla di un sistema decisionale più efficace, capace di accrescerne il peso politico nel teatro delle relazioni internazionali. Per l'Iraq è l'occasione di accreditarsi di fronte agli altri paesi della Lega, come protagonista della vita diplomatica dopo anni di tutela americana. Tuttavia la sensazione maggiore è che da questo vertice non si otterranno risultati capaci di fermare il massacro siriano, i partecipanti arrivano molto divisi, immagine fedele della grande frammentazione che attraversa il mondo arabo, e già avvicinare le posizioni potrebbe essere considerato un risultato apprezzabile. In particolare sulla Siria esistono due tendenze di fondo, tra loro molto contrastanti, quella che preme per armare i ribelli, rappresentata da Arabia Saudita e Qatar, in modo da ottenere la caduta del regime di Assad, posizione non del tutto disinteressata, perchè mira a fare uscire la Siria dall'orbita iraniana, e quella che preme per un impiego ancora più massiccio della diplomazia. In ogni caso qualsiasi decisione sarà presa dalla Lega Araba, per il caso siriano occorre valutare anche altri elementi, rappresentati dalle altre diplomazie al lavoro sulla questione. La missione di Kofi Annan mira a conciliare la posizione più dura di USA ed Europa con quelle più morbide di Cina e Russia, che rifiutano un intervento militare straniero, anche sotto la bandiera dell'ONU, diretto. Ma la situazione, notevolmente aggravata dall'emergenza umanitaria a causa degli oltre 9.100 morti, ha ammorbidito l'atteggiamento delle due potenze, che starebbero premendo, secondo quello previsto dalla soluzione di Kofi Annan, per un corridoio umanitario in grado di portare aiuti alla popolazione di tipo medico ed alimentare, la fine dei bombardamenti delle forze regolari ed il rilascio dei detenuti rinchiusi in modo arbitrario. Se, da parte di Damasco, paiono esserci aperture, occorre ricordare che in più di una occasione Assad si è rivelato inaffidabile, dimostrandosi disponibile, soltanto con lo scopo di guadagnare tempo. Ma la pressione sia cinese che russa, questa volta potrebbe ottenere almeno una prima soluzione di emergenza che riguardi un cessate il fuoco in grado di permettere l'assistenza medica necessaria. Se Assad venisse abbandonato, anche solo in forma ufficiosa, da Cina e Russia avrebbe soltanto l'Iran al proprio fianco e la possibilità di caduta del regime sarebbe praticamente certa, anche se con tempi tutti da verificare.
Corea del Nord: lo scomodo alleato per la Cina
L'atteggiamento Nord Coreano agita il mondo diplomatico ed in special modo il maggiore alleato di Pyongyang: Pechino. Dopo il cambio al vertice della Corea del Nord, quello che sembrava il nuovo corso, formalizzato con l'accettazione degli aiuti alimentari USA in cambio della stop al programma di armamento nucleare, è arrivata la delusione per la platea diplomatica. Il lancio di prova di un razzo partito dalla parte settentrionale della penisola coreana, ha riportato alla luce tutte le perplessità, dandone parziale conferma, che avevano accolto quello che sembrava un cambio di indirizzo nel regime. Il problema, sul piano diplomatico, riguarda in special modo Pechino, ormai unico alleato di Pyongyang, che si è fatta più volte garante per la Corea del Nord a causa delle necessità di presidiare con sicurezza la frontiera che divide i due paesi. Per la prima volta la Cina ha condannato pubblicamente la Corea del Nord, parlando di uno stato troppo isolato, che altera gli equilibri regionali con dimostrazioni di forza fine a se stesse. Più volte Pechino ha cercato di portare su di una strada che possa alleviare il profondo malessere, sopratutto economico, il paese, anche se con il duplice fine di trovare manodopera a buon mercato, ma l'atteggiamento del governo nord coreano è stato, come al solito altalenante, alternando propositi positivi ad azioni negative. Resta significativo che Pechino abbia espressamente imputato a Pyongyang lo spreco economico di un investimento considerevole per il lancio di un razzo di prova, quando la popolazione del paese vive alle soglie della denutrizione. Risulta comunque difficile stabilire la vera strategia nord coreana, che continua ad essere un paese fuori dal tempo, del quale paiono incomprensibili anche gli obiettivi. La stessa sopravvivenza dello stato, perdurando condizioni economiche così gravi, è messa in serio pericolo. Pechino ha dovuto intervenire perchè teme che possa partire una emigrazione umanitaria oltre i propri confini, dettata da una evidente carenza alimentare, ma anche perchè è stata pressata dagli USA. Alle due super potenze, in questa fase, non conviene un aggravamento della stabilità regionale che andrebbe a coinvolgere anche Corea del SUd e Giappone e proprio per questo Obama a rilevato al suo omologo cinese che l'approccio di Pechino con Pyongyang non funziona. Il rischio per la Corea del Nord è di essere abbandonata a se stessa per troppo poca affidabilità e senza gli aiuti cinesi, lo stato Nord Coreano va incontro alla dissoluzione. A questo punto ai aprirebbero due soluzioni o la continuità statale, con un cambio di regime, ma sempre sotto l'influenza cinese o l'unione con la Corea del Sud, in un unico paese. Per la Cina, quest'ultima soluzione, significherebbe perdere un valore di tipo geopolitico, ma analizzando costi e benefici, la perdita potrebbe essere superata dall'indebolimento economico della Corea del Sud, impegnata a sostenere i costi proibitivi della riunificazione. In ogni caso il fattore di destabilizzazione costituito attualmente da Pyongyang sarebbe del tutto azzerato. Ma se queste ipotesi non dovessero verificarsi, Pechino sarà comunque costretta ad agire su Pyongyang in modo di rendere la Corea del Nord un alleato più affidabile, attraverso, ad esempio, la conversione dell'economia di quello che attualmente è il paese più povero del sud est asiatico. La riduzione a più miti consigli di Pyongyang è necessaria anche per potere avere una maggiore libertà d'azione nei confronti delle pressanti richieste diplomatiche americane, che abbracciano un ventaglio molto ampio: dalla crisi iraniana a quella siriana fino ai rapporti con Pachistan ed India. Ma forse anche su questi fattori conta il regime nord coreano per influenzare Pechino con la sua politica imprevedibile.
lunedì 26 marzo 2012
Cresce la percentuale di israeliani favorevole all'intervento contro l'Iran
Lo scorso anno il quotidiano israeliano Haaretz lanciò un sondaggio avente per tema se si era d'accordo ad attaccare da parte di Tel Aviv, Teheran a causa della volontà iraniana di dotarsi di una bomba atomica. Le risposte positive furono il 50%. Trascorsi 365 giorni la percentuale di favorevoli è salita al 75%. E' un dato preoccupante, che potrebbe spingere il governo in carica a sentirsi legittimato a dare il via alle operazioni militari più volte minacciate. La campagna del governo israeliano condotta in tutte le sedi diplomatiche possibili, è solo una causa dell'aumento della percentuale favorevole all'attacco preventivo. Nella società israeliana si sta facendo strada un senso di isolamento, dovuto proprio all'atteggiamento miope del governo, che continua a gestire in modo illogico la questione palestinese e riceve continue condanne del panorama internazionale. Le due cose, infatti pur parendo slegate, sono, per certi versi complementari. Aumentando il senso di inimicizia che Israele percepisce, teme sempre di più di diventare ostaggio di un paese relativamente vicino, comunque a portata della gittata dei propri missili, senza avere più la cintura di sicurezza convinta dei paesi europei, degli USA e dell'ONU. La cattiva gestione della questione palestinese ha avuto ripercussioni evidenti, sopratutto nelle sedi degli organismi sovranazionali, dove Tel Aviv ha dovuto subire cocenti sconfitte; inoltre l'affermazione delle varie primavere arabe, specialmente quella egiziana, particolarmente temuta da Israele, ha permesso la crescita di una maggiore ostilità verso il paese della stella di David, mitigato precedentemente dai vari dittatori al governo, per motivi di convenienza sia politica che economica. Anche il rapporto con gli USA di Obama, sebbene sul piano ufficiale sia formalmente sempre di stretta alleanza, sul piano ufficioso non è allo stesso livello con le amministrazioni repubblicane. Il presidente USA, infatti, pur frenato dalla ragion di stato, che gli impone di mantenere su di una linea di continuità il rapporto tra i due paesi, preferirebbe una evoluzione positiva della soluzione dei due stati indipendenti. Peraltro anche un recente sondaggio condotto su di un vasto campione di arabi di indirizzo islamico differente, cioè sia sciita che sunnita, non proprio due gruppi che si vedono di buon occhio, diceva di preferire, nei due sensi, gli antagonisti religiosi arabi agli israeliani. Se i due terzi degli abitanti di Israele, arrivano a dire che un attacco preventivo è meglio, perchè meno pericoloso in senso assoluto, che avere l'Iran con l'arma atomica in mano, significa che lo stato di paura in cui versa il popolo di Israele, sfiora l'isteria collettiva. In sostanza gli israeliani preferiscono sopportare gli effetti immediati di una guerra, dall'esito e dalla durata incerta, piuttosto che vivere sotto la minaccia di Teheran. Ciò deriva anche da una convinzione, tutta da dimostrare, del governo israeliano, di riuscire a cancellare la minaccia atomica di Teheran con una operazione bellica. Forse sarebbe ora che in Israele cominciassero a collaborare con i palestinesi per la costruzione del loro stato autonomo, senza più bloccare il processo, ormai inevitabile, con scuse sempre meno credibili e togliere così al mondo arabo un motivo di risentimento costante nel tempo e con sempre maggiori probabilità di diventare sempre più determinante nel giudizio sullo stato ebraico. Che poi Teheran non debba avere l'arma atomica, sono i primi gli USA e di seguito l'Europa, a non volerlo, per cui forse, sarebbe meglio che Israele lasciasse andare avanti la politica di pressione internazionale delle sanzioni, per il passo militare c'è ancora tempo.
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