Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 4 aprile 2012
Nel Mali pericolo della nascita di uno stato islamico
La questione del Mali rischia di diventare un focolaio sempre più pericoloso per l'occidente. Dal colpo di stato, giustificato con la necessità di contrapporre una politica repressiva alle istanze di libertà delle regioni settentrionali del paese, la situazione interna è precipitata. L'avanzata delle armate Tuareg ha imposto la legge islamica, la sharia, nelle città conquistate, praticamente cancellando il turismo da città come Timbuctù e gettando sul lastrico una economia già in grossa difficoltà. Le violenze dei ribelli hanno provocato la fuga di almeno 200.000 persone, che fuggono nelle nazioni vicine Mauritania, Niger, Burkina Faso e in Algeria e nelle zone interne del paese, per sfuggire alla fame e sopratutto ai combattimenti in corso, determinando una frattura territoriale dello stato del Mali, ormai diviso in due. Quello che preoccupa maggiormente le cancellerie occidentali è la possibile saldatura tra i tuareg, i salafiti ed Al Qaeda, che da queste vicende potrebbe avere nuovi e positivi impulsi da innestare in una organizzazione che pareva in disarmo. In realtà quello che muove gli uonimi blu sarebbero ragioni più pragmatiche ad allearsi con gli estremisti islamici, come il controllo dei fiorenti traffici di droga, persone ed armi, che transitano nelle regioni ora occupate. Tuttavia anche questo aspetto non è da sottovalutare, sopratutto se unito con le motivazioni dei gruppi estremisti, che potrebbero trarre anch'essi vantaggio dai movimenti di merci di contrabbando, sopratutto in un'ottica di riorganizzazione di tutto quel movimento variegato che si richiama al terrorismo islamico. In questo quadro il colpo di stato nel Mali, aggrava una situazione già di per se preoccupante; l'instabilità del paese africano non consente una risposta militare adeguata all'avanzata dei tuareg, ma, neppure, un interlocutore affidabile per i paesi occidentali, preoccupati dagli effetti di una spaccatura del paese con una parte costituita in repubblica islamica, in una zona già monitorata per i possibili rifugi che già potava offrire in regime di clandestinità a gruppi terroristici. In quadro, per così dire istituzionalizzato, per Al Qaeda raccogliere proseliti anche fuori dal paese, tra gli emarginati e gli esaltati della religione islamica sarebbe molto più agevole, disponendo di territori al di fuori del controllo di forze istituzionali. Tuttavia la parte moderata del movimento dei tuareg minimizzano su queste alleanze, che presentano come strategiche per il raggiungimento dell'obiettivo di controllare la regione di Azawad ritenuta la patria dei nomadi, che dovrà diventare la Repubblica Islamica Azawad. Ma i successi dei tuareg hanno provocato una grande ondata di risentimento nella popolazione del Mali nei confronti degli autori del colpo di stato, ritenuti una causa del successo dell'avanzata degli uomin blu. Il colpo di stato ha interrotto la catena di comando dello stato, non permettendo di fornire una adeguata risposta militare alle mosse di tuareg. Inoltre il paese è stato gettato, proprio a causa del colpo di stato nell'isolamento internazionale ed oggetto di sanzioni, che hanno scatenato una corsa all'accaparramento dei beni alimentari, che, a loro volta, hanno causato violenze e saccheggi. E' una situazione sia politica che diplomatica complicata, lo stato del Mali rischia di perdere una gran parte del proprio territorio e l'occidente di trovarsi a pochi chilometri di distanza un nuovo stato, base ideale per il terrorismo islamico. La situazione, per ora fluida, rischia di diventare un nuovo caso per il Consiglio di sicurezza dell'ONU, con i probabili relativi contrasti e la necessità di agire per impedire una soluzione del caso che si preannuncia difficile e poco conveniente per chi vuole la stabilità della regione.
martedì 3 aprile 2012
Sale la disoccupazione nell'area euro
La zona euro è alle prese con un nuovo rialzo della disoccupazione, avendo toccato la quota record del 10,8% a febbraio. Si tratta del valore più altro da quando è stata creata la moneta unica. E' una tendenza che non subisce variazioni essendo ben dieci i mesi consecutivi che il dato oltrepassa il 10%. Siamo davanti, ormai ad una crisi strutturale del sistema euro, causata dall'indebitamento degli stati e da un periodo recessivo che appare divenuto sistemico. L'economia paga una navigazione a vista, che non comprende politiche e programmi di grande respiro e che, sopratutto, sconta divisioni profonde tra le vedute dei singoli governi non coordinati dall'istituzione centrale europea. E' proprio la debolezza politica di Bruxelles, uno dei punti deboli dell'intero sistema dell'euro, non avendo i necessari strumenti giuridici gli eurocrati si limitano a recepire le decisioni degli stati più forti, che si sono arrogati la guida dell'euro, subendo anche decisioni in contro tendenza con lo spirito comunitario. L'assenza di una politica finanziaria comune, che riesca a pianificare la necessaria costruzione delle infrastrutture, ormai insufficienti, è poi una causa della disoccupazione direttamente discendente dalla mancanza di programmazione politica. Ma manca anche un necessario supporto centrale alle imprese, capace di supportarle, sia negli aspetti legali, che economici, che organizzativi, nei confronti dei paesi emergenti, che possono, per ora opporre una maggiore competitività, grazie al migliore costo del lavoro e processi burocratici più snelli. I dati sulla disoccupazione, oltre che un chiaro segnale di difficoltà economica, che si riflette nell'ambito sociale, rappresentano un grave fallimento delle politiche comunitarie incapaci di imporsi su quelle statali e di arginare il fenomeno, che, per altro, si riflette anche nella forza lavoro immigrata, anch'essa colpita dal trend negativo. Significa che oltre al lavoro più qualificato, mancano le occasioni per impieghi di minore professionalità. Il risultato è una economia sempre più avvitata su se stessa a cui alla attuale fase recessiva, seguirà la stagnazione. La sempre minore disponibilità del sistema di liquidità non potrà che peggiorare le cose mandando definitivamente in crisi oltre che l'industria, anche il commercio, andando ad aumentare l'esercito dei senza lavoro, con ovvie ricadute sulla stabilità sociale. Se il dato aggregato europeo è del 10,8%, la situazione europea vista nei singoli paesi è tutt'altro che uniforme e si presenta a macchia di leopardo. La Spagna ha un tasso di disoccupazione addirittura peggiore di quello greco 23,6% contro il 21%, Portogallo ed Irlanda si aggirano attorno al 15% ed in Italia è del 9,3%. Questi sono i casi più gravi, chiaramente influenzati dalla ricaduta degli effetti del debito pubblico, che toglie finanziamenti alle imprese, costrette a tagliare sul personale. Meglio va in altri paesi come in Austria (4,2%), Paesi Bassi (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%). In Belgio, il tasso di disoccupazione è salito al 7,2%. Difficile essere avere previsioni positive su quei paesi che hanno fortemente tassato i redditi fissi per riparare ai guasti di finanze pubbliche dissennate e che, guarda caso, sono anche quelle nazioni dove si registrano i valori di disoccupazione più elevati. Minore disponibilità di potere di acquisto non può che fare contrarre la spesa per famiglia e lasciare la merce invenduta nei magazzini, con il conseguente abbassamento degli ordinativi industriali e quindi ulteriore taglio occupazionale. Senza politiche del lavoro in grado di contenere la parte del salario direttamente girata verso le tasse, non può innescarsi alcun circolo virtuoso; se lo stato ha bisogno di nuove entrate occorre che si rivolga non più al lavoro ma al capitale, ormai non è più solo una questione di equità sociale.
lunedì 2 aprile 2012
Mali: dai Tuareg il pericolo di un nuovo stato islamico radicale
Quello che sta succedendo in Mali può portare alla nascita di un nuovo stato islamico radicale con la sharia come legge vigente. La preoccupazione corre nelle capitali occidentali, che temono che una consistente porzione di territorio diventi la base ufficiale di gruppi estremisti capaci di mettere a segno atti terroristici in nome dell'Islam.
Il problema del nord del Mali somma diverse questioni che costituiscono pericolosi focolai di instabilità. Infatti si tratta di questioni politiche, culturali, demografiche, economiche e geopolitiche. L'avanzata dei Tuareg si sta sviluppando nelle tre regioni settentrionali, che hanno una estensione pari ai due terzi del Mali, ma con una densità di popolazione più bassa ospitando il 20% del totale degli abitanti. La rivolta è in corso dal 17 gennaio ed ha avuto l'impulso decisivo con il ritorno dei Tuareg che hanno combattuto e perso la guerra in Libia a fianco di Gheddafi, di cui erano un corpo scelto. Si tratta di contingenti ben armati ed equipaggiati, capaci di occupare militarmente un terreno parzialmente sguarnito e fortemente instabile per la massiccia presenza di trafficanti di persone, armi e droga, e vari gruppi terroristici come cellule di Al Qaeda e gruppi di salafiti. Proprio a causa di queste presenze non gradite ad Algeri, si è ipotizzato che dietro l'avanzata dei Tuareg ci sia anche il benestare dell'Algeria, tuttavia se questa ipotesi potrebbe essere corroborata da un interesse per la salvaguardia delle proprie frontiere, occorre anche rilevare che le manovre dei Tuareg stanno generando un esodo di massa da parte delle popolazioni del Mali in fuga dalla guerra, che stanno attraversando anche la frontiera algerina.
I Tuareg hanno conquistato le città di Timbuctu e Gao, abbandonandosi a saccheggi ed atti di violenza contro la popolazione del Mali, sopratutto da parte degli arabi indigeni e dei salafiti.
Le vittorie dei tuareg sono state facilitate anche dal caos amministrativo in cui versa il Mali, dove lo scorso 22 marzo un colpo di stato ha deposto il presidente in carica Amadou Toumani Touré. Tuttavia l'autore del golpe Il capitano Amadou Sanogo ha dichiarato che restituirà il potere nei prossimi giorni con il ripristino della costituzione del 1992 e delle istituzioni repubblicane, invitando le parti sociali a tenere libere elezioni. Ma per un vuoto di potere non è il momento adatto e per il Mali la situazione rischia di diventare ancora più compromessa, anche se gli obiettivi dei Tuareg dovrebbero essere stati tutti raggiunti e non dovrebbe esserci, quindi una ulteriore avanzata. Resta alta la tensione nella Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, già in allerta per il colpo di stato nel Mali ed ora preoccupata per le conseguenze della ribellione Tuareg all'interno del territorio dell'organizzazione. Una forza armata di circa 2000 uomini sarebbe già pronta, su mandato della Comunità, per intervenire contro le forze dei Tuareg. Si rischia così una nuova guerra, che potrebbe coinvolgere anche le potenze occidentali, che come già rilevato, temono fortemente una deriva islamista radicale nelle zone occupate.
Il problema del nord del Mali somma diverse questioni che costituiscono pericolosi focolai di instabilità. Infatti si tratta di questioni politiche, culturali, demografiche, economiche e geopolitiche. L'avanzata dei Tuareg si sta sviluppando nelle tre regioni settentrionali, che hanno una estensione pari ai due terzi del Mali, ma con una densità di popolazione più bassa ospitando il 20% del totale degli abitanti. La rivolta è in corso dal 17 gennaio ed ha avuto l'impulso decisivo con il ritorno dei Tuareg che hanno combattuto e perso la guerra in Libia a fianco di Gheddafi, di cui erano un corpo scelto. Si tratta di contingenti ben armati ed equipaggiati, capaci di occupare militarmente un terreno parzialmente sguarnito e fortemente instabile per la massiccia presenza di trafficanti di persone, armi e droga, e vari gruppi terroristici come cellule di Al Qaeda e gruppi di salafiti. Proprio a causa di queste presenze non gradite ad Algeri, si è ipotizzato che dietro l'avanzata dei Tuareg ci sia anche il benestare dell'Algeria, tuttavia se questa ipotesi potrebbe essere corroborata da un interesse per la salvaguardia delle proprie frontiere, occorre anche rilevare che le manovre dei Tuareg stanno generando un esodo di massa da parte delle popolazioni del Mali in fuga dalla guerra, che stanno attraversando anche la frontiera algerina.
I Tuareg hanno conquistato le città di Timbuctu e Gao, abbandonandosi a saccheggi ed atti di violenza contro la popolazione del Mali, sopratutto da parte degli arabi indigeni e dei salafiti.
Le vittorie dei tuareg sono state facilitate anche dal caos amministrativo in cui versa il Mali, dove lo scorso 22 marzo un colpo di stato ha deposto il presidente in carica Amadou Toumani Touré. Tuttavia l'autore del golpe Il capitano Amadou Sanogo ha dichiarato che restituirà il potere nei prossimi giorni con il ripristino della costituzione del 1992 e delle istituzioni repubblicane, invitando le parti sociali a tenere libere elezioni. Ma per un vuoto di potere non è il momento adatto e per il Mali la situazione rischia di diventare ancora più compromessa, anche se gli obiettivi dei Tuareg dovrebbero essere stati tutti raggiunti e non dovrebbe esserci, quindi una ulteriore avanzata. Resta alta la tensione nella Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, già in allerta per il colpo di stato nel Mali ed ora preoccupata per le conseguenze della ribellione Tuareg all'interno del territorio dell'organizzazione. Una forza armata di circa 2000 uomini sarebbe già pronta, su mandato della Comunità, per intervenire contro le forze dei Tuareg. Si rischia così una nuova guerra, che potrebbe coinvolgere anche le potenze occidentali, che come già rilevato, temono fortemente una deriva islamista radicale nelle zone occupate.
La Birmania verso la democrazia, potrebbe diventare strategica per gli USA
Per la Birmania si apre un nuovo periodo. Con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, che dovrebbe conquistare 44 dei 45 seggi in palio per questa tornata elettorale, il paese asiatico si avvia sulla strada della democrazia. Le elezioni, per cui si temevano intimidazioni e brogli, si sono svolte praticamente senza alcuna eccezione di rilievo, come appurato dagli osservatori internazionali, ammessi dal regime. La vittoria della leader è stata schiacciante, raggiungendo il 99% dei voti nella circoscrizione di Kahwmu, una rivincita sul regime che l'aveva costretta al silenzio tramite la detenzione. Questo risultato rappresenta il sentimento del paese e la voglia di cambiamento per affrancarsi dalla dittatura militare, che ha tenuto lo stato in una condizione di arretratezza sia economica che culturale, grazie ad una politica di sistematica soppressione dei diritti. Ma il clima, nella stessa forza di governo, è cambiato, la necessità di uscire dal duro regime delle sanzioni, ha favorito la progressiva apertura dei militari verso un sistema, che pur essendo ancora lontano dalla democrazia, vi si inizia ad avvicinare. Non si dovrebbe ripetere la situazione del 1990, quando il partito di Aung San Suu Kyi, vinse le elezioni, ma la vittoria non fu riconosciuta e la Signora, come viene definita la permio Nobel, fu relegata agli arresti domiciliari. Anzi alcuni analisti ipotizzano che per il governo in carica è meglio la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, in quanto non potrebbe esistere garanzia migliore per testimoniare la reale intenzione della volontà di chi sta al potere di volere e legittimare il cambio democratico in atto. Se attualmente il partito della Signora diventa così la seconda forza del paese, potenzialmente è già la prima, diventando in grado di influenzare le prossime cruciali scelte del paese per farlo uscire dalla condizione di estrema povertà in cui versa. Occorrerà, comunque verificare le reali intenzioni e la reazione dei militari, che stanno ancora dietro al governo in carica, al risultato elettorale, che era comunque largamente previsto. Ma il regolare esito delle votazioni e l'invito agli osservatori internazionali, non possono che fare sperare in un futuro positivo. Se così sarà le dure sanzioni a cui è sottoposto il paese dovranno essere cancellate e per la Birmania democratica sarà oggetto di aiuti internazionali, specialmente dagli USA, che intendono allargare la loro influenza sulla zona del Sud Est asiatico in funzione anti cinese. Si tratta di una influenza non certo militare ma economica, su di un territorio che potrebbe diventare chiave sia per i traffici che per gli investimenti produttivi, grazie ad una manodopera a basso costo. Per gli USA potere collaborare con un sistema democratico in una zona ritenuta strategica è molto importante per arginare lo strapotere economico cinese. In quest'ottica vanno viste le dichiarazioni entusiastiche, circa il risultato elettorale birmano, che sono uscite dalla Casa Bianca.
giovedì 29 marzo 2012
I BRICS sfidano il mondo
L'incontro a Nuova Delhi dei paesi emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, definiti comunemente BRICS, può portare delle conseguenze importanti sul piano internazionale dal punto di vista degli equilibri geopolitici ed economici. Le cinque nazioni costituiscono la metà della popolazione mondiale ed un quinto della produzione del pianeta, sono quindi un soggetto potenzialmente molto influente e potente, che può prendere decisioni capaci di influenzare l'intero sistema sia diplomatico che finanziario mondiale. Il vertice ha evidenziato la comune necessità di riformare le Nazioni Unite nel suo organo più importante, il Consiglio di Sicurezza, regolato da un sistema elaborato alla fine del secondo dopo guerra ed ormai troppo rigido per affrontare le continue situazioni emergenti e non più rappresentativo nella sua parte fissa degli attuali equilibri mondiali. Il problema, già sollevato dalla Germania, è molto sentito da India e Brasile che ambiscono ad un seggio permanente, proprio in rappresentanza dei paesi emergenti. Per la verità già due dei BRICS, Cina e Russia, sono già membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma l'accresciuta importanza mondiale dei paesi emergenti può rendere legittima l'aspirazione di Brasilia e Nuova Delhi. Un'altra questione molto sentita dai cinque paesi, riguarda la lentezza della riforma del Fondo Monetario Internazionale, che va ad investire il metodo, ritenuto poco trasparente dell'elezione del Presidente e, sopratutto, lo scarso peso dei paesi emergenti, che lamentano una scarsa diffusione dei diritti di voto a loro assegnati. In realtà la riforma è già stata elaborata, ma è rallentata la sua ratifica dagli USA, fatto che viene percepito come timore di Washington di perdere influenza sull'organizzazione.
In realtà quello che preme a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è evitare l'eccesso di liquidità per riparare le loro economie dal processo inflattivo, vero freno della crescita. Sul piano diplomatico i cinque paesi hanno sposato una politica del dialogo, che eviti conflitti armati, anche sotto la bandiera dell'ONU, in questo, perfettamente allineati con Cina e Russia, che fanno della non interferenza armata negli affari interni di altri stati un caposaldo della loro politica estera. Questa posizione è diametralmente opposta a quella americana, che è più volte ricorsa all'intervento armato, come nei casi di Iraq ed Afghanistan, e nel caso siriano anche a quella della Lega Araba, fautrice di un intervento a favore della ribellione contro Assad. Anche sulle sanzioni all'Iran, per la questione nucleare, non vi è identità di vedute con Washington, fatto oltre politico anche di convenienza economica, dato che Cina ed India rappresentano due principali importatori del petrolio di Teheran. Ma oltre le valutazioni contingenti quello che è più interessante rilevare è che si sta delineando all'orizzonte, non la nascita perchè quella vi è già stata, ma la consapevolezza della forza di un nuovo soggetto sovranazionale, unito non da vincoli di territorio o di politica, al suo interno vi sono democrazie e dittature, ma da legami di natura economica, da cui discendono le mosse sia diplomatiche, che, eventualmente, militari, pur se non espressamente dichiarate. L'obiettivo è quello di scardinare la potenza egemonica, sopratutto in campo finanziario, non quello operativo, bensì in quello della costruzione delle regole, di USA ed Europa. La pretesa di, almeno, affiancarsi nella stanza dei bottoni non pare illegittima, il peso produttivo e la stessa capacità finanziaria dei cinque paesi giustifica un loro maggiore coinvolgimento nella elaborazione di provvedimenti che per ora ricevono già confezionati. La volontà di proseguire sulla strada di un unione che avvantaggi i cinque membri alla rincorsa di USA ed Europa, va così a costituire un elemento di novità sul mercato mondiale, che andrà a contrastare le politiche occidentali; tuttavia pare anche difficile che paesi come Cina ed India, che sono concorrenti spietati, riescano a portare avanti una politica comune in armonia, che non intralci, cioè, i loro singoli programmi. Sta di fatto che la sfida è formalmente lanciata: un nuovo attore farà sentire il suo peso nell'agone mondiale.
In realtà quello che preme a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è evitare l'eccesso di liquidità per riparare le loro economie dal processo inflattivo, vero freno della crescita. Sul piano diplomatico i cinque paesi hanno sposato una politica del dialogo, che eviti conflitti armati, anche sotto la bandiera dell'ONU, in questo, perfettamente allineati con Cina e Russia, che fanno della non interferenza armata negli affari interni di altri stati un caposaldo della loro politica estera. Questa posizione è diametralmente opposta a quella americana, che è più volte ricorsa all'intervento armato, come nei casi di Iraq ed Afghanistan, e nel caso siriano anche a quella della Lega Araba, fautrice di un intervento a favore della ribellione contro Assad. Anche sulle sanzioni all'Iran, per la questione nucleare, non vi è identità di vedute con Washington, fatto oltre politico anche di convenienza economica, dato che Cina ed India rappresentano due principali importatori del petrolio di Teheran. Ma oltre le valutazioni contingenti quello che è più interessante rilevare è che si sta delineando all'orizzonte, non la nascita perchè quella vi è già stata, ma la consapevolezza della forza di un nuovo soggetto sovranazionale, unito non da vincoli di territorio o di politica, al suo interno vi sono democrazie e dittature, ma da legami di natura economica, da cui discendono le mosse sia diplomatiche, che, eventualmente, militari, pur se non espressamente dichiarate. L'obiettivo è quello di scardinare la potenza egemonica, sopratutto in campo finanziario, non quello operativo, bensì in quello della costruzione delle regole, di USA ed Europa. La pretesa di, almeno, affiancarsi nella stanza dei bottoni non pare illegittima, il peso produttivo e la stessa capacità finanziaria dei cinque paesi giustifica un loro maggiore coinvolgimento nella elaborazione di provvedimenti che per ora ricevono già confezionati. La volontà di proseguire sulla strada di un unione che avvantaggi i cinque membri alla rincorsa di USA ed Europa, va così a costituire un elemento di novità sul mercato mondiale, che andrà a contrastare le politiche occidentali; tuttavia pare anche difficile che paesi come Cina ed India, che sono concorrenti spietati, riescano a portare avanti una politica comune in armonia, che non intralci, cioè, i loro singoli programmi. Sta di fatto che la sfida è formalmente lanciata: un nuovo attore farà sentire il suo peso nell'agone mondiale.
mercoledì 28 marzo 2012
Le implicazioni della missione di Kofi Annan per la Siria
Mentre la Siria afferma di accettare il piano di Kofi Annan, che comprende un pacchetto in sei punti per le esigenze più immediate della popolazione, come un cessate il fuoco per permettere aiuti sanitari ed alimentari, allo stesso tempo respinge ogni iniziativa proposta dalla Lega Araba, in ragione della sospensione avvenuta in modo unilaterale di Damasco da questo organismo. La reazione siriana, invero scontata, rischia di aprire nuovi motivi di contrasto in un organismo già lacerato da profonde differenze. Va ricordato che la sospensione della Siria è avvenuta per il rifiuto di quest'ultima di di applicare, come promesso, un piano arabo per porre fine alla crisi. Questo contrasto rischia di diventare un punto forte della politica estera iraniana, ormai l'ultimo alleato di Assad. Un primo risultato è la partecipazione a Teheran dell'ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per un incontro con il governo iraniano sulla questione siriana. La necessità di Annan di incontrare i vertici dell'Iran, testimonia l'importanza della Repubblica Islamica, direttamente coinvolta nella questione e ridà visibilità ad una diplomazia appannata. L'occasione si presta, però, ad essere anche una cassa di risonanza dei soliti proclami iraniani contro gli USA, l'Europa e le monarchie arabe del Golfo, colpevoli di alimentare la rivolta contro Damasco e di praticare una politica anti iraniana. Alla base del viaggio dell'ex segretario dell'ONU vi è lo strappo sostanziale per le enormi differenze di vedute tra Iran e Turchia, che sulla Siria si trovano ormai su posizioni opposte; tuttavia è difficile che si riesca a colmare le differenze e fare rientrare in gioco la Lega Araba, proprio bloccata da questi contrasti, come organismo univoco. Per il momento tutti sembrano attendere l'esito della missione di Annan, che per altro ha già dato buoni risultati in Cina, ed ha aperto possibilità sulla variazione dell'atteggiamento russo. In questa fase anche gli USA e l'Europa stanno alla finestra, attendendo gli eventi. Devono restare in attesa, quindi, anche le monarchie del Golfo, prima fra tutte l'Arabia Saudita, che deve frenare la sua volontà di armare i ribelli siriani. Ma l'ipotesi non è scartata. Questa fase attendista da modo a tutti i contendenti di ripensare le proprie strategie ed una delle ragioni che hanno permesso che il piano di Annan venisse accettato, si sospetta che sia proprio l'esigenza di Assad di riorganizzarsi in vista del possibile annientamento della ribellione. Il Presidente siriano, d'altro canto, non ha soluzioni alternative, la sua permanenza al potere è possibile soltanto cancellando l'opposizione presente sul territorio e questa tregua conviene più a lui che ad altri proprio per elaborare una strategia definitiva. Se le esigenze geopolitiche Russe continueranno a considerare Damasco uno dei propri cardini strategici, per Assad potrebbero esserci ancora delle possibilità di rimanere al comando della Siria, viceversa, anche in ragione del mutato atteggiamento cinese, la sola alleanza con l'Iran non basterebbe a mantenerlo al potere. Quindi, se nell'immediato la missione di Annan, può portare benefici alla popolazione, in un'ottica di più lungo periodo, rischia di agevolare Assad, lasciando le ambizioni del popolo siriano di diventare una democrazia una vana speranza. Ma questo è il massimo che è riuscito a fare l'ONU bloccato dai veti incrociati nel Consiglio permanente, una prova in più della necessità più che urgente di una sua riforma.
La Tunisia non metterà la Sharia nella Costituzione
La Tunisia fa ancora da battistrada al mondo arabo. Dopo che la sua rivoluzione inaugurò la primavera araba, ora lo stato tunisino si sforza di presentarsi al mondo intero come laico, omettendo dalla nascente costituzione la tanto temuta citazione della Sharia. Tuttavia nel paese esistono profondi contrasti circa l'argomento, la crescente visibilità dei salafiti, minoranza religiosa che appoggia il governo, ha portato a crescenti differenze di vedute con i modernisti, che spingono per uno stato più laico, capace di affrontare i reali problemi del paese. In realtà il problema della Sharia è ritenuta da molta parte dell'opinione pubblica una falsa questione, giacchè la Tunisia già nell'articolo uno della Costituzione afferma che la religione dello stato è l'Islam. Quella della Sharia sarebbe una argomentazione per nascondere alla società civile le difficoltà dell'economia e la sempre più crescente disoccupazione. Ciò non è del tutto vero giacchè il programma di crescita economica del paese, che prevede un balzo del 4% ritenuto dai più troppo ottimistico, si basa maggiormente sul turismo. Diventa così essenziale arginare gli eccessi dei comportamenti da parte degli estremisti religiosi in nome di un pragmatismo sia politico, in grado cioè di presentare un paese moderno e non arroccato su posizioni troppo fondamentaliste, sia economico, per non deprimere il settore considerato trainante per l'economia, bollando come sconvenienti comportamenti, ormai quasi universalmente accettati, in special modo in paesi votati al turismo. Resta il fatto che, contrariamente ad altri paesi attraversati dalla primavera araba, la Commissione costituente ha respinto, con 59 voti contro 12, l'espressa citazione della Sharia nella legge fondamentale del paese, questo fatto, al di la di ogni considerazione di carattere accessorio, rappresenta un indubbio fattore di modernismo perchè indirizza il paese verso una democrazia di tipo laico, non contaminata da elementi estremistici fino da quella legge a cui dovranno conformarsi tutte le altre disposizioni legali elaborate dal parlamento. Si tratta, appunto, di una posizione che se farà scuola nel mondo arabo, permetterà una migliore convivenza con l'occidente, pur nel rispetto della diversa fede religiosa e consentirà ai propri cittadini una vita meno condizionata dal fattore religioso estremista. Per i paesi del Mediterraneo, sopratutto quelli europei della sponda settentrionale, si tratta di avere come interlocutore un paese che cerca di porsi non come stato teocratico ma come interlocutore laico. Questo aspetto non era scontato, ed anzi dopo i risultati elettorali che davano la vittoria ai partiti islamici moderati, vi era qualche apprensione nelle cancellerie europee, che temevano di avere come dirimpettaio un novello stato degli Imam. Le implicazioni, che potranno derivare dalla votazione della Commissione costituente Tunisina, sugli altri stati della primavera araba sono difficili da prevedere, le altre nazioni che si sono sollevate nello scorso anno sono maggiormente condizionate da formazioni islamiche a tendenza non moderata, tuttavia sullo slancio di quanto avvenuto a Tunisi non è escluso che il fatto dia un impulso maggiore alle formazioni laiche presenti nei vari paesi coinvolti nella trasformazione della forma di stato, verso una organizzazione maggiormente sganciata da vincoli religiosi.
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