Politica Internazionale

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martedì 11 dicembre 2012

La condizione femminile egiziana esempio di mancata democrazia

Uno dei problemi non abbastanza rilevati della questione sulla nuova costituzione egiziana è rappresentato dal problema femminile. Con la vittoria elettorale delle forze musulmane, le aspettative delle donne egiziane sono rimaste frustrate dalla direzione confessionale presa dalla politica egiziana. Pur non essendo ancora in vigore la carta fondamentale, che tanti scontri ha provocato, la condizione femminile in Egitto pare peggiorata rispetto alla dittatura di Mubarak, alle donne è stato, infatti, riservato un ruolo di subordinazione nella società, con limitazioni evidenti, che avranno carattere di legge una volta approvata la tanto contestata carta costituzionale. La presenza all'articolo due, della costituzione che si vuole approvare, di un chiaro riferimento alla legge coranica, la sharia, come base della legislazione, confina la donna a spazi ristretti, sia nella vita pubblica, che in quella familiare, limitandone di fatto la libertà. Il fenomeno è un indice chiaro del modo distorto in cui si è evoluta la protesta egiziana, che ha regalato, forse anche inconsapevolmente, il potere a gruppi di fondamentalisti, che rappresentano il dieci per cento del paese, malgrado abbiano raccolto nella consultazione elettorale la maggioranza. Ma per l'importanza e l'influenza del paese egiziano nella fascia costiera meridionale del Mediterraneo e nel mondo arabo in generale, il fenomeno rischia di diventare un pericoloso precedente, che, da un lato, potrebbe impedire l'evoluzione della condizione femminile e dall'altro creare fenomeni di emulazione in altri parlamenti. Vista da occidente la situazione diventa sempre più la conferma di quanto siano distante le valutazioni intorno alla democrazia, dei due punti di vista, talmente lontani da apparire inconciliabili. Quello che stanno esprimendo le primavere arabe, va sempre più spesso lontano dalla concezione di democrazia che si ha nella visione occidentale: il mancato rispetto dei diritti e della parità tra i sessi, rappresenta però l'esempio più eclatante. Il fatto che la condizione della donna sia addirittura peggiorata, non solo in Egitto, ma anche, per esempio in Iraq, inquadra bene il fatto che le democrazie islamiche non siano compiute e che non basta una vittoria elettorale per fare di un paese una democrazia. Non che non ci siano forme di opposizione a queste politiche discriminatorie, ma quello che è evidente è che l'indirizzo religioso avvalla questo comportamento; è questo, sostanzialmente, il punto di frattura che delegittima l'islam di matrice politica come forza democratica. Le promesse di islam moderato cadono quando si arriva alla questione della parità dei sessi, non superare questo scoglio significa aprire ad una serie di restrizioni ancora più ampie che rendono inconciliabile l'indirizzo confessionale con l'esercizio delle regole democratiche. In questo contesto il futuro della condizione femminile appare problematico e bene fanno coloro che si battono affinchè la costituzione egiziana non passi, del resto il comportamento del presidente Mursi è stato eloquente: la risoluzione dei conflitti con le opposizioni è passata attraverso un quasi colpo di stato. Un altro chiaro segnale della poca propensione alla democrazie dei partiti al governo in Egitto. Tutto ciò rende facile pronosticare una evoluzione difficile dei rapporti tra gli stati occidentali e gli stati arabi, sempre più divisi e distanti, non solo politicamente ma sopratutto culturalmente.

venerdì 7 dicembre 2012

Venti di guerra tra Cina ed India?

La difficile situazione che sta aumentando nel mare Cinese Meridionale tra Cina e Vietnam, rischia di degenerare pericolosamente per la possibile entrata sulla scena dell'India. Tra i due maggiori paesi emergenti i rapporti non sono buoni e la rivalità è cresciuta di pari passo con i rispettivi passi avanti nell'economia. La necessità di sempre maggiori quantitativi di materie prime ha aperto nuove occasioni di scontro, nel quadro di un allargamento di alleanze e sfere di influenza, che ha rotto equilibri ormai superati. La concorrenza tra le due potenze potrebbe essere un elemento determinante per delineare i nuovi scenari internazionali e gli equilibri che ne scaturiranno. Nel caso specifico tutto ruota attorno all'invito fatto da Pechino al Viet Nam di interrompere le perforazioni che hanno come scopo la ricerca di idrocarburi nel tratto di mare conteso. Intorno a questo episodio si sono verificati anche incidenti navali di piccola entità, che hanno visto coinvolte navi dei rispettivi paesi. I rapporti di forza tra Viet Nam e Cina sono nettamente a favore di Pechino, tuttavia esiste una joint venture tra la società indiana Oil and Natural Gas Corp ed Hanoi che potrebbe giustificare, nonostante l'India non abbia rivendicazioni territoriali nel Mare Cinese meridionale, un ingresso delle navi militari indiane a protezione delle imbarcazioni battenti la propria bandiera. La Oil and Natural Gas Corp è ritenuta dal governo indiano impresa di interesse nazionale e quindi soggetta a particolare protezione. Quello che si minaccia è un confronto di gran lunga ben più pericoloso delle dispute tra Cina e Giappone o tra Cina e Filippine, paesi comunque legati da strette collaborazioni economiche, che possono aprire con maggiore facilità canali di dialogo. Tra Cina ed India non vi sono rapporti che vadano aldilà della formalità diplomatica ed un eventuale confronto non avrebbe come uscita di sicurezza interessi comuni da tutelare. Inoltre il problema è aggravato a livello generale dalla disposizione emanata dal governo cinese, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2013, che prevede un allargamento della propria sovranità marina, forse anche in violazione della prassi del diritto internazionale, che prevede la confisca dei mezzi navali ed il conseguente arresto dell'equipaggio di quei natanti sorpresi entro i nuovi confini. Ciò implica che la Cina intende pattugliare questi tratti acquei con mezzi militari, alzando di molto le possibilità di scontri armati. Gli USA hanno chiesto chiarimenti su questa nuova legislazione ed sicuro che la questione sarà materia di scontro tra Washington e Pechino. A conferma dello stato di agitazione che si respira nella regione il Segretario dell'Associazione dei Paesi del Sudest asiatico, Surin Pitsuwan, ha affermato che la regione sta per diventare la Palestina asiatica, un termine di paragone che autorizza la massima preoccupazione nel mondo intero, è bene infatti ricordare, che per questi tratti di mare transita la maggior parte della produzione manifatturiera mondiale, ed un eventuale allungamento delle rotte marine avrebbe riflessi sicuramente pesanti sul rialzo dei prezzi.

giovedì 6 dicembre 2012

Gli interrogativi della situazione egiziana

Dietro il deteriorarsi della situazione egiziana si agitano spettri pericolosi. L'atteggiamento di Mursi, che non ha compreso le necessità globali del paese di dotarsi di forme democratiche più avanzate, restando fermo all'esclusiva situazione derivante dal voto, che ha regalato la maggioranza alla parte più confessionale e meno progressista della nazione, evidenzia in modo chiaro l'inadeguatezza della persona a ricoprire una carica così delicata. La netta divisione in cui è caduto il paese avrebbe dovuto imporre una maggiore cautela nell'uso di leggi speciali, che hanno richiamato i tempi di Mubarak. Se è, però, difficile credere ad una ingenuità non è difficile prefigurare un progetto portato avanti in maniera precipitosa. Le rassicurazioni di Mursi sia al paese, che alla comunità internazionale, di essere il rappresentante di un islam moderato, si sono rivelate false ed infondate, rendendo così illusoria la speranza di potere vedere una forma conciliante tra islam e democrazia, il requisito tanto atteso dall'occidente per potere instaurare un dialogo con i paesi a guida musulmana su di un piano nuovo. Resta il dubbio se Mursi, che all'inizio pareva effettivamente un moderato, sia stato travolto dalla crescente influenza dei salafiti e dei fratelli musulmani, che ambiscono a cancellare le opposizioni con l'instaurazione della sharia o ne sia stato complice fin dall'inizio. In ogni caso un paese fondamentale come l'Egitto, nel delicato scacchiere regionale, crea notevole apprensione in mano a forze che sfiorano l'estremismo islamico. In questa situazione la grave accusa proveniente dai Fratelli musulmani all'opposizione, che riguarderebbe un presunto coinvolgimento israeliano in un tentativo di rovesciare il presidente egiziano, non pare troppo peregrina: effettivamente Tel Aviv, ma non solo, avrebbe tutto l'interesse che a Il Cairo sedesse al potere un governo di orientamento laico, tuttavia l'accusa è tutta da dimostrare, anche se sia per Israele che per Washington, la piega che hanno preso gli eventi non può che essere vissuta con inquietudine per la stabilità regionale. Resta veramente difficoltoso prevedere il futuro del paese, dove, al momento, non si intravedono possibilità di dialogo, per una situazione di forte tensione sfociata in ripetuti scontri tra le opposte fazioni. Vi è però un attore che al momento è stato in disparte limitandosi al suo ruolo strettamente istituzionale: l'esercito. Le forze armate sono, infatti, la grande incognita della questione. Nonostante i cambi al vertice i sentimenti della maggior parte degli uomini in armi restano profondamente anti confessionali e non hanno gradito fin da subito l'ascesa al potere degli islamici. Per il momento hanno protetto Mursi schierando i carri armati davanti alla residenza del presidente, ma la sensazione è che l'apparato militare sia in attesa di una qualche possibilità per esercitare il ruolo di garanzia già ricoperto con il rovesciamento di Mubarak ed il conseguente vuoto di potere. Le forze armate sono l'unico attore sul palcoscenico in grado di rovesciare gli equilibri, hanno forti contatti con gli Stati Uniti e non gradiscono la svolta impressa al paese dai vincitori delle elezioni, se la situazione dovesse ulteriormente deteriorarsi, andando ad innescare un concreto pericolo per la stabilità dello stato, un loro intervento è tutt'altro che remoto. Non è un mistero che le forze laiche ed i copti preferirebbero una soluzione del genere alla promulgazione della costituzione voluta da Mursi, ma finchè la situazione non sarà maggiormente delineata, anche con un passo indietro del presidente, le forze armate staranno in attesa di ciò che segnalerà l'evoluzione della questione.

mercoledì 5 dicembre 2012

Xi Jinping affronta la politica estera

Xi Jinping, il nuovo segretario del Partito Comunista Cinese, ha effettuato il suo primo discorso di politica estera, dopo la nomina al vertice della principale organizzazione politica della Cina; l'occasione è stato un incontro con esperti, imprenditori e studiosi sia del paese, che provenienti dall'estero. Formalmente Xi Jinping, non è ancora entrato in carica, il suo insediamento avverrà nel prossimo mese di marzo, ma data l'importanza del suo ruolo, gli osservatori di politica internazionale attendevano con trepidazione le parole del nuovo leader della seconda potenza mondiale. Il discorso è rimasto nel solco della tradizione cinese, molto generale ed infarcito di buoni propositi, quasi ecumenico nei confronti del mondo intero, anche di quelle che potranno essere le nazioni avversarie. Partendo dal punto fermo che la Cina deve raggiungere i propri obiettivi, il nuovo segretario del Partito Comunista, ha affermato che ciò non dovrà essere a discapito di altri paesi e che, anzi, sarà necessaria una maggiore apertura della Cina verso il mondo esterno. La caratteristica fondamentale dovrà essere uno sviluppo pacifico, dove la competizione economica non dovrà generare sconfitti ma creare i presupposti affinchè, nello stato di economia globale e globalizzata, sia favorita la crescita generale. Queste intenzioni si possono facilmente comprendere con le esigenze cinesi di allargare i propri mercati, creando una fase espansiva che favorisca la crescita ulteriore del paese; è facile immaginare che per fare ciò la Cina dovrà mettere mano al portafoglio ed immettere massicce dosi di liquidità nel sistema, cosa, peraltro già iniziata prima dell'avvento del nuovo segretario. In questo campo, quindi, si annuncia una continuità con la politica precedente, contraddistinta, semmai, da una maggiore spinta agli investimenti verso l'estero. Quello che appare è una volontà di affermazione morbida, non contrassegnata da proclami che il panorama internazionale possa intendere in maniera troppo spinta. Tuttavia perchè ciò sia attendibile, il nuovo segretario dovrà operare anche sul fronte interno, favorendo quelle riforme sociali necessarie a ridurre le grosse iniquità presenti sul territorio cinese. A questo riguardo, nonostante le timide aperture in fase congressuale, i veri intendimenti di Xi Jinping non si sono ancora compresi a fondo. La necessità di una riforma che riguardi i diritti fondamentali e quelli legati al lavoro sono ben chiari alla nomenclatura cinese, che si trova però ad affrontare le resistenze delle parti più conservatrici del partito e, sopratutto, della periferia della nazione, dove il potere dei potentati locali, rappresenta ancora l'ostacolo maggiore alla diffusione della ricchezza, necessaria anche all'estensione del mercato interno, finora ancora poco sfruttato. Sui temi più specificatamente di politica estera, l'atteggiamento vago del nuovo segretario fornisce la sensazione che l'atteggiamento cinese del nuovo corso, non si discosterà troppo da quello precedente, la Cina, prediligendo l'aspetto commerciale ed economico, continuerà nella politica di non ingerenza assoluta negli affari interni degli altri paesi, tuttavia per Pechino è importante assumere una nuova dimensione sulla platea internazionale: in questo senso è possibile che la Cina tenda ad intraprendere una maggiore attività di mediazione nelle questioni internazionali, presentandosi come un partner al di sopra delle parti, nei conflitti e nelle questioni tra gli stati. In quest'ottica sarà fondamentale vedere come la Repubblica Comunista Cinese intenderà usare l'enorme potere del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU.

martedì 4 dicembre 2012

La NATO schiera i Patriot al confine tra Turchia e Siria

La pressione della Turchia sulla NATO, nonostante l'incontro con la Russia, ha dato il via libera da parte dell'Alleanza Atlantica alla dislocazione dei missili Patriot sul territorio di Ankara, per proteggere il paese da eventuali attacchi siriani. Il territorio turco era già stato colpito dall'artiglieria siriana in almeno due occasioni e la NATO si era riunita d'urgenza, come previsto dal protocollo in caso di aggressione di un proprio membro. La possibile evoluzione del conflitto siriano, che secondo fonti di intelligence, potrebbe vedere impiegate le tanto temute armi chimiche, da parte dell'esercito di Assad, ha costretto la NATO a compiere un passo praticamente obbligato, ma che è destinato a provocare delle reazioni nel mondo diplomatico. Infatti, nonostante le smentite del quartier generale di Bruxelles, che prevedono un impiego puramente difensivo dei missili Patriot, non è difficile prevedere che questa misura sarà interpretata come il primo passo per un intervento esterno nella guerra in corso in Siria. Le prime reazioni negative sono venute proprio da Mosca, che vede nel dispiegamento dei missili NATO, un elemento potenzialmente capace di generare ulteriore tensione in un'area già particolarmente provata, rischiando di innescare un conflitto anzichè evitarlo. Le ragioni della Russia sono comprensibili, se guardate alla luce degli interessi del Cremlino, ma allo stato delle cose, Mosca, all'interno delle grandi potenze, pare ormai essere rimasta sola ad opporre una resistenza più solida alle iniziative della NATO. In questa ottica il silenzio cinese pare abbastanza eloquente, il che non significa che Pechino potrebbe approvare un attacco della NATO, sopratutto in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, tuttavia sembra evidente che l'atteggiamento generale del panorama internazionale, con le ovvie eccezioni di alcuni paesi musulmani, primo fra tutti l'Iran, dovrebbe essere oramai orientato a dare una svolta decisiva ad un conflitto sempre più pericoloso in un'area fortemente instabile. Con questa lettura, che si fonda soltanto su di una interpretazione della successione dei fatti, l'esclusiva ragione difensiva dello schieramento dei Patriot è fortemente in discussione. Del resto vi è anche una serie di fatti che sembrano andare in questa direzione: la Turchia, prima di tutto, non gradisce una guerra ai suoi confini, per i problemi dei profughi e delle implicazioni della vicenda curda, fin dai primi momenti del conflitto l'atteggiamento turco è stato sfavorevole per Damasco, su queste perplessità si innesta la volontà americana di disinnescare la possibilità di un pericoloso allargamento del conflitto, che potrebbe riguardare Israele. Inoltre i regni sunniti del golfo Persico, che si sono impegnati da subito nel sostegno dei ribelli, premono per evitare che Teheran riesca ad aumentare la sua influenza nell'area. Vi è anche un'altro elemento che potrebbe avere accelerato lo schieramento dei missili sul suolo turco: malgrado la stasi sostanziale del conflitto, la forza dei ribelli pare attenuarsi negli ultimi giorni ed il pericolo di una ripresa delle forze governative è reale, ed è questo anche uno dei motivi che avrebbe indotto Assad ad usare l'arsenale chimico, per dare una soluzione a lui favorevole più veloce. Quindi per la NATO ci sarebbe il motivo per una rappresaglia ed un intervento diretto sul territorio siriano. Dal punto di vista strategico, quindi, i Patriot lanciati da basi contigue alla Siria, potrebbero ottenere un effetto maggiore e dare una svolta al conflitto. Resta da vedere quale sarà l'atteggiamento di Assad, che se ha già colpito la Turchia, apparentemente senza motivo, potrebbe reagire all'eventuale lancio di missili con una risposta particolarmente violenta. Questo elemento è quello che dovrebbe frenare maggiormente una azione preventiva con partenza dalla Turchia, ma la situazione è in continua evoluzione e non è da escludere che altri elementi di valutazione potranno aggiungersi alle decisioni prese sia sul campo che sul terreno diplomatico.

lunedì 3 dicembre 2012

Per Israele si profila una crisi diplomatica

La principale misura di ritorsione studiata dal governo israeliano, per il riconoscimento della Palestina, come stato osservatore all'ONU, rischia di provocare un incidente diplomatico senza precedenti. L'intenzione di Netanyahu è quella di dare il via alla costruzione di circa tremila case nel territorio della West Bank, in piena Cisgiordania; ma fin qui niente di nuovo, non è la prima volta che Tel Aviv infrange la legge internazionale, grazie all'uso della forza ed al silenzio degli stati occidentali, USA in testa. La differenza, sostanziale, è che i nuovi insediamenti andrebbero ad interrompere la continuità territoriale del futuro stato palestinese, essendo costruiti nella zona denominata E1. Israele non ha mai osato tanto per l'esplicito divieto degli Stati Uniti, ma il tanto temuto riconoscimento palestinese all'ONU pare avere fatto saltare ogni prudenza e cautela all'amministrazione di Tel Aviv. La mossa, oltre che oltremodo avventata, rischia di innescare una serie di situazioni che questa volta porrebbero Israele in un isolamento ancora più forte. Probabilmente Tel Aviv contava sul fatto che la divisione politica tra Hamas ed ANP, ottenuta con la pace dopo i bombardamenti di Gaza, fosse sufficiente per mettere in atto qualsiasi decisione con la solita impunità; ma questa volta ad essere colpita, oltre i palestinesi, è il potere di esercitare la propria sovranità delle nazioni occidentali, sanzionate con un atto che mette in pericolo ogni futuro processo di pace in medio oriente. Se Madrid ha espresso il proprio "disgusto" per l'operazione ed ha convocato l'ambasciatore israeliano, il Regno Unito e la Francia potrebbero ritirare i propri ambasciatori da Tel Aviv, peraltro già richiamati in patria per consultazioni ufficiali sull'argomento. Anche Stoccolma ha convocato il rappresentante diplomatico di Israele, mentre la Germania ha reso pubblica la propria preoccupazione per la decisione di Netanyahu. ul territorio israeliano, tuttavia, credono remote le possibilità di un ritiro definitivo degli ambasciatori dei paesi occidentali, forse perchè increduli ad una variazione così drastica di un comportamento che gli ha garantito, fino ad ora, una libertà di azione senza sanzione alcuna. Perfino Washington, che non ha, per ora, fatto nessun passo ufficiale, ha manifestato la sua opposizione al piano israeliano, pare con enfasi differente rispetto al passato. Se Israele voleva manifestare il proprio dissenso sulla decisione dell'ONU, con un atto particolarmente forte, vi è senz'altro riuscita, il problema ora è cosa seguirà. Netanyahu non vuole apparire debole di fronte al mondo e, sopratutto, di fronte agli elettori con l'imminente votazione in arrivo; in questo momento più della platea internazionale il capo del governo di Tel Aviv pare preoccuparsi della platea interna, tuttavia questo equilibrio alterato può portare il paese in una difficile situazione diplomatica. Nonostante il problema della sicurezza, che peraltro con questo progetto viene notevolmente messa in discussione, alla sensibilità dei cittadini israeliani non può sfuggire che una pessima politica estera, sopratutto per un paese atipico come Israele, è un biglietto da visita non propriamente positivo all'interno della cabina elettorale. Netanyahu pare non capire che il voto favorevole alla Palestina, non inficia il rapporto che gli stati occidentali intendono mantenere con Israele, ed anzichè provare a capire le ragioni di questa scelta, opta per una risposta dura aldilà di ogni ragionevolezza. Ma la natura dello stato israeliano non può prescindere dal rapporto con gli stati occidentali ed europei in particolare; se questi hanno una visione differente da quella del capo del governo di Tel Aviv e, magari, forse, pensano, che l'ingresso della Palestina alle Nazioni Unite, possa essere un elemento che potrebbe favorire il processo di pace, Israele ha, prima di tutto, il dovere di rispettare tale scelta, e poi di cercare di comprenderne le ragioni, anzichè attaccare a testa bassa. Uno stato israeliano senza gli ambasciatori dei principali paesi europei, sembrerà una nazione decapitata dei rapporti più funzionali alla sua stessa sopravvivenza, dove il passo immediatemente successivo potrebbe essere quello delle sanzioni. A quel punto Tel Aviv potrebbe andare sullo stesso piano di Teheran, la capitale di uno stato pericoloso per la pace del mondo.

Tra Russia e Turchia un vertice per la Siria

Sul vertice tra la Russia e la Turchia si fonda ancora qualche labile speranza di trovare una qualche soluzione per la crisi siriana. I due paesi sono su fronti opposti, rispetto ai contendenti: la Turchia appoggia le forze ribelli ed è stata più volte vicina ad intraprendere azioni militari contro Damasco a seguito dei bombardamenti, effettuati per errore secondo le forze di Assad, di cui è stato fatto oggetto il suo territorio. La Russia è l'unico alleato occidentale che resta legato alla Siria, una alleanza fondamentale perchè dispone del diritto di voto all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che gli permette di bloccare qualsiasi iniziativa presa in nome delle Nazioni Unite. L'interesse russo è dato dalla concessione siriana alla marina ex sovietica dell'uso dell'unica base navale di cui la flotta di Mosca dispone nel Mediterraneo, concessione difficilmente ripetibile con un nuovo governo al posto di quello di Assad. Ma tra Ankara e Mosca vi sono state anche recentemente frizioni diplomatiche di non poco conto in ragione dell'intercettazione, da parte della forza aerea militare turca, di un aereo siriano partito dal territorio russo, sospettato di trasportare materiale militare di provenienza proprio russa e destinato a rinforzare le truppe leali al dittatore Assad. Malgrado la smentita del Cremlino, che asseriva che il materiale in questione fosse costituito da apparecchiature radar non vietate dalle convenzioni internazionali in vigore, la tensione tra i due paesi è aumentata. Proprio questo stato di precarietà nelle relazioni tra i due paesi, paradossalmente, se sostenuto da una reciproca volontà di miglioramento può costituire una base di partenza per un conseguente sbocco positivo della guerra civile siriana. D'altro canto pare ormai assodato che lo stallo della situazione non possa risolversi attraverso la contesa militare a favore di uno dei due contendenti; con la possibilità di intervento esterno praticamente inesistente i ribelli non hanno la forza sufficiente per sconfiggere le forze armate ufficiali, che, tuttavia, stanno patendo il logoramento del conflitto e la sempre maggiore distanza dalla popolazione, pagata con le ripetute diserzioni. Il fatto, quindi, che due potenze così distanti, accettino di incontrarsi può essere letto come argomento incoraggiante, almeno come partenza per un maggiore coinvolgimento di altri attori, indispensabili ad entrare in scena per la soluzione diplomatica, che sebbene appaia tutt'altro che rapida, rappresenta al momento l'unica via di uscita. Uno dei timori russi è che la Turchia riesca a coinvolgere l'Alleanza Atlantica nella vicenda siriana, sbilanciando l'equilibrio precario tra le fazioni in lotta, creatosi con le armi. Gli argomenti di Mosca sono il possibile allargamento del conflitto in una escalation che potrebbe coinvolgere tutta la regione del medio oriente, già in pericoloso subbuglio, sia per la questione libanese, che per quella palestinese, con Israele sempre in stato di perenne allarme. In effetti tale pericolo è una possibilità concreta, tenendo conto anche dell'atteggiamento iraniano, sempre provocatorio e pronto a sfruttare ogni minima occasione per avvantaggiarsi delle situazioni contingenti. Ma saranno anche altre le questioni sul tavolo: il problema della striscia di Gaza, che può essere inquadrato in una visione più ampia del problema mediorientale, di cui la Siria costituisce comunque l'argomento centrale, ed anche le questioni relative al necessario sviluppo della cooperazione internazionale, fattore sempre più determinante a cui ricorrere per la risoluzione delle crisi, da quelle regionali a quelle su scala più ampia. Nonostante le divergenze politiche i due stati hanno comunque mantenuto una intensa e fitta rete di rapporti commerciali, che le divergenze internazionali non hanno intaccato: si tratta della cooperazione nei settori dell'energia e del commercio, che ha permesso di di tenere sempre vicini i governi dei due paesi, che ora dovrebbero sviluppare nuovi accordi nei settori della finanza e del credito bancario.