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mercoledì 13 febbraio 2013

Per l'Africa le attenzioni dell'Iran

L'Africa diventa sempre più centrale nelle strategie delle potenze legate al radicalismo islamico. L'Iran e lo Yemen, avrebbero, secondo gli osservatori delle Nazioni Unite, fornito armi alla milizia islamica Al Shabab, presente in Somalia e nemica del governo in carica. D'altro canto Teheran ha però finanziato per ben 43 milioni di dollari il paese africano, da destinare alla lotta alla fame. Va specificato che il rifornimento delle armi è avvenuto in violazione dell'embargo di cui la Somalia è destinataria e che ha suscitato più di una protesta proveniente dagli ambienti governativi, che non possono rifornirsi di materiale adeguato per combattere proprio le milizie islamiche. Alla luce di questi sviluppi l'Iran ha assunto, quindi, una condotta non univoca con il potere legittimo somalo, perseguendo una doppia strada che significa soltanto la ricerca assoluta del mantenimento dell'influenza sull nazione, qualunque sia, alla fine, la parte prevalente. Per Teheran l'influenza sulla Somalia, potrebbe rientrare in un quadro più ampio di controllo sia della costa del paese, importante via di transito marittimo commerciale, che come porta di ingresso verso il canale di Suez. Del resto esiste un rapporto delle Nazioni Unite fin dal 2006, che denuncia l'appoggio militare iraniano ai movimenti islamisti da cui è scaturito Al Shabab. Il rovesciamento delle fortune militari di Al Shabab, ad opera del Kenya, che non gradisce lo sconfinamento nel suo territorio delle milizie islamiche e per la reazione del governo di Mogadiscio, anche per proteggere l'attività delle Organizzazioni internazionali contro le carestie, ostacolate dai radicali islamici, hanno obbligato l'Iran ad un comportamento più duttile per essere accettato dal governo somalo. Ma le attenzioni del regime degli ayatollah per il continente africano è più esteso che alla sola Somalia. Sono, infatti, altri tre i paesi dove sono state inaugurate sedi diplomatiche iraniane: Gibuti, dove esiste una grande concentrazione di militari USA per la presenza del comando americano per l'Africa, il Sud Sudan, la nazione più giovane del mondo, nata dalla scissione con il Sudan, a maggioranza cristiana e ricca di giacimenti petroliferi ed il Camerun. Teheran, oltre a perseguire una politica che favorisca la parte islamica scita, spesso coincidente con i movimenti più estremi e violenti, sta attuando, di pari passo, in Africa, ma non solo, una azione diplomatica che mira a trovare nuovi contatti, in modo da potere rompere gli effetti sempre più pesanti delle sanzioni a cui viene sottoposta per la questione del nucleare. La scelta cade su nazioni chiaramente non allineate, che possano a loro volta sfruttare vantaggi, sopratutto di natura economica, intrecciando nuovi legami diplomatici. Resta però una caratteristica negativa dall'azione iraniana, che potrebbe dare seguito a nuove censure, sia dall'ONU, che dagli USA: le ripetute violazioni all'embargo sulla fornitura di armi, che riguarda ben sette nazioni africane (Repubblica Democratica del Congo, Costa d'Avorio, Eritrea, Liberia, Libia, Somalia e Sudan) e che Teheran avrebbe infranto con invii effettuati attraverso la terraferma. In alcuni casi questi traffici hanno anche scatenato le repressioni violente, per altro mai ammesse, di Israele e degli stessi USA, che hanno bombardato i convogli destinati a formazioni islamiche estremiste, con azioni dal cielo.

martedì 12 febbraio 2013

La Corea del Nord ha eseguito il test nucleare

La Corea del Nord ha ufficializzato che l'esperimento nucleare, fonte di molte tensioni internazionali, è riuscito grazie ad un dispositivo di nuova concezione, con caratteristiche di minore peso, nonostante contenesse un maggiore quantitativo di esplosivo. Il test nucleare, secondo le fonti ufficiali, non avrebbe causato alcun danno all'ambiente. Il fatto ha scatenato la reazione immediato delle Nazioni Unite, che mediante il suo Segretario generale, Ban Ki Moon, ha condannato l'accaduto invitando il Consiglio di sicurezza ad assumere misure appropriate per sanzionare l'esperimento. L'atteggiamento sprezzante di Pyongyang, che ha insistito sulla propria linea, nonostante gli appelli e le condanne della comunità internazionale, è sentito dalla platea diplomatica come un vero e proprio atto di sfida. Il leader nordcoreano era stato sollecitato a non proseguire sulla strada della nuclearizzazione militare del paese, come base per instaurare un dialogo fondato sulla reciproca fiducia, con i vicini regionali. L'atto di sfida, che in verità era dato per sicuro nonostante la speranza che non venisse attuato, apre definitivamente a possibili nuovi scenari ed equilibri regionali, che saranno, comunque, contraddistinti da una fase molto probabile di forte instabilità. La prima conseguenza sarà l'inasprimento delle sanzioni, provvedimento che metterà ancora più in difficoltà una nazione alla fame. La seconda sarà il peggioramento ulteriore dei rapporti con la Cina, che con questo test è stata sfidata apertamente, malgrado gli avvisi ripetuti di Pechino a desistere dai piani nucleari di Pyongyang. Il grado di peggioramento dei rapporti tra i due stati non è prevedibile con sicurezza, si può andare da un semplice taglio ai fondamentali aiuti provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, fino alla rottura totale dell'alleanza. Questa eventualità rappresenta lo scenario peggiore, per la Corea del Nord significherebbe il più assoluto isolamento nel mondo, con ricadute quasi certe sulla stessa esistenza del regime. Ma ciò potrebbe anche provocare reazioni inconsulte, attuate senza il filtro di Pechino. Anche perchè la terza conseguenza che si attuerà come risposta al test nucleare sarà l'intensificazione delle manovre militari congiunte tra USA e Corea del Sud e forse anche del Giappone. A quel punto la Corea del Nord si sentirà circondata e vorrà mostrare i muscoli dando luogo ad una escalation di difficile previsione. Ma anche senza questo possibile confronto militare, che la Cina non gradirebbe perchè troppo vicino al suo territorio, sia marino che terrestre, il raffreddamento con Pechino rappresenta l'elemento più importante da analizzare. Se la condanna della Cina è scontata, come conseguenza ai tanti appelli disattesi ed in coerenza con il voto favorevole dato nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, fatto, peraltro, niente affatto consueto, Pyongyang perde in maniera molto rilevante la propria autonomia economica, dipendente in larga parte da Pechino. In questo caso l'implosione del regime diventa un fatto altamente probabile. La carenza alimentare potrebbe spingere masse di persone, ormai incontrollate, verso le opposte frontiere di Corea del Sud e Cina, creando una emergenza umanitaria di grande rilevanza. Questo aspetto potrebbe però essere anche pilotato da Pyongyang come ritorsione al regime sanzionatorio a cui verrà sottoposto il paese. In entrambi i casi si aprirà un problema ancora maggiore rispetto alla situazione attuale, circa la presenza di un fattore di così forte destabilizzazione della regione, rappresentato proprio dallo stato nordcoreano. Nel passato i tentativi di riunire le due Coree non erano ben visti sopratutto da Pechino, che temeva, non tanto di perdere un alleato di poca importanza strategica, quanto di incrementare un concorrente economico come la Corea del Sud. Tuttavia le attuali condizioni geopolitiche fanno propendere, per la Cina, la preferenza per una situazione di maggiore stabilità, sopratutto alle sue frontiere, nell'ottica di una maggiore facilitazione della propria attività commerciale. Se questo è vero non è però detto che la riunificazione delle due parti della penisola coreana sia l'unica soluzione possibile. Pechino potrebbe optare, al fine di mantenere Pyongyang nella propria sfera di influenza, ad un passaggio di potere in modo da rendere la Corea del Nord più funzionale ai suoi scopi, quasi uno stato satellite; in questo senso soltanto la Cina, per il grado di penetrazione nel chiuso stato comunista dinastico, potrebbe riuscire nell'intento. La situazione attuale si presente, comunque, in un continuo divenire difficile da prevedere con certezza a causa delle tante variabili presenti nella vicenda.

lunedì 11 febbraio 2013

L'incertezza del conflitto siriano potrebbe obbligare Israele ad un attacco militare

La minaccia più immediata per Israele è il conflitto che sta provocando la dissoluzione della Siria. La grande eterogeneicità della composizione delle forze che stanno combattendo contro Assad, con visioni anche diametralmente opposte tra di loro e quindi potenzialmente avversarie, determina profonda incertezza al confine con il paese israeliano. Comunque, quale sia il destino di una guerra ancora tutto da decidere, per Tel Aviv non si profila una soluzione congeniale. Da una parte il regime di Damasco, profondamente legato ai nemici di Israele, Iran ed Hezbollah, con i quali è in debito per gli aiuti forniti, in caso di vittoria, potrebbe vedersi presentare un conto costituito da azioni contro il paese israeliano, dall'altra parte, nelle forze ribelli, stanno emergendo sempre più due matrici confessionali in concorrenza tra di loro, si tratta di gruppi di opposizione sunniti nemici dei salafiti al potere e gruppi jihadisti provenienti dall'Iraq, che si definiscono sciti e quindi, presumibilmente sostenuti da Teheran. Per entrambi, però, Israele resta un nemico da colpire. L'azione di questi gruppi ha come teatro le alture del Golan, territorio immediatamente confinante con Israele. Una delle ipotesi fatte dagli analisti è che colpire la nazione israeliana potrebbe fare accrescere il prestigio tra le varie fazioni che si oppongono ad Assad. Vi è poi la questione degli arsenali di armi chimiche, che preoccupano pesantemente Tel Aviv; nei giorni scorsi un attacco israeliano ha già colpito un convoglio di armi destinato ad Hezbollah, scatenando le minacciose reazioni di Siria ed Iran a cui non vi è stato, per ora, seguito. Le forze armate israeliane, del resto, sono da tempo impegnate in manovre militari per evitare attacchi a sorpresa provenienti dal territorio siriano. Nel frattempo la guerra civile in corso in Siria assume destini sempre più incerti: se fino a poco tempo fa la sorte di Assad pareva sicuramente segnata, gli ultimi sviluppi hanno indicato una situazione meno definita. Le diserzioni dall'esercito regolare, che avevano assunto una dimensione elevata, si sono arrestate e l'offensiva dei ribelli contro la roccaforte del regime, Damasco, hanno avuto risposte adeguate, rendendo, almeno per il momento, la capitale inespugnabile. Israele potrebbe così cercare, mediante un attacco armato in grande stile, di prevenire, una volta per tutte, un attacco di cui potrebbe essere vittima proveniente dalla Siria. In questo momento il nemico non è quindi l'esercito regolare. ma formazioni ribelli occupanti le zone a ridosso della zona di confine. L'eliminazione di questi gruppi consentirebbe a Tel Aviv di scongiurare il pericolo dei traffici di armi e, nello stesso tempo, di evitare di essere nel mirino di formazioni fondamentaliste. Inutile dire che ciò andrebbe a costituire un favore ad Assad, che potrebbe vedere arrivare un aiuto insperato. Tuttavia una mossa del genere da parte dello stato di Israele potrebbe aprire una vasta zona di instabilità compresa tra la riva del Mediterraneo fino all'Iraq, paese di provenienza di diversi combattenti. In una visione più ampia, quello che si teme è che dalla scintilla provocata da un intervento militare di Israele, si determini lo stravolgimento stesso di alcuni stati in preda a forti tensioni opposte, che si materializzano nell'eterno confronto tra sciti e sunniti. Quello che Tel Aviv non sfrutta è un dialogo con gli stati sunniti, che dovrebbe sfociare in una qualche forma di alleanza. Ma senza la definizione dello stato di Palestina questa strada è impraticabile e ad Israele non resta altra soluzione che la strada delle armi per difendersi dai suoi nemici. Al contrario con la risoluzione del problema della Palestina, con la creazione dello stato palestinese ed il reciproco riconoscimento, l'apertura della porta diplomatica presso i paesi sunniti sarebbe una realtà, che determinerebbe la fine dell'isolamento israeliano e la possibilità di intraprendere soluzioni alternative all'uso della forza.

Le dimissioni del Papa

Benedetto XVI ha annunciato che lascerà il soglio di Pietro il 28 febbraio. Si tratta di un evento di portata storica, che non accade dal medioevo, e comunque mai successo con dimissioni causate da motivi di salute, come ammesso dalla stesso Joseph Ratzinger. La pubblica ammissione di non essere più all'altezza del proprio compito, fa di Benedetto XVI un personaggio caratterizzato da estrema responsabilità verso il proprio ruolo, preoccupato per le sorti della chiesa cattolica, che sta attraversando un momento particolare al proprio interno. Va detto che, nonostante il giusto stupore per la notizia, la possibilità delle dimissioni era già stata ventilata dallo stesso pontefice fin da due anni prima, quando inquadrava come un dovere lasciare la carica qualora non si fosse più sentito nella più completa disponibilità fisica e psichica. La decisione non deve essere stata comunque facile, perchè le pressioni per non compiere il passo devono essere state molto pesanti. A contribuire alla scelta di lasciare il soglio pontificio potrebbero avere influito anche le vicende del recente scandalo legato alle lotte di potere all'interno dello stato Vaticano. L'elezione di Benedetto XVI era stata vista come una tappa di passaggio, dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, che potesse permettere alla chiesa romana un periodo di assestamento, dopo un Papa di così grande spessore. Ratzinger, uomo mite e grande studioso, ha cercato di mediare tra le varie parti della chiesa, tra le più conservatrici e quelle più moderniste, anche in maniera energica, cercando di focalizzare aspetti importanti per la vita dei fedeli, come la questione del lavoro. Il conclave che si svolgerà presumibilmente da marzo, dovrà trovare, per eleggere il successore di Benedetto XVI, una sintesi non facile da raggiungere, anche se le manovre tra le varie fazioni della chiesa cattolica saranno già, probabilmente, cominciate. L'assetto dei cardinali che compongono il collegio dal quale uscirà il nuovo papa è caratterizzato ancora dall'impronta tradizionalista lasciata da Giovanni Paolo II, le possibilità che si affermino tendenze anti conciliari sono concrete. Vi sono, poi, le istanze delle chiese emergenti e delle comunità che subiscono le persecuzioni islamiche, che potrebbero incidere notevolmente sulla scelta del 266° papa di Roma. Occorre vedere come saprà reagire il corpo ecclesiale alla domanda di modernità lanciata dalla maggioranza dei fedeli, ma spesso lasciata inascoltata per abbracciare posizioni neoconservatrici. Mentre nell'occidente più ricco si assiste ad una diminuzione dei fedeli, che si allontanano da una istituzione che avvertono sempre più distante, nei paesi ex socialisti ed in generale in quelli più poveri, di matrice cattolica, vi è un incremento della religiosità popolare, anche per un impegno sempre costante dell'assistenza da parte del clero più basso. Ma nelle alte gerarchie prevale un istinto di conservazione a mantenere divisa la spiritualità dalle cose terrene. Questa sorta di protezione ha favorito la crescita di posizioni sui grandi temi ancora arretrate rispetto alla società civile. Il nuovo papa, qualunque sia la sua impostazione, dovrà, per forza di cose, affrontare tutte le questioni di grande rilevanza che il pontificato di Benedetto XVI lascia in sospeso, ma dovrà, sopratutto, sapere riportare l'istituzione vaticana al livello delle grandi emergenze mondiali, sia teoriche che pratiche, rispetto alla posizione attuale che appare sempre troppo distante e permeata soltanto di grande spiritualità.

L'Iran potrebbe aprire a nuovi negoziati

Il discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione dell'anniversario della rivoluzione islamica del 1979, ha puntato sul risveglio dell'orgoglio nazionale ed alla difesa della dignità dell'Iran, con un elevato grado di enfasi e retorica. L'organizzazione delle marce, tenute nelle varie parti del paese, per festeggiare il 34° anniversario della caduta dello Scià di Persia, ha registrato, secondo le fonti governative, un grande numero di adesioni, che serviranno per testimoniare al mondo l'unità del paese. Che una gran folla, sopratutto a Teheran, abbia manifestato è vero, i manifestanti, dotati di bandiere iraniane, hanno gridato slogan a favore del regime e contro i nemici internazionali dello stato: USA ed Israele. La ricorrenza è stata anche l'occasione per i militari di sfoggiare i nuovi armamenti, usati anch'essi come strumento di coesione della cittadinanza. In realtà i manifestanti scesi in piazza non rappresentano l'intero paese, che sulle questioni interne patisce un impoverimento economico assoluto, che ha colpito prima di tutto la classe media, che ha visto, a causa delle sanzioni, ridurre il proprio tenore di vita. Gli espedienti del governo di Teheran per aggirare le sanzioni, sopratutto grazie alla vendita del petrolio iraniano alla Cina, non hanno permesso di recuperare reddito a causa delle politiche governative che hanno indirizzato i guadagni verso altri scopi. Tuttavia, grazie alle repressioni degli oppositori, ed un consenso guadagnato in maniera non sperata, proprio a causa dell'isolamento internazionale per la questione dell'atomica, il governo iraniano rappresenta la maggioranza dei cittadini del paese, mentre le minoranze politiche, rese impotenti dalle persecuzioni, hanno assunto un atteggiamento di rassegnazione, che contraddistingue, infatti, chi non appoggia con entusiasmo il governo in carica. Ma i problemi del paese restano evidenti ed il governo centrale dispone di sempre minori mezzi per combattere il malcontento derivante dalla depressione economica. I mezzi retorici, che ricalcano schemi sempre usati in casi come questo, possono permettere di fornire al mondo una immagine di untà, garantita solo dalla mobilitazione dei sostenitori più accesi. Tra le righe del discorso del presidente iraniano, si è potuto leggere, però una apertura a nuovi negoziati con gli USA, sulla materia del nucleare. Il discorso, seppure infarcito di minacce verso Washington, ha sottinteso che, a determinate condizioni, le trattative possono ripartire. Il fatto costituisce una svolta nell'atteggiamento iraniano, che può significare essenzialmente due cose, peraltro opposte tra di loro: l'impossibilità di arrivare alla costruzione della bomba o il vicino raggiungimento dell'obiettivo. In entrambi i casi, vi è comunque, la necessità di attenuare le sanzioni internazionali, i cui effetti hanno provocato una inflazione ormai insostenibile. Ragionevolmente pare, però, che l'ipotesi della reale capacità di costruire l'ordigno atomico non sia avallata dalle pur scarse notizie a disposizione. Nonostante la capacità di arrichire l'uranio degli iraniani si a assodata, l'intera tecnologia necessaria non sarebbe a disposizione di Teheran. Se ciò fosse vero, ed è la cosa più probabile, la tattica di Obama si sarebbe rivelata vincente, ottenendo un duplice risultato: costringere l'Iran a scendere a patti ed avere bloccato Israele dalle tentazioni di attacco militare. Resta chiaro che se Teheran vorrà riprendere i negoziati, dovrà rivedere il proprio atteggiamento di chiusura verso gli ispettori, aprendo tutti i siti che ha finora tenuto sigillato. Soltanto questa evenienza dirà se le intenzioni iraniane sono sincere o se si tratta dell'ennesimo tentativo per guadagnare tempo prezioso.

venerdì 8 febbraio 2013

Le primavere arabe si ripeteranno?

Lo schema delle primavere arabe mostra tutti i suoi limiti. La presenza di un dittatore, con poteri immensi, era la prima costante, in tutti i casi verificati ed anche in quello siriano la situazione è analoga; la seconda costante era che non esisteva una forza unica alternativa, capace di rovesciare il potere, era necessaria l'unione di più forze, che, tuttavia, prese singolarmente, erano addirittura opposte tra di loro. Il legame che manteneva uniti i movimenti che formavano la ribellione era unicamente, l'intenzione di rovesciare la dittatura. Il carattere di urgenza di popoli esasperati e spesso alla fame non ha permesso la necessaria elaborazione di un piano organico, sopratutto fondato su aspetti legali condivisi e fondanti, che sapesse prevenire una caduta generalizzata, in alcuni casi, ancora peggiore dell'oppressione da cui le nazioni arabe si erano liberate. Si è arrivati così ad un risultato che accomuna i destini di tutti i paesi in cui le primavere arabe hanno fatto il loro corso. Dai risultati elettorali è uscita, in modo omogeneo, la vittoria dei partiti confessionali, spesso espressione di un islam tutt'altro che moderato, incapace di conciliare la vittoria delle urne con i diritti delle minoranze politiche. La prevaricazione dei vincitori, giustificata con leggi costituzionali elaborate a loro consumo ed ispirate alla legge islamica, ha portato alla naturale reazione di quei movimenti che si erano impegnati per una rinascita politica, attraverso l'applicazione dei diritti civili prima soppressi, poi di nuovo soffocati da provvedimenti liberticidi, questa volta elaborati su base religiosa anzichè politica. Era impensabile che persone impegnate direttamente nelle piazze avessero interrotto la loro azione solo per la caduta di un regime sostituito da un'altra forma illiberale; il processo era ormai avviato ed era inarrestabile. Piuttosto resta l'errore di fondo che accomuna i partiti confessionali al potere nei paesi arabi, l'assoluta mancanza della capacità di elaborare un comportamento alternativo all'assolutismo religioso. Se poi si aggiunge che la situazione economica, che occorre ricordarlo molto bene, ha costituito la scintilla che ha provocato la deflagrazione delle ribellioni, non è cambiata con l'avvento dei governi eletti, ecco che il mix di cause si ripresenta tale e quale come si è presentato con le dittature al potere. Del resto anche i regimi dittatoriali all'inizio avevano i loro sostenitori che si battevano, anche fisicamente, contro gli oppositori; ora sono cambiati gli schieramenti, da una parte i sostenitori dei partiti vincenti dalle urne, connotati da un islamismo radicale, sono fortemente motivati dall'investitura che, credono provenga da Dio, anzichè dal popolo, ma che non sono che una piccola parte della società e non rappresentano in alcun modo la totalità di quelle persone che pure hanno contribuito a renderli vittoriosi, dall'altra parte i cosidetti laici, perchè non si riconoscono in partiti a regime confessionale, ma che speravano in una forma di governo, che aderisse alle regole democratiche classiche. Il confronto, pur essendo in corso da tempo, entra in una fase delicata, perchè ormai riguarda Tunisia, Libia ed Egitto, tra i paesi che sono riusciti a costruire un evento elettorale, e Siria dove la guerra civile rischia di trasformarsi direttamente da battaglia contro Assad a conflitto tra estremisti religiosi e movimenti partitici democratici. L'occidente, affascinato dalle rivoluzioni contro le dittature, non ha saputo, al momento giusto, elaborare un piano di aiuto concreto per sostenere l'affermazione della democrazia compiuta e non soltanto il verificarsi di un mero atto dell'esercizio del diritto di voto, a cui è mancato tutto il relativo seguito. I paesi arabi sono così daccapo, senza avere una parvenza di via di uscita da una impasse difficilmente risolvibile, dove l'ipotesi più verosimile è una ripetizione del corollario di violenze, questa volta perpetrato dai nuovi governi, i quali, detto per inciso, usano le identiche giustificazioni delle repressioni di chi li ha preceduti, rischiando di fare altrettanto identica fine.

giovedì 7 febbraio 2013

Egitto ed Iran si incontrano a Il Cairo

La visita egiziana del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha avuto un notevole risalto sui media dell'Iran, a cui non è stata corrisposta pari esaltazione in Egitto. Ma Teheran ha bisogno di enfatizzare ogni possibile occasione che faccia uscire il paese dal proprio isolamento ed un incontro con una nazione simbolo dell'islam sunnita può rappresentare un valore molto alto in questa ottica. L'occidente, intanto, resta alla finestra, seguendo con attenzione ed anche apprensione gli sviluppi di un incontro bilaterale che potrebbe spostare equilibri consolidati nel confronto religioso tra islam scita e sunnita, che, però, può travalicare gli aspetti puramente confessionali ed abbracciare quelli politici. Comunque la stampa iraniana ha qualche giustificazione per definire storico l'incontro de Il Cairo, dalla rivoluzione di Khomeini, dal 1979, un presidente dell'Iran si trova, per la prima volta nella capitale egiziana, ed il colloquio avuto con il suo omologo Mursi, in attesa dell'apertura del vertice dell'Organizzazione della cooperazione islamica, ha avuto, come tema centrale, le relazioni bilaterali tra i due paesi. Lo scopo di Mahmud Ahmadinejad è quello di rafforzare le relazioni tra i due paesi, in realtà da riprendere dall'inizio, con l'intenzione di trovare delle convergenze comuni sulle questioni regionali ed internazionali. Per l'Iran, che sta perdendo il principale alleato nell'area, la Siria, diventa importante, se non vitale, trovare un nuovo canale, che possa potenzialmente, sostenere la sua politica contro Israele e rompere l'accerchiamento in cui si troverebbe con la caduta di Damasco. Se una intesa completa con Teheran pare impossibile, l'Egitto, incontrando in modo formale il presidente iraniano su questi temi, manda un chiaro messaggio agli USA ed allo stesso Israele, praticando una politica dell'equilibrio precario, fatta di virtuosismi pericolosi nelle relazioni internazionali. Ciò è ancora più vero se rapportato alla politica interna egiziana fortemente instabile. I sentimenti dell'esercito sono noti, gli ambienti delle forze armate prediligono un approccio politico più laico e nelle relazioni diplomatiche rimpiangono gli stretti rapporti con gli USA, che permettevano un livello avanzato degli armamenti ed una eventuale relazione tra Il Cairo e Teheran rischia di compromettere ulteriormente il rapporto con Washington. Anche gli ambienti religiosi non vedono di buon occhio uno sviluppo con il principale paese scita, il gran imam di Al Azhar, Ahmed El Tayyeb, vede come una intromissione indebita, il tentativo iraniano di inserirsi nelle nazioni sunnite, avvertendo i possibili pericoli del proselitismo sciita in un Egitto che, ultimamente, ha imboccato posizioni fondamentaliste. L'imam egiziano ricorda con preoccupazione le veementi proteste della minoranza sciita in Bahrein, temendo una ripetizione nel paese delle piramidi, già condizionato da grande instabilità, fomentate proprio dall'Iran. Inoltre il rapporto con Teheran non è apprezzato per le discriminazioni continue a cui è sottoposta la minoranza sunnita nel paese iraniano. Vi è, poi, un aspetto tutt'altro che secondario che riguarda il rapporto, molto conflittuale, dell'Iran con i paesi del Golfo Persico, vicini all'Egitto: il ministro degli Esteri egiziano, Kamel Amr, ha messo in chiaro che la stabilità e la sicurezza delle nazioni del Golfo è una frontiera che non deve assolutamente essere valicata, esclusivamente su questa condizione di partenza si possono sviluppare le relazioni tra i due paesi. Resta da notare come la fase storica attuale, sia per le relazioni tra i paesi arabi molto più fluida che in passato, il tentativo di avvicinamento tra Egitto ed Iran, segnala un nuovo fattore nello scenario diplomatico: il tentativo di Ahmadinejad di scardinare l'unità dell'area sunnita per aprirsi nuove possibilità, difficile, per ora che il tentativo abbia successo, ma l'avanzata dell'islamismo più radicale nei paesi della primavera araba, potrebbe determinare scenari completamente nuovi.