Politica Internazionale

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lunedì 25 luglio 2011

La Cina alla conquista della Grecia

La crisi greca apre opportunità nuove per chi, come la Cina, dispone di una elevata liquidità. Per rientrare del forte debito saranno diversi i settori che dovranno essere privatizzati. Le opportunità commerciali riguarderanno i settori dell'energia, dei trasporti e dei servizi essenziali. La Cina è già presente con sue imprese sul territorio di Atene ed ha espresso felicitazioni per il secondo salvataggio, operato dalle istituzioni europee, manifestando interesse ad entrare sempre di più nel mercato greco, grazie ad un piano di grandi investimenti nei settori pubblici che saranno privatizzati. Particolare attenzione al settore portuale, dove la Cina ha già investito somme ingenti e che nel proprio programma vuole portare il porto del Pireo al primo posto per movimentazione container. La politica di espansione commerciale cinese sta puntando sempre più verso l'Europa, considerato ancora un mercato appetibile, nonostante sia giudicato da molti un mercato saturo. Il gigante cinese non può perdere alcuna opportunità per dare sfogo alla propria produzione, che sta crescendo a ritmi sempre elevati. L'insufficienza del mercato interno e la mancata crescita di alcune zone individuate come in espansione, ma non abbastanza, determina comunque la necessità di investire in altri mercati. La mossa di acquisire il porto greco del Pireo significa la reale intenzione di creare una base per aumentare le esportazioni verso l'europa, considerarata, comunque, un mercato affidabile.

sabato 23 luglio 2011

La vicenda del debito USA ed una provocazione

Il dibattito intorno al debito pubblico americano è in realtà lo scontro tra due visioni di amministrare lo stato. La vittoria elettorale di Obama è arrivata grazie ad un programma imperniato sulla spesa pubblica orientata, in special modo, verso il welfare. Si è trattato della ricerca di un cambio della mentalità nel sistema americano, spostando ingenti voci del capitolo di bilancio verso aspetti prima tradizionalmente trascurati. L'aumento del volume di spesa, giunto alla difficile congiuntura economica, ha messo in grossa difficoltà le casse degli Stati Uniti ed Obama si è trovato a dovere gestire un programma non realizzato del tutto. A questo si può ascrivere, almeno in parte, il successo nelle elezioni di medio periodo del Partito Repubblicano, che, notoriamente, ha una minore propensione alla spesa statale , sopratutto nei confronti dell'ambito sociale. Questo dibattito, che ha assunto anche toni drammatici, se non dovesse arrivare ad una soluzione condivisa, potrebbe portare l'intera economia ad una crisi difficilmente superabile. Le proposta di Obama riguarda il taglio di alcuni programmi sociali che prevedevano una spesa ingente, tuttavia a copertura della sforbiciata, il presidente richiede un aumento delle tasse per rilanciare, almeno in parte il proprio programma elettorale. Obama ha già fatto con questa proposta un passo per andare incontro alla controparte, ma l'argomento delle tasse costituisce un tabù per la dirigenza repubblicana, che non si mostra intenzionata ad arretrare. Il vero nodo è il debito pubblico, il solo taglio della spesa pubblica non basta a diminuirlo considerevolmente, senza nuove entrate la bilancia non si muove abbastanza. Con questa situazione di stallo il pericolo di fallimento è sempre più dietro l'angolo. Alla fine ragioni puramente elettorali interne agli Stati Uniti, possono decretare un effetto domino sconvolgente per tutto il mondo. A peggiorare le cose l'appuntamento elettorale del 2012, che rischia di irrigidire ancora di più le rispettive posizioni grazie al timore di vedere eroso il capitale di voti per ciascun schieramento, che potrebbe assotigliarsi in caso uno o entrambi i contendenti cedessero troppo terreno rispetto alle posizioni di partenza. In questa situazione pensare ad una mediazione anche esterna sarebbe una ingerenza nella politica interna di uno stato? Dato l'alto tasso di globalizzazione, di cui gli USA sono sempre stati fautori, autorizza a pensare che, anche data la grandezza della potenziale ricaduta sul sistema economico globale, un eventuale intervento esterno, che potrebbe andare dalla semplice mediazione tra le parti fino ad una messa sotto tutela della politica finanziaria statunitense, non sia poi una idea così peregrina. L'evenienza potrebbe sembrare fantapolitica, ma si prenda, con le debite differenze, il caso greco o anche, sconfinando in altri campi, l'esportazione delle democrazia e non si può non ammettere che le analogie non siano presenti. E' chiaro che questa provocazione ha delle implicazioni fondamentali perchè in un caso simile gli USA abdicherebbero al proprio ruolo di prima potenza mondiale, portato avanti, peraltro, ultimamente con grande fatica. Del resto il solo pensare a questa possibilità è già qualcosa di epocale.

L'attentato di Oslo e la xenofobia europea

Il tragico attentato di Oslo è lo specchio dei problemi europei. Un paese al di sopra della media, in buona situazione economica ma alle prese con il problema dell'integrazione e della crescita della destra xenofoba. La Norvegia conta circa quattro milioni di abitanti, con la presenza di circa 150.000 musulmani, nonostante l'ottimo sistema di welfare presente, le tensioni alimentate dalla crescita dei movimenti anti immigrati hanno provocato una spaccatura all'interno del tessuto sociale. Infatti la prima attribuzione a terrorismo di matrice islamica pare naufragata a vantaggio di dinamiche interne al paese. Nonostante la situazione permanga ancora poco chiara, i motivi che sono stati elaborati a sostegno della prima tesi sono stati frutto di una visione stereotipata dell'attacco terroristico. Non che non fosse o sia possibile, ma le ragioni addotte sono parse da subito deboli. La presenza di 400 soldati norvegesi in Afghanistan o le vignette su Maometto, ragionevolmente non sembravano sufficienti a scatenare questa tragedia. La psicosi dell'attentato integralista, si è ormai impadronita della pubblica opinione, tanto da essere immediatamente tirata in causa nel caso di accadimenti di questa portata. Nei momenti immediatamente successivi all'attentato sono fiorite analisi avventate e precipitose, che non possono avere favorito una disanima fredda e ragionata dei fatti. Pur essendo ancora nell'ambito delle ipotesi, alla fine la maggiore probabilità sembra da imputarsi, appunto a dinamiche interne del paese, nell'ambito di una dialettica deteriorata, dove i capi dei gruppi di estrema destra sono stati i cattivi maestri, senza avere neppure la scusa di una situazione economica difficile. Ecco il punto dolente per l'Europa, l'affermazione di idee xenofobe, anche in società senza apparenti problemi, costituisce ormai l'allarme, non solo sociale ma sopratutto politico, che rappresenta uno degli ostacoli maggiori per l'integrazione del vecchio continente. La visione della pubblica opinione, anche di chi non condivide la xenofobia, risulta condizionata da una dicotomia nord-sud difficilmente superabile senza azioni dell'istituzione centrale. Questo caso tragico deve rappresentare uno stimolo per sviluppare gli anticorpi alla visione, sempre più imperante, anti integrazione e costituire la base di partenza per un maggiore spirito unificatore.

venerdì 22 luglio 2011

Il punto sul conflitto libico

L'evoluzione del conflitto libico pare sempre più caotica e della conclusione non si può ancora intravedere la fine. Quello che doveva essere un conflitto veloce e di facile soluzione sta diventando sempre più una guerra di posizione ed un pasticcio diplomatico. Gli ultimi avvenimenti vedono impegnata la Russia, che cerca di portare il proprio contributo dal punto di vista diplomatico, ma che ingarbuglia ancora di più la questione. Mosca, fedele alla propria dottrina di neutralità, continua a condannare l'appoggio ed il riconoscimento ufficiale ai ribelli di Bengasi, proprio perchè nell'ambito di una guerra civile, l'occidente ed anche alcuni paesi arabi, hanno preferito una sola parte. Le ragioni di Mosca possono avere una qualche giustificazione, se si pensa che la risoluzione dell'ONU, prevedeva esclusivamente l'uso delle forza aerea per tutelare i civili. L'andamento del conflitto ha poi smentito questa direzione, con la Francia ed il Regno Unito come porta bandiera contro Gheddafi. Della difficoltà di stanare il colonnello i volenterosi erano consci, sopratutto l'Italia, che ha cercato, muovendosi sotto traccia, di trovare per il Rais di Tripoli una soluzione alternativa. Dai contatti con la Lega Africana si era anche prospettato un esilio dorato in un paese che aveva beneficiato dei contributi di Gheddafi, ad esempio era stata individuata l'Uganda. La volontà del colonnello si è sempre dimostrata contraria a questa soluzione e di fatto Tripoli non è mai caduta. La Francia, forse stanca del conflitto, ha ora tentato una via d'uscita, che smentisce tutto l'atteggiamento fino ad ora tenuto. La soluzione francese propone a Gheddafi di restare in Libia, ma al di fuori della politica. E' una evenienza impercorribile, che rivela l'affanno della diplomazia francese. Come conciliare la permanenza di Gheddafi in un paese passato, anche, magari, con elezioni, ai più ferrei oppositori del colonnello, sul quale, tra l'altro, grava anche un mandato di cattura da parte del Tribunale de L'Aja? Più soft ma sostanzialmente nella stessa direzione la posizione USA, che afferma che soltanto il popolo libico può decidere sulla permanenza di Gheddafi. Quello che appare è che dopo tanti tentativi i volenterosi si sono resi conto della difficoltà di stanare il Rais e quindi lasciano la patata bollente alla Libia stessa. Se il conflitto dovesse finire senza una soluzione definitiva, per le potenze occidentali sarebbe una figura pessima: una dimostrazione plateale delle loro incapacità militari e diplomatiche.

La crisi somala e la necesità della riforma dell'ONU

I ribelli somali, affiliati ad Al Qaeda, non gradiscono gli aiuti umanitari, ed anzi, avrebbero anche affermato che la situazione presente nel paese riguarda solo la siccità ma non la carestia. L'ONU è incolpata di dire il falso per potere giustificare il tentativo di entrare nelle zone occupate dai ribelli islamici. La reazione è dovuta alla organizzazione del ponte aereo da parte del PAM (Programma Alimentare Mondiale), agenzia specializzata dell'ONU, per rifornire Mogadiscio di generi alimentari e medici. Di fatto, alla siccità, si aggiunge il terrorismo, come causa della carestia e della denutrizione. Se gli operatori dell'ONU, venissero attaccati, mentre cercano di porre riparo alle gravi condizioni del popolo somalo, si aprirebbero le condizioni per un intervento armato, coperto sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. In verità già la minaccia degli estremisti, noti per la loro rigidità religiosa, pone le basi per pensare ad un intervento umanitario sostenuto e protetto da forze armate. Per l'occidente sarebbe l'occasione di dimostrare le buone intenzioni anche in paesi senza giacimenti di materie prime rilevanti. Ancora una volta la centralità della questione passa attraverso la lunga burocrazie e le estenuanti trattative ONU, ed ancora una volta la mancanza di mezzi agili e procedure veloci, impediscono soluzioni efficaci. La cronaca propone sempre di più esempi che chiariscono come sia necessaria una riforma urgente delle Nazioni Unite, che comprenda una propria forza militare e propri dicasteri capaci di eleborazione ed intervento diretto. Non è l'utopia del governo mondiale ma la necessità, sempre maggiore, di operare in un teatro globale che richiede soluzioni rapide a cambiamenti veloci. Gli attori che si muovono su questo palcoscenico hanno tempi ridotti di manovra, il caso somalo e più in generale del Corno d'Africa costituiscono esempi esaustivi. La comunità internazionale non può concedere ad un gruppo terroristico la facoltà di vita o di morte su di un popolo intero, altrimenti vanifica altri interventi, che seppure possono essere inquadrati in una logica meritoria di soccorso, sono messi in dubbio da atteggiamenti successivi, che inficiano quelli precedenti. In questo quadro la coordinazione ed anche il comando dell'ONU, deve essere più fattivo e determinante senza più indugi.

giovedì 21 luglio 2011

L'emergenza del Corno d'Africa e le reponsabilità occidentali

L'emergenza del Corno d'Africa si aggrava giorno per giorno. La catastrofe annunciata dai metereologi è stata sottovalutata dalle uniche organizzazioni che potevano dare un assetto organizzativo per prevenire la crisi: l'ONU e le altre ONG deputate al compito. Si è dato così sfogo ad una migrazione di proporzione biblica nella quasi totale indifferenza del mondo, occupato a scegliere dove mettere i propri cannoni, quale guerra era più conveniente fare. L'ONU ha più volte accampato la scusa della guerra in corso in Somalia, che effettivamente rappresenta uno scoglio di grosse proporzioni, ma l'intervento di una forza di pace, per permettere agli operatori umanitari di svolgere il loro compito non è mai stata presa in considerazione. Ancora una volta il mondo occidentale parla a vanvera di cooperazione, sviluppo e tralascia la messa in pratica di propositi che servono solo a riempire le tasche di funzionari ben pagati, che elaborano faraonici progetti che restano sulla carta. Nazioni in grossa difficoltà economica, come il Kenya, sono costretti ad ospitare campi profughi giganteschi, senza avere la forza di gestirli. Popoli interi dediti esclusivamente alla pastorizia migrano da un punto all'altro di pianure sconfinate alla ricerca di fonti d'acqua prosciugate. Il livello di denutrizione e di prostrazione non impedisce loro di dare vita a duri contrasti per il bene più prezioso: l'acqua. Ma è un circolo vizioso, senza acqua gli animali muoiono e dopo di loro gli uomini. L'aumento delle materie prime incide anche in queste società arcaiche, la difficoltà di coltivare il grano, l'alimento base, spinge anche i coltivatori a mettersi in marcia, contribuendo ad ingrossare la massa dei disperati per fame. Sembra che l'orologio della storia si muova all'indietro, nessun progresso tecnico e scientifico, per questi popoli ha cambiato il loro destino, nel terzo millennio morire ancora di fame è un interrogativo su cui gli storici avranno da scrivere montagne di libri. Ma è impossibile non vedere il colpevole che sta dietro a questa tragedia: ancora una volta la parte ricca del mondo non ha saputo razionalizzare le risorse, anche nel proprio interesse, limitandosi a trincerarsi dietro gli steccati delle frontiere dei propri confini. Tra poco non basteranno più le leggi restrittive per proteggerli dalla pressione dei disperati per fame, l'emergenza diventerà anche fatto politico perchè arriverà dentro ai confini del mondo ricco; ma per ora bisogna interrogarsi, ancora una volta, sugli scopi e la reale legittimità in vita delle ONG. Senza una riforma radicale, esse costituiscono un orpello che l'intero mondo non può più permettersi.

mercoledì 20 luglio 2011

Una donna ministro degli esteri in Pakistan

La carica di ministro degli esteri del Pakistan, vacante da febbraio, e’ stata, per la prima volta, ad una donna: Hina Khar Rabbani, che con i suoi 34 anni risulta essere anche il ministro piu’ giovane della compagine governativa. La nuova ministro succede a Shah Mehmud Qureshi ed e’ ritenuta una persona capace con profonda conoscenza delle problematiche diplomatiche inerenti al proprio paese. L’incarico governativo e’ gia’ iniziato con il viaggio in Indonesia per la partecipazione al vertice dell’Associazione del Sed Est Asiatico, dove incontrera’, tra gli altri, il ministro degli esteri cinese Yang Jechi ed anche Hillary Clinton. Sull’agenda degli appuntamenti futuri della nuova titolare del dicastero degli esteri pakistano, ci sono temi cruciali per l’interesse dell’intero panorama internazionale. Il tema piu’ scottante costituisce la normalizzazione dei rapporti con gli USA, deterioratisi dopo l’operazione avvenuta in territorio pakistano che ha portato alla morte di Bin Laden. L’episodio costituisce, comunque la punta dell’iceberg dei difficili rapporti con gli Stati Uniti, che hanno piu’ volte rilevato il doppio gioco dell’apparato pakistano, sopratutto da parte dei servizi segreti. Gli USA ritengono ancora recuperabile il rapporto con i pakistani, anche perche’ ne hanno ancora esigenza come alleati nella lotta contro i talebani di stanza al confine afghano. Un altro tema importante che il nuovo ministro dovra’ affrontare e’ costituito dalla trattativa con l’India, storico nemico pakistano per lasciare definitivamente lo stato di tensione permanente tra i due stati. I colloqui sono previsti per il 26 luglio a Nuova Delhi.