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giovedì 5 luglio 2012
Il taglio del welfare, come politica per abbattere i debiti pubblici
Uno dei più eclatanti e devastanti effetti della crisi economica in atto è il preoccupante taglio, operato in modo indiscriminato praticamente in tutta la totalità dei paesi, del sistema del welfare. Anni di conquiste e di progresso sociale, vengono ridotti, se non cancellati, in maniera tale da riportare indietro le lancette degli orologi della storia. In alcuni casi i governi sembrano perfino praticare modalità punitive, nei confronti della maggioranza delle società che amministrano. La caduta degli ascensori sociali, precipitati verso il basso della piramide della società, provoca che i destinatari dei tagli siano, oltre ai ceti più bassi, anche i ceti che una volta erano definiti medi. L'erosione di ricchezza, avvenuta tramite un progressivo abbassamento del valore dei salari, giunta ad una sempre maggiore diminuzione dei servizi, senza contare l'aumento della tassazione diretta ed indiretta, determina il ritorno di situazioni, che si credeva ormai lasciate alle spalle. Siamo di fronte al fallimento di un modello sociale, che pur in diverse varianti e sfumature a seconda della zona geografica e della effettiva ricchezza dei rispettivi paesi, assicurava per prima cosa la dignità di cittadinanza, attraverso provvedimenti concreti al maggior numero possibile dei suoi componenti. Fa specie e sorprende, che tali pratiche restrittive, giustificate con il necessario abbattimento del debito pubblico, siano percorse, tranne poche eccezioni, da un arco politico che va dalla destra, anche quella cosidette sociale, alla sinistra, sopratutto quella definita più illuminata, passando per il centro, che in Europa spesso si ispira ai valori cristiani. Non si capisce se questi abbattimenti dello stato sociale siano stati intrapresi per calcolo di convenienza e faciltà di azione, si colpisce, in sostanza, il maggior numero di individui, ricavando tanto con poco sforzo, o se si tratta di una scelta politica ben precisa, per riportare la massa ad un livello facilmente controllabile, costringendola all'emergenza continua. In ogni caso è il fallimento del capitalismo, inteso come maggiore diffusione del benessere possibile, ed è, al contrario, l'affermazione dei pochi sui tanti, tramite l'accentuazione delle differenze e delle distanze sociali. In sostanza si favorisce la concentrazione della maggior parte della ricchezza della società, in mano ad un numero ridotto di persone, con percentuali che sfiorano, nei casi migliori, il 10% della totalità. Questa pratica, ancora una volta, è derivata da un uso distorto della ideologia liberale degenerata nella sua peggiore accezione: quella del liberismo senza freni e controlli. Credere che favorire i ceti ricchi, sottoponendoli a tassazioni ridicole, possa costituire una leva per la crescita economica, oltre ad essere moralmente opinabile, è ormai una scelta sbagliata, dimostrata ampiamente, nei teatri più diversi. Del resto la recessione attuale, dipende in buona percentuale, anche dall'impossibilità della maggior parte della popolazione di esercitare una adeguata capacità di spesa, dalla quale deriva la contrazione dei consumi, ma anche le minori entrare per lo stato, che provoca, quindi, un risultato opposto alla direzione voluta. La maggiore dimostrazione di questo fatto è il quasi totale mancato ricorso a politiche di tassazione basati sul patrimonio, che possono permettere l'allegerimento della pressione fiscale sul lavoro. La volontà di percorrere questa via è il più chiaro segnale dei risultati che si evidenzieranno in un futuro sempre più prossimo. Tuttavia, anche le società, pur nella loro anestesia dettata da un insieme di sfiducia ed uso sapiente dei mezzi di comunicazione, iniziano a presentare qualche motivo di cambiamento. L'affermazione di Hollande, in Francia, che ha messo al centro della propria campagna elettorale una tassazione elevata per i grandi capitali, il successo elettorale dell'estrema sinistra in Grecia, che partiva proprio da questi presupposti, possono indicare la via per la costruzione di un modello alternativo, basato sulla maggiore redistribuzione del reddito nazionale. Mantenere un welfare adeguato e degno di uno sviluppo sociale adeguato, rappresenta infatti, il migliore programma possibile per ricostruire una società più equa.
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