Politica Internazionale

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venerdì 28 ottobre 2011

La Cina scende in campo per il finanziamento della zona Euro

La Cina sta valutando sulla possibilità di intervenire, con investimenti sostanziosi, direttamente entro i confini del debito dell'Eurozona. Per Pechino è vitale che i paesi dell'area euro non entrino in una crisi letale per le loro economie, che sono i migliori clienti delle merci cinesi. Non si tratta, infatti, come è logico di una operazione di beneficenza, la Cina ha necessità di non vedere ridursi la propria crescita oltre un livello determinato, per continuare a finanziare il proprio sviluppo. Presente la contrazione interna, Pechino deve fare tutto il possibile per sostenere la domanda all'estero dei propri prodotti ed inoltre deve diversificare l'investimento della propria grande liquidità disponibile. Infatti gli ingenti investimenti effettuati negli USA e che sono in sofferenza per le difficoltà dell'economia americana, necessitano di alternative, da cui ricavare anche guadagni di tipo politico, come, peraltro avvenuto negli Stati Uniti. Un primo salvagente per la zona euro potrebbe essere emesso nella misura di cento miliardi di dollari, che andebbero comunque ad aggiungersi ai più di 500 miliardi di dollari già investiti dal dragone cinese nel debito dei paesi europei. La destinazione della liquidità cinese potrebbe andare alimentare il già presente fondo salva stati oppure, in alternativa, il nuovo fondo che verrà creato. La Cina ha lasciato anche aperta la porta ad ulteriori investimenti nel caso si verificassero delle condizioni capaci di favorire la cooperazione bilaterale su benfici reciproci. Dietro queste parole si nasconde, neanche troppo velatamente, l'intenzione della Cina di assumere piena dignità come stato industriale, senza risolvere gli annosi problemi legati ai diritti sindacali e politici dei lavoratori e dei cittadini cinesi, per diventare una vera e propria economia di mercato. Pechino tenta di sfruttare il momento di debolezza dell'economia europea per non adeguarsi ai criteri della concorrenza, mantenendo il basso costo del lavoro e vendendo merci prodotte in assoluta assenza di garanzie per i lavoratori, permettendo così un prezzo di mercato più basso. Un'altra questione a cuore del governo cinese è l'abbattimento dei dazi, che secondo Pechino costituiscono una barriera alla concorrenzialità delle merci cinesi. In effetti è proprio questa la ragione di essere di tali dazi, compensare, almeno in parte le condizioni che favoriscono i prezzi bassi cinesi. Nonostante le difficoltà finanziarie presenti, l'Europa deve diffidare dalle offerte cinesi, che, se accolte, aprirebbero le porte senza limitazione alcuna, allo strapotere di Pechino in campo economico, rischiando di ridurre al rango di colonia, in un futuro neanche troppo lontano, il vecchio continente.

giovedì 27 ottobre 2011

Un conservatore come erede al trono saudita

La morte del principe ereditario saudita mette in pole position il potente ministro degli interni Nayef nella posizione di nuovo successore al trono. Nato nel 1933, ha ricoperto già in diverse occasioni la guida del paese quando il re saudita ha subito i recenti interventi chirurgici negli Stati Uniti. Il nuovo delfino è uomo di stato di orientamento conservatore che ha legami profondi con la setta wahhabita, che ha una visione molto rigida della parte sunnita dell'islam. L'attuale momento dell'Arabia Saudita, non pare tuttavia, uno dei migliori per l'ascesa di Nayef, con il paese impegnato in profondi contrasti interni sia dal lato delle richieste democratiche, che dal lato dei problemi con la minoranza scita, che richiede maggiore autonomia e migliori condizioni di trattamento, sia sul fronte dei diritti politici, che del lavoro. L'avvento di un conservatore rischia di irrigidire il dialogo e rallentare le timide riforme recentemente concesse, sia nei maggiori investimenti in favore di una sorta di welfare nascente, che nelle timide aperture politiche concretizzatesi con la possibilità dell'esercizio di voto nelle consultazioni a livello comunale. Nayef è un sostenitore della polizia religiosa, il Mutawa, fortemente criticato dai sauditi per i metodi spesso brutali con cui impone i propri criteri di moralità. Questa rigidità fa temere molti analisti che venga intrapresa una via ancora più repressiva, specialmente nei confronti delle minoranze in un momento in cui sarebbe necessaria una maggiore flessibilità per favorire un approccio più morbido ai problemi. Sul fronte della politica estera, proprio l'aspetto fortemente religioso lo pone come un nemico dell'Iran maggiore rappresentante della parte scita dell'Islam, continuando così nel solco tradizionale dei governanti sauditi e non ci dovrebbero essere variazioni neppure sull'alleanza con gli Stati Uniti, dove l'Arabia continuerà ad essere uno dei maggiori alleati strategici sia a livello regionale che globale, dal punto di vista militare che energetico. Tuttavia data l'età avanzata, i maggiori esperti di cose arabe, ritengono che l'erede al trono sarà un sovrano di transizione in attesa di nuova linfa che vada a ringiovanire il vertice del paese.

mercoledì 26 ottobre 2011

Il Qatar sostituirà la NATO in Libia

La NATO afferma di avere esaurito i propri compiti in Libia. Il capo di stato maggiore britannico, David Richards, in una riunione tra i comandanti dei paesi NATO, che hanno partecipato alla missione libica ed il CNT, ha dichiarato che i compiti dell'alleanza erano essenzialmente tre: fare rispettare la no fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, come deciso dall'ONU; terminati questi incarichi non vi è più ragione di restare sul territorio libico. L'organizzazione atlantica cerca di sganciarsi facendo passare il fatto di avere adempiuto ai propri compiti in un'ottica puramente legalitaria, tuttavia, senza entrare nel merito della strategia politica dell'abbattimento del regime di Gheddafi, occorre rilevare che, per almeno il terzo punto, l'incarico NATO non è stato del tutto assolto. Infatti l'accanimento di alcune parti dei ribelli contro civili ritenuti, a torto o a ragione, fedeli al colonnello è stato troppo tollerato dalle forze dei volenterosi, che hanno lasciato dare libero sfogo a ritorsioni e vendette. Questo tralasciando il trattamento inumano riservato ai combattenti lealisti ed ignorato dalla NATO, che ha tentato di ripulirsi la coscienza proclamando a gran voce aperture di inchieste sul tema. Se la NATO lascerà il paese, la Libia non sarà lasciata sola a ricostruire le proprie forze armate e di polizia. Sarà infatti, probabilmente il Qatar a capo di una nuova forza multinazionale che sosterà nel paese oltre la fine dell'anno ed almeno fino a quando le condizioni del paese non saranno tali da garantire un adeguato livello di sicurezza interna. Le forze armate del Qatar avrebbero già operato con effettivi di terra nella guerra libica a fianco delle forze del CNT, tuttavia questa partecipazione non è mai stata riconosciuta dal governo del Qatar, che ha sempre smentito in modo ufficiale l'impiego di propri soldati direttamente sul campo di battaglia. L'appoggio al CNT necessitava di forze di terra direttamente sul terreno a completare il lavoro della forza aerea, ma il grosso degli uomini impiegati non poteva non provenire da un paese musulmano, per non urtare la suscettibilità della popolazione e sopratutto non generare dubbi circa possibili intenzioni "colonialistiche" di eventuali paesi occidentali presenti con propri uomini sul terreno. Non che questi siano mancati, ma sono stati, presumibilmente, impiegati soltanto in alcune operazioni mirate. D'altra parte il governo del Qatar non poteva ammettere lo schieramento di propri soldati in aperta violazione della risoluzione ONU, che ha consentito l'intervento aereo.

L'anomalia italiana

Le espressioni a volte di sorpresa, a volte di incredulità, spesso di commiserazione, che contraddistinguono i politici europei quando parlano dell'Italia, sono dovuti alla più grossa anomalia presente in un sistema politico democratico occidentale nella storia recente. Non si vuole qui dare un giudizio di opportunità o peggio morale sulla condotta del premier italiano, ma analizzare le cause che discendono dalla sua presenza e che vanno a determinare il blocco politico attualmente presente nel bel paese. Fin dalla sua entrata in politica, Silvio Berlusconi ha rappresentato una fonte di profonda divisione, sia tra le forze politiche che nella società italiana. Il confronto politico si è radicalizzato in maniera insana, esaltando la pura partigianeria e scavando un solco diventato ormai incolmabile tra le forze partitiche, che da avversari sono diventati esclusivamente nemici. Quello che si è instaurato è un clima dove alcuna collaborazione tra forze avverse è totalmente impossibile, anche in situazioni particolarmente difficili, dove l'unità nazionale dovrebbe essere un attributo indispensabile, l'unico dialogo possibile è una continua sequela di insulti fine a se stessi. Nonostante il paese italiano avesse attraversato la delicata fase del dualismo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, avversari storici su fronti opposti, il rapporto tra questi due soggetti, pur nell'aspra dialettica politica, non è mai trasceso ad episodi di così basso livello come quelli attuali. Uno dei fattori dello scadimento del livello della politica italiana è stata la sua spettacolarizzazione che ne ha determinato la volgarizzazione. Le istituzioni si sono trasformate da un luogo paludato di forma alta, ben definita e rispettata ad un bivacco frequentato da personaggi improvvisati e non all'altezza. L'affermazione del partito azienda ha inserito nelle istituzioni personaggi senza l'adeguata preparazione ne la necessaria autonomia ed i partiti storici si sono adeguati verso il basso anche con fantasiose forme, come il partito leggero, che hanno distrutto anni di storia e tradizione associativa. Siamo così arrivati alla presa d'atto pubblica, in realtà già percepita da tempo, dai governanti europei. L'indegno siparietto della Merkel con Sarkozy, pur con tutte le giustificazioni che gli si voglioni accordare, rappresenta bene lo stato d'animo che alberga nelle cancellerie continentali. Quello che ferma l'Italia è il blocco politico a cui è costretta, la presenza ingombrante di Berlusconi riduce le formazioni politiche ad un comportamento astioso che non permette alcun costrutto. L'unica soluzione praticabile è quella di un governo senza l'attuale premier, come raccomandato da più parti in Europa, che permetta di affrontare una fase interna con maggiore pacificazione e consenta al paese di affrontare in piena concordia l'emergenza a cui è di fronte.

martedì 25 ottobre 2011

Per la Turchia si aprono possibilità enormi con l'islamismo moderato

Quello che si sta delineando nella sponda sud del Mediterraneo, con la primavera araba ancora in corso, è l'affermazione dei partiti islamici di stampo moderato. Pressochè sicura l'affermazione in Tunisia e molto probabile in Libia ed anche in Egitto, il risultato sarà comunque l'instaurazione della sharia a regolare la vita civile e penale dei cittadini. Il risultato democratico va così a rovesciare l'impostazione data dai tiranni, che, seppure con modalità diverse, privilegiava l'impostazione laica degli stati. Quello che è uscito dalle urne tunisine, cui dovrebbero seguire responsi analoghi anche dagli altri paesi arabi, è una ulteriore riprova della avversione della popolazione ai regimi precedenti. L'interrogativo è come si instaurerà e svilupperà il rapporto, sia su base globale che regionale, con gli altri stati, in special modo quelli occidentali della sponda opposta del Mediterraneo. Avere di fronte diplomazie provenienti da formazioni islamiche dovrà richiedere una nuova impostazione dei rapporti con questi nuovi governi, che dovranno, giocoforza comprendere una variazione dei rapporti bilaterali. Ma l'aspetto più temuto è una sorta di "iranizzazione" della sponda sud del Mediterraneo, la paura di un insediamento al governo non moderata, come effettivamente si presentano i partiti di ispirazione islamica che hanno tenuto a battesimo la primavera araba, è il vero spauracchio per i governi occidentali. A mitigare queste paure potrebbe esserci l'esempio turco, dove una formazione islamica moderata guida il paese anche con risultati eccellenti. Peraltro proprio la Turchia, cerca di ritagliarsi un ruolo guida, grazie ad una politica accorta e mirata allo scopo, per gli stati usciti dalla primavera araba. Questo fatto può essere una leva per l'occidente per scardinare la possibile diffidenza giustificata dei nuovi governi, dati i rapporti che le democrazie occidentali intrattenevano con i regimi caduti. Gli ottimi rapporti che Ankara intrattiene con entrambe le parti possono favorire dialoghi fruttuosi. Tuttavia questa strada può determinare una crescente importanza per la Turchia in una zona lontana dalla sua sfera d'azione, decretandone la crescente importanza non più come potenza regionale ma di vera e propria media potenza mondiale. L'ipotesi non è peregrina, non è detto che le diplomazie occidentali trovino le porte aperte come sperano, il ruolo turco è destinato a crescere nell'area mediterranea per la grande affinità che si svilupperà con le nuove formazioni al governo sul piano religioso e politico.

Benedetto XVI: un magistero attento ai problemi economici

La particolare attenzione che viene prestata dagli ambienti vaticani per l'economia e la finanza registra un netto cambiamento di rotta rispetto al papato precedente. Benedetto XVI ha avviato in sordina un magistero più attento ai problemi sociali che vanno inevitabilmente a connettersi con quelli dell'economia. Rispetto a Giovanni Paolo II, di cui non possiede la presenza quasi scenica, l'attuale pontefice ha avviato una attenta analisi sui problemi generati da una finanza sregolata, spesso condannandone gli eccessi, portatori di diseguaglianza profonda che mina le fondamenta della società. L'attenzione mostrata ai problemi del lavoro ed all'analisi spesso incentrata sull'inadeguatezza degli stipendi dei lavoratori, ha mostrato un lato di Ratzinger sconosciuto, anche nei modi e nelle parole con cui ha condannato questi comportamenti, uscendo anche dalle consuete espressioni misurate, per dare maggiore enfasi al rilievo effettuato. Con il documento uscito ieri sulle storture della finanza e la rimarcata necessità di una riforma in senso maggiormente garantista per per le parti più povere del sistema, la Chiesa cattolica si pone in prima linea, gettando sul piatto tutta la sua autorità, ed espressamente, contro i guasti del neoliberismo, andando contro la politica economica portata in auge fin dagli anni '80 dalla Tatcher e Reagan e continuata fino agli attuali eccessi dai loro successori, anche di segno politico opposto. Tale documento, molto duro, seppure espresso con le consuete sfumature curiali, non può non essere stato avvallato dal Pontefice, confermando così la linea intrapresa sull'argomento. Si individua così che la Chiesa cattolica intende governare in modo fattivo questa emergenza ponendosi come protagonista contro la dottrina economica neoliberista che sta condizionando i tempi attuali. Questa direzione dice chiaramente che i tempi devono cambiare inaugurando una stagione dove il solidarismo e la mutualità devono rimpiazzare la concorrenza sfrenata e l'assenza di regole. Ratzinger, che sembrava il campione della conservazione, dimostra invece sull'argomento, una conoscenza ed una visione più aperta e lungimirante di tanti governanti in carica, che abbozzano soluzioni temporanee prive di progettualità. L'idea di un organismo mondiale che governi la finanza in senso globale, nella sua semplicità rappresenta la soluzione più appropriata per rimettere il fenomeno sotto controllo e si concilia con l'ecumenismo come fondamento della misura. Se la Chiesa continuerà a mantenere l'attenzione su queste materie sarà un avversario in più per chi si oppone alle necessarie riforme per ridare fiato all'economia del mondo.

lunedì 24 ottobre 2011

Il Vaticano per un governo mondiale della finanza

Sul tema del governo dell'economia e della finanza mondiale il Vaticano presenta la propria proposta centrando il bersaglio e dicendo quello che in pochi ammettono: la necessità della creazione di una nuova autorità mondiale che coinvolga, non solo le grandi potenze economiche mondiali, ma anche i paesi in via di sviluppo e le nazioni in fondo alla classifica del reddito e che sia destinata a governare i processi finanziari e monetari a livello globale, con la riscrittura delle regole degli scambi e con l'esercizio del controllo dell'osservanza dei nuovi regolamenti. Questa è la sostanza del documento presentato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace. La soluzione rappresenta insieme una conclusione naturale di una riflessione attenta allo svolgimento della cronaca economica e la logica definizione di un problema che saprà suscitare diverse contrarietà negli ambienti finanziari e politici, gelosi della propria autonomia di gestione. Il documento verte essenzialmente su due cardini principali, che costituiscono le indicazioni su cui deve svilupparsi il nuovo governo mondiale della finanza: la prima è, appunto la creazione di un organismo che regoli e controlli l'andamento economico finanziario, che non deve essere, per forza, creato ex novo, ma ne può essere utilizzato uno già esistente ampliandone ed integrandone poteri e funzioni. Un esempio concreto può essere la Banca Mondiale, che potrebbe essere individuato come istituto sul quale impiantare le nuove funzioni. Il secondo cardine è la riforma del sistema monetario, che deve essere ripensato in modo da favorire in senso maggiormente egualitario gli scambi finanziari, in maniera tale da favorire non il bene di una parte pa il bene comune dell'intero sistema. Anche se la visione pare utopica, rappresenta un chiaro segnale del bisogno della chiesa di affermare della necessità di un cambiamento dell'andamento attuale. Ma oltre le indicazioni che si potrebbero definire tecniche, nel documento sono presenti valutazioni politiche e morali che vanno in senso contraio ai canoni ed ai principi che hanno governato l'economia fino ad ora. Quello che la situazione impone è una riflessione radicale sulla ricaduta sociale che hanno avuto le teorie neoliberiste in campo economico, con un giudizio finale completamente negativo. La Chiesa si dimostra contraria alla totale assenza di regole che dagli anni '80 del secolo scorso hanno travolto le forme di salvaguardia delle famiglie e delle persone, individuando queste cause come possibili motivi di sovvertimento dell'ordine democratico e della stabilità sociale. Il documento arriva ad individuare la necessità della tassazione delle transazioni finanziarie come elemento di riequilibrio sia macro che microeconomico; nel primo caso andando ad alimentare la costituzione di un fondo mondiale per di riserva per le economie in crisi ed il loro conseguente risanamento, mentre nel secondo caso potrebbero andare a finanziare strumenti su base statale in grado di assicurare forme di welfare avanzato. Il documento è in ultima analisi la condanna della globalizzazione affermatasi senza alcuna forma di controllo, tanto decantata dai governi di stampo liberista ed ora finalmente individuata come fattore di disturbo sociale.