Politica Internazionale

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venerdì 22 luglio 2011

Il punto sul conflitto libico

L'evoluzione del conflitto libico pare sempre più caotica e della conclusione non si può ancora intravedere la fine. Quello che doveva essere un conflitto veloce e di facile soluzione sta diventando sempre più una guerra di posizione ed un pasticcio diplomatico. Gli ultimi avvenimenti vedono impegnata la Russia, che cerca di portare il proprio contributo dal punto di vista diplomatico, ma che ingarbuglia ancora di più la questione. Mosca, fedele alla propria dottrina di neutralità, continua a condannare l'appoggio ed il riconoscimento ufficiale ai ribelli di Bengasi, proprio perchè nell'ambito di una guerra civile, l'occidente ed anche alcuni paesi arabi, hanno preferito una sola parte. Le ragioni di Mosca possono avere una qualche giustificazione, se si pensa che la risoluzione dell'ONU, prevedeva esclusivamente l'uso delle forza aerea per tutelare i civili. L'andamento del conflitto ha poi smentito questa direzione, con la Francia ed il Regno Unito come porta bandiera contro Gheddafi. Della difficoltà di stanare il colonnello i volenterosi erano consci, sopratutto l'Italia, che ha cercato, muovendosi sotto traccia, di trovare per il Rais di Tripoli una soluzione alternativa. Dai contatti con la Lega Africana si era anche prospettato un esilio dorato in un paese che aveva beneficiato dei contributi di Gheddafi, ad esempio era stata individuata l'Uganda. La volontà del colonnello si è sempre dimostrata contraria a questa soluzione e di fatto Tripoli non è mai caduta. La Francia, forse stanca del conflitto, ha ora tentato una via d'uscita, che smentisce tutto l'atteggiamento fino ad ora tenuto. La soluzione francese propone a Gheddafi di restare in Libia, ma al di fuori della politica. E' una evenienza impercorribile, che rivela l'affanno della diplomazia francese. Come conciliare la permanenza di Gheddafi in un paese passato, anche, magari, con elezioni, ai più ferrei oppositori del colonnello, sul quale, tra l'altro, grava anche un mandato di cattura da parte del Tribunale de L'Aja? Più soft ma sostanzialmente nella stessa direzione la posizione USA, che afferma che soltanto il popolo libico può decidere sulla permanenza di Gheddafi. Quello che appare è che dopo tanti tentativi i volenterosi si sono resi conto della difficoltà di stanare il Rais e quindi lasciano la patata bollente alla Libia stessa. Se il conflitto dovesse finire senza una soluzione definitiva, per le potenze occidentali sarebbe una figura pessima: una dimostrazione plateale delle loro incapacità militari e diplomatiche.

La crisi somala e la necesità della riforma dell'ONU

I ribelli somali, affiliati ad Al Qaeda, non gradiscono gli aiuti umanitari, ed anzi, avrebbero anche affermato che la situazione presente nel paese riguarda solo la siccità ma non la carestia. L'ONU è incolpata di dire il falso per potere giustificare il tentativo di entrare nelle zone occupate dai ribelli islamici. La reazione è dovuta alla organizzazione del ponte aereo da parte del PAM (Programma Alimentare Mondiale), agenzia specializzata dell'ONU, per rifornire Mogadiscio di generi alimentari e medici. Di fatto, alla siccità, si aggiunge il terrorismo, come causa della carestia e della denutrizione. Se gli operatori dell'ONU, venissero attaccati, mentre cercano di porre riparo alle gravi condizioni del popolo somalo, si aprirebbero le condizioni per un intervento armato, coperto sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. In verità già la minaccia degli estremisti, noti per la loro rigidità religiosa, pone le basi per pensare ad un intervento umanitario sostenuto e protetto da forze armate. Per l'occidente sarebbe l'occasione di dimostrare le buone intenzioni anche in paesi senza giacimenti di materie prime rilevanti. Ancora una volta la centralità della questione passa attraverso la lunga burocrazie e le estenuanti trattative ONU, ed ancora una volta la mancanza di mezzi agili e procedure veloci, impediscono soluzioni efficaci. La cronaca propone sempre di più esempi che chiariscono come sia necessaria una riforma urgente delle Nazioni Unite, che comprenda una propria forza militare e propri dicasteri capaci di eleborazione ed intervento diretto. Non è l'utopia del governo mondiale ma la necessità, sempre maggiore, di operare in un teatro globale che richiede soluzioni rapide a cambiamenti veloci. Gli attori che si muovono su questo palcoscenico hanno tempi ridotti di manovra, il caso somalo e più in generale del Corno d'Africa costituiscono esempi esaustivi. La comunità internazionale non può concedere ad un gruppo terroristico la facoltà di vita o di morte su di un popolo intero, altrimenti vanifica altri interventi, che seppure possono essere inquadrati in una logica meritoria di soccorso, sono messi in dubbio da atteggiamenti successivi, che inficiano quelli precedenti. In questo quadro la coordinazione ed anche il comando dell'ONU, deve essere più fattivo e determinante senza più indugi.

giovedì 21 luglio 2011

L'emergenza del Corno d'Africa e le reponsabilità occidentali

L'emergenza del Corno d'Africa si aggrava giorno per giorno. La catastrofe annunciata dai metereologi è stata sottovalutata dalle uniche organizzazioni che potevano dare un assetto organizzativo per prevenire la crisi: l'ONU e le altre ONG deputate al compito. Si è dato così sfogo ad una migrazione di proporzione biblica nella quasi totale indifferenza del mondo, occupato a scegliere dove mettere i propri cannoni, quale guerra era più conveniente fare. L'ONU ha più volte accampato la scusa della guerra in corso in Somalia, che effettivamente rappresenta uno scoglio di grosse proporzioni, ma l'intervento di una forza di pace, per permettere agli operatori umanitari di svolgere il loro compito non è mai stata presa in considerazione. Ancora una volta il mondo occidentale parla a vanvera di cooperazione, sviluppo e tralascia la messa in pratica di propositi che servono solo a riempire le tasche di funzionari ben pagati, che elaborano faraonici progetti che restano sulla carta. Nazioni in grossa difficoltà economica, come il Kenya, sono costretti ad ospitare campi profughi giganteschi, senza avere la forza di gestirli. Popoli interi dediti esclusivamente alla pastorizia migrano da un punto all'altro di pianure sconfinate alla ricerca di fonti d'acqua prosciugate. Il livello di denutrizione e di prostrazione non impedisce loro di dare vita a duri contrasti per il bene più prezioso: l'acqua. Ma è un circolo vizioso, senza acqua gli animali muoiono e dopo di loro gli uomini. L'aumento delle materie prime incide anche in queste società arcaiche, la difficoltà di coltivare il grano, l'alimento base, spinge anche i coltivatori a mettersi in marcia, contribuendo ad ingrossare la massa dei disperati per fame. Sembra che l'orologio della storia si muova all'indietro, nessun progresso tecnico e scientifico, per questi popoli ha cambiato il loro destino, nel terzo millennio morire ancora di fame è un interrogativo su cui gli storici avranno da scrivere montagne di libri. Ma è impossibile non vedere il colpevole che sta dietro a questa tragedia: ancora una volta la parte ricca del mondo non ha saputo razionalizzare le risorse, anche nel proprio interesse, limitandosi a trincerarsi dietro gli steccati delle frontiere dei propri confini. Tra poco non basteranno più le leggi restrittive per proteggerli dalla pressione dei disperati per fame, l'emergenza diventerà anche fatto politico perchè arriverà dentro ai confini del mondo ricco; ma per ora bisogna interrogarsi, ancora una volta, sugli scopi e la reale legittimità in vita delle ONG. Senza una riforma radicale, esse costituiscono un orpello che l'intero mondo non può più permettersi.

mercoledì 20 luglio 2011

Una donna ministro degli esteri in Pakistan

La carica di ministro degli esteri del Pakistan, vacante da febbraio, e’ stata, per la prima volta, ad una donna: Hina Khar Rabbani, che con i suoi 34 anni risulta essere anche il ministro piu’ giovane della compagine governativa. La nuova ministro succede a Shah Mehmud Qureshi ed e’ ritenuta una persona capace con profonda conoscenza delle problematiche diplomatiche inerenti al proprio paese. L’incarico governativo e’ gia’ iniziato con il viaggio in Indonesia per la partecipazione al vertice dell’Associazione del Sed Est Asiatico, dove incontrera’, tra gli altri, il ministro degli esteri cinese Yang Jechi ed anche Hillary Clinton. Sull’agenda degli appuntamenti futuri della nuova titolare del dicastero degli esteri pakistano, ci sono temi cruciali per l’interesse dell’intero panorama internazionale. Il tema piu’ scottante costituisce la normalizzazione dei rapporti con gli USA, deterioratisi dopo l’operazione avvenuta in territorio pakistano che ha portato alla morte di Bin Laden. L’episodio costituisce, comunque la punta dell’iceberg dei difficili rapporti con gli Stati Uniti, che hanno piu’ volte rilevato il doppio gioco dell’apparato pakistano, sopratutto da parte dei servizi segreti. Gli USA ritengono ancora recuperabile il rapporto con i pakistani, anche perche’ ne hanno ancora esigenza come alleati nella lotta contro i talebani di stanza al confine afghano. Un altro tema importante che il nuovo ministro dovra’ affrontare e’ costituito dalla trattativa con l’India, storico nemico pakistano per lasciare definitivamente lo stato di tensione permanente tra i due stati. I colloqui sono previsti per il 26 luglio a Nuova Delhi.

martedì 19 luglio 2011

Gli USA vogliono la pace tra Turchia ed Israele

Gli USA spingono per una pacificazione nei rapporti tra Israele e Turchia. Considerati fondamentali nello scacchiere mediorientale i due paesi, hanno rotto le relazioni diplomatiche, dopo gli incidenti creati dai militari israeliani nei confronti dei pacifisti turchi, che intendevano forzare il blocco navale della striscia di Gaza, per portare aiuti umanitari al popolo palestinese. Dopo questo episodio, giunto al rifiuto alla Turchia, da parte di Bruxelles, per entrare a far parte dell'Unione Europea, l'Ankara si è ritagliata un proprio spazio da protagonista nell'area mediorientale, sia dal punto di vista politico che economico, diventando il paese di riferimento della regione. Pur restando un fedele alleato americano, la Turchia ha allacciato accordi commerciali con l'Iran e la Siria, ed ha intrapreso iniziative di peso politico nell'area ed anche oltre, come ha dimostrato l'attivismo nell'occasione della guerra libica. Si può dire, senza ombra di dubbio, che la Turchia è sfuggita dall'ombrello americano, denunciando una crescente personalità ed iniziativa. Nello scacchiere regionale la mancata pacificazione dei rapporti, prima buoni, tra i due paesi, rappresenta un evidente ostacolo nei piani americani, sopratutto in questa fase storica. Tel Aviv è sottoposto sostanzialmente ad un accerchiamento, per ora non pericoloso, ma comunque tale da tenere sotto pressione l'apparato israeliano, già in apprensione per gli sviluppi della primavera araba. Con Hezbollah alla guida del Libano e la Siria in subbuglio, di fatto l'unica frontiera tranquilla è quella con la Giordania. Gli USA hanno tutto l'interesse a normalizzare le relazioni tra i due paesi, perchè ritengono indispensabili le basi turche, in caso di peggioramento della situazione per Israele. Il diniego all'utilizzo da parte turca causerebbe enormi problemi logistici alle truppe americane, nel peggior caso previsto: l'attacco iraniano ad Israele. L'ipotesi è certo remota, perchè una guerra del genere riguarderebbe un coinvolgimento più ampio di paesi, tuttavia è contemplata sia dagli strateghi americani che da quelli israeliani; ma per i primi è fondamentale l'appoggio turco. E' proprio per questo che i diplomatici USA, stanno cercando tutte le vie possibili per cercare la pace tra le due nazioni.

Cina: il problema del separatismo etnico

Duri scontri nella regione autonoma dello Xinjiang, nell' estremo ovest cinese, tra le forze dell'ordine e gli indipendentisti Uiguri. Sono stati assaltati edifici governativi e la repressione della polizia è stata pesante, si contano diversi morti tra i dimostranti. Il problema delle minoranze etniche nell'impero cinese, torna così alla ribalta, nella gestione dei fenomeni di opposizione all'interno dell'impero cinese. Gli Uiguri, etnia turcofona di religione islamica, patiscono la politica che Pechino usa applicare alle minoranze etniche, quando queste sono maggioranza nella regione di appartenenza. Per la Cina, la massiccia coesione etnica rappresenta una impermeabilità alla penetrazione dell'apparato statale e di conseguenza costituisce un fattore di minore controllo. La strategia cinese, per affrontare questi problemi non è la valorizzazione delle specificità all'interno dell'ambito statale, ma la diluizione della concentrazione etnica, mediante robuste iniezioni di immigrazione di popolazione cinese di etnia differente. L'applicazione di questo schema prosegue con l'indebolimento della cultura etnica, la restrizione della libertà religiosa e sopratutto, l'impoverimento della regione, con lo sfruttamento delle risorse spostato verso l'immigrazione cinese. Questo modo di combattere le minoranze provoca sempre più sollevazioni contro l'autorità centrale, rappresentata dagli uffici periferici presenti sul territorio. Nel caso specifico siamo di fronte non ad una nuova sollevazione, causata anche dagli effetti di quella del 2009, conclusa con la sparizione di diverse persone, di cui i parenti non hanno più avuto notizie. Per Pechino la versione riguarda invece atti terroristici da addebitare agli indipendentisti uiguri, che cercano di staccare il territorio della Repubblica Popolare Cinese per formare lo stato indipendente del Turkmenistan orientale. Il separatismo uiguro costituisce un pericolo per l'integrità dello stato e rischia di provocare sollevazioni a catena, per emulazione, in altre zone del paese con problemi analoghi. Questo provoca l'inasprimento della repressione cinese con continua violazione dei diritti umani, difficilmente dimostrabile perchè le zone vengono interdette alla stampa libera. La questione rappresenta comunque una ulteriore spia del disagio presente in Cina, sempre più schiacciata tra industrializzazione estrema e mancanza dei diritti sociali, sperequazione economica spinta e tensioni localistiche.

lunedì 18 luglio 2011

Il confine marino nuovo fronte tra Libano ed Israele

Un nuovo motivo di potenziale conflitto grava su Libano ed Israele. La possibile presenza di giacimenti di idrocarburi sul confine delle acque territoriali dei due stati rischia di trasformarsi in ulteriore motivo di attrito. La differenza, in definitiva è minima, si tratta di circa 17 chilometri, su cui si gioca il confine della zona economica esclusiva che corre tra le due nazioni, quella zona, cioè, il cui sfruttamento è appannaggio dello stato titolare, come avviene per le miniere sulla terra ferma. Tutto parte dall'armistizio del 1949, che fissava un limite tripartito delle acque tra gli stati di Cipro, Israele e Libano. Successivamente Israele ha concordato un nuovo accordo con Cipro, ratificato dal parlamento israeliano nel 2010, che sposta il punto del confine delle acque dei due stati, spostato proprio dei 17 chilometri in questione. Il Libano, da parte sua, non ha mai ratificato il confine fissato nel 1949, a causa delle pressioni turche, dovute all'annosa guerra con Nicosia. L'errore libanese ha indotto Israele a superare i confini marini fissati, appunto, nel 1949. Il Libano, firmatario della convenzione dei diritti del mare, al contrario di Israele, ha cercato di appellarsi alle Nazioni Unite e quindi al Tribunale dei conflitti del mare, ma tecnicamente la soluzione è impossibile, perchè non è permesso dirimere una controversia tra due stati che non si riconoscono reciprocamente. A questa fase di stallo hanno fatto seguito le minacce: Hezbollah, al governo in Libano, ha promesso da subito di difendere con le armi l'integrità dello stato libanese, per contro, Israele ha accusato il gruppo estremista al governo ed il suo principale alleato, l'Iran, di utilizzare queste ragioni con scopi del tutto secondari, per fomentare, cioè, l'ostilità anti israeliana. Dietro tutto questo, la fame di energia di entrambi gli stati, che ha scoperto questo nuovo fronte, su di un tratto di mare finora ignorato.