Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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domenica 13 maggio 2012
Pyongyang favorisce l'intesa tra Cina, Corea del Sud e Giappone.
La volontà Nord-Coreana di effettuare un terzo test nucleare, fatto che sarebbe addirittura imminente, sta diventando il motivo principale di una nuova alleanza che si sta delineando ad oriente. Infatti Cina, Corea del Nord e Giappone ritengono all'unanimità inacettabile questa determinazione di Pyongyang. Il possibile test nucleare della Corea del Nord è ritenuto dai tre paesi una provocazione inacettabile, densa di conseguenze negative per la ditattura nord coreana. Si tratta dell'ennesima azione incomprensibile del paese asiatico, dove la popolazione è allo stremo per la mancanza di generi alimentari e dove il recente passaggio di potere non ha portato alcuna novità. Malgrado le speranze, il nuovo inquilino della residenza presidenziale nord coreana non devia dalla linea governativa precedente e si pone nel solco già tracciato da nonno e padre. In realtà questa volontà di effettuare un nuovo test atomico potrebbe essere la prova definitiva che il potere è esercitato dall'elitè militare, come più volte sospettato. Questo aspetto costituirebbe la maggiore preoccupazione della Cina, l'unico alleato della Corea del Nord, che teme le iniziative, sempre più imprevedibili di Pyongyang, come fattore destabilizzante per l'area, capaci di alzare l'attenzione americana su richiesta di Corea del Sud e Giappone e mettere in pericolo le vie marittimo commerciali, sfruttate anche dal colosso cinese. In un momento di grande difficoltà economica ogni via deve essere libera per l'incremento dei commerci e non deve esserci alcun elemento di preoccupazione per la stabilità dell'area. Nonostante la situazione di tensione il fatto che Pechino, Seul e Tokyo abbiano trovato un terreno d'intesa comune, rappresenta una situazione favorevole per la diplomazia mondiale ed un terreno da coltivare in vista del superamento delle reciproche diffidenze. La zona rappresenta attualemte uno dei punti più caldi del pianeta, sia per i confronti tra le due Coree, che tra Corea del Nord e Giappone e quest'ultimo con la Cina. Pechino nei confronti del problema regionale ha sempre tenuto un atteggiamento responsabile, utilizzando tutta la sua forza di pressione nei confronti di Pyongyang, ma il cambio al potere, forse più nominale che reale e la sempre più difficile situazione economica del paese nord coreano, stanno determinando una azione politica tutt'altro che lineare da parte di Pyongyang. Sia la Corea del Sud, che la Cina temono anche che le migrazioni del popolo nord coreano, dovute alla carenza dei generi alimentari, possano mettere in difficoltà le proprie rispettive zone al confine con la Corea settentrionale. Altre sanzioni ancora più restrittive potrebbero portare il paese al collasso, una sorta di implosione interna dovuta più che alle condizioni politiche e civili alla fame ed alla denutrizione che potrebbe concretizzarsi, non con una ribellione armata ma con una fuga di proporzioni bibliche. Tuttavia la Cina, che ha in mano il pallino della decisione, non ha ancora deciso sa fare cadere il governo nord coreano, infatti se da un lato una Corea del Sud alle prese con i costi di una eventuale riunificazione del paese, sarebbe un avversario economico indebolito, ma anche una area di notevole espansione per i prodotti cinesi, Pechino, con la caduta di Pyongyang, perderebbe un alleato politico che per ora gli sta consentendo di controllare, seppure da lontano, una parte di territorio di importanza strategica. Non si tratta quindi di una decisione facile, che sarà presa urgentemente, ma comunque non troppo rimandabile. Intanto la situazione favorisce la collaborazione tra tre paesi solitamente diffidenti l'uno verso l'altro per motivi politici, strategici ed economici.
La sfiducia nella UE, pericolo per il mondo.
Il crescente calo della fiducia nell'istituzione europea, che interessa in maniera trasversale l'intero vecchio continente, rappresenta un fattore potenziale di destabilizzazione dell'intero pianeta. La UE, infatti, pur con tutti i suoi difetti riveste un importante ruolo nella politica mondiale, andando, sovente a bilanciare situazioni pericolose, sia in ambito diplomatico, che militare, che economico. Il difficile percorso dell'unificazione europea, non ha impedito alla UE di essere un importante protagonista in svariate situazioni difficoltose, che si sono risolte in modo positivo proprio per la presenza mediatrice dell'Unione Europea. La crisi economica ha però fatto variare prospettiva ad un gran numero di cittadini dei diversi stati che compongono l'Unione. La percezione, in parte sbagliata, di una invadenza in campo economico e normativo delle istituzioni di Bruxelles, sempre presente, seppure in minoranza, è ora accresciuta a causa della difficoltà materiale delle famiglie europee. Nonostante queste difficoltà non siano distribuite in maniera omogenea sul territorio europeo, anzi vi sono profonde diseguaglianze, dovute alle diverse politiche economiche dei diversi paesi, la diffidenza verso la UE è un sentimento che accomuna sia gli stati più ricchi che quelli più poveri. Logicamente le motivazioni sono diverse, a chi si sente sfruttato dalle condizioni economiche che si sono venute a creare, vi è il contraltare di chi non vuole essere ulteriormente spremuto per contribuire ad economie non autosufficienti. In realtà la vera colpa delle istituzioni centrali europee è quella di essere state poco presenti nell'elaborazione dei programmi economici dei singoli paesi, lasciando aggravare situazioni già presenti. Inoltre è mancata una protezione normativa sufficiente contro la speculazione, che sommata al fattore precedente, ha creato le condizioni per lo stato finaziario attuale. Ma se ai burocrati di Bruxelles si può imputare una sorta di miopia dell'azione preventiva, ad alcuni singoli stati non si può non imputare comportamenti dannosi al reale intendimento della unificazione europea. Se la Grecia, ma anche l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda ma anche l'Olanda, sono colpevoli di cattiva amministrazione, l'atteggiamento tedesco, rigido al limite dell'autolesionismo, è il maggiore responsabile della situazione presente. Il calcolo della Germania è quello di instaurare un controllo esasperato nei bilanci degli altri stati, per preservare, ma solo nel breve termine, la sua quota di mercato mondiale. Forse quello che muove il calcolo tedesco è di incamerare più valuta possibile nell'immediato per rifarsi degli aiuti che ha dovuto sborsare per aiutare le economie in difficoltà del continente. Se questo atteggiamento può essere capito a livello di una compensazione in parte realmente dovuta, non può essere accettato dall'insieme dell'istituzione europea perchè contiene un vizio di fondo, costituito dall'assenza programmatica del lungo periodo. La contrazione dei consumi e degli investimenti industriali in tutto il territorio europeo alla fine farà mancare i migliori clienti all'industria tedesca ed allontanerà gli investitori dei paesi emergenti, gli unici in grado di portare liquido fresco per la ripartenza dell'economia. Il ragionamento non è complesso e sicuramente è facilmente comprensibile a chi propugna l'esclusivo pareggio di bilancio, tuttavia le complesse alchimie politiche bloccano anche i ragionamenti più logici. Il risultato è quindi una crescente diffidenza verso l'Europa, su cui speculano movimenti politici estremisti capaci solo di portare idee di quaranta anni prima, che prevedono inflazione ed ulteriore speculazione e non tengono conto delle mutate condizioni della finanza mondiale e delle nuove capacità degli speculatori di arrivare fin dentro i bilanci dello stato. L'atteggiamento dei governi, a parole, è quello di preservare l'istituzione europea, ma se cresce la distanza con la società, sarà sempre più difficile mantenere questo impegno. Questo porta alla necessità di una nuova costituente europea capace di pensare normative nuove, in grado di guardare l'interesse dell'insieme che vada quello dei singoli stati. Ma il punto più urgente è quello di riguadagnare la fiducia dei cittadini europei con provvedimenti tangibili che ne accrescano il livello di benessere e sopratutto permettano l'uscita da quelle situazioni di emergenza sociale sempre più presenti, che costituiscono il principale alimento della diffidenza europea. La manovra è necessaria, il mondo ha bisogno dell'Europa e della sua funzione di perno e di punto di riferimento nell'agone internazionale, un punto su cui investire anche in chiave economica.
mercoledì 2 maggio 2012
La società israeliana è divisa sul possible conflitto con l'Iran
In Israele si ampia il divario tra il governo e chi non è favorevole ad un attacco militare all'Iran. Sono, infatti sempre maggiori ed autorevoli le voci che si levano con preoccupazione contro la possibilità di un intervento armato contro Teheran. Uno dei primi a dichiararsi contrario all'ipotesi militare è stato proprio il Capo dello stato maggiore dell'esercito, Benny Gantz, che non vede un pericolo imminente da parte dell'Iran, a questa presa di posizione ha fatto seguito quella dell'ex capo dei servizi segreti, Yuval Diskin, che interpreta la determinazione di Netanyahu come una sensazione non supportata da elementi abbastanza convincenti da trascinare il paese in una guerra che potrebbe essere solitaria. Anche Ehud Olmert, ex primo ministro israeliano, vede l'opzione militare soltanto come soluzione estrema, in ogni caso da percorrere non in maniera solitaria, ma con l'appoggio degli USA e di concerto con la comunità internazionale, inoltre nella stessa occasione Olmert ha espressamente dichiarato di essere fortemente dubbioso circa una conclusione di un accordo con i palestinesi da parte del premier in carica.
Se la situazione pare comunque non evolversi, con l'Iran che conferma le sue intenzioni pacifiche rispetto allo sviluppo della tecnologia nucleare e gli USA continuano i loro sforzi diplomatici sempre accompagnati dalle sanzioni, sottoscritte anche dall'Europa, nel governo israeliano cresce la convinzione che l'obiettivo finale per Teheran è quello di usare le bombe nucleari contro lo stato ebraico per distruggerlo. Per dare ancora maggiore risalto ai convincimenti dell'esecutivo di Tel Aviv, Netanyahu ha usato la platea della commemorazione della giornata dell'olocausto, dando particolare enfasi alla minaccia iraniana e paragonando lo stato degli ayatollah alla Germania nazista. Sono argomenti retorici che sarebbero da maneggiare con cura e che il capo del governo usa deliberatamente, sapendo quanto colpiscono l'opinione pubblica israeliana. Ma la tattica di Netanyahu, non è mai stata quella di gettare acqua sul fuoco, in nessun frangente, infatti i recenti sondaggi elaborati nel paese danno in rialzo la popolarità del premier ed uno dei motivi sembra proprio essere il sentimento di paura nella popolazione nei confronti di un possibile attacco nucleare iraniano e della necessità di prevenirlo, che viene continuamente alimentato dagli apparati di governo. Negli analisti cresce la sensazione che questa tattica sia dettata dalla volontà di anticipare le elezioni previste per l'ottobre 2013: una vittoria schiacciante, come indicano gli attuali sondaggi, per Netanyahu, gli consentirebbe di scavalcare le influenti obiezioni che si stanno levando contro un attacco preventivo a Teheran. Con una maggiornaza schiacciante il capo del governo, avrebbe le mani maggiormente libere per qualsiasi decisione. Quello che traspare quindi, è un paese spaccato dove gran parte delle elite sono contrarie ad una guerra dall'esito e sopratutto dallo sviluppo molto incerto, al contrario della maggioranza della popolazione che pare ormai seguire le convinzioni del premier; inoltre negli ambienti più estremisti dell'ebraismo ortodosso potrebbe farsi strada la convinzione che un conflitto di tale portata potrebbe portare anche ad una soluzione più favorevole nei confronti dei palestinesi, permettendo di guadagnare ulteriore terreno per lo stato ebraico. E' uno dei risvolti potenzialmente più pericolosi, perchè impedirebbe una soluzione condivisa, unica condizione per un processo di pace duraturo, senza il quale la regione tutta sarebbe trascinata in un vortice inarrestabile di violenza.
martedì 24 aprile 2012
I difficili rapporti tra Israele ed Egitto preoccupano gli USA
Israele non aveva accolto bene, fin dall'inizio, la primavera araba egiziana. La permanenza la potere di Mubarak aveva permesso a Tel Aviv di stringere accordi sicuri con il vicino arabo, sia di pace, che si controllo reciproco delle frontiere, sia di collaborazione, anche in virtù del trattato del 1979, firmato alla Casa Bianca, e quindi con la benedizione degli USA, tra Begin e Sadat. Per Israele la frontiera egiziana era essenziale nel proprio scacchiere strategico, perchè rappresentava un accesso controllato in modo sicuro, che preservava, quindi il fianco meridionale, permettendo una maggiore concentrazione verso punti ritenuti più pericolosi. La garanzia del presidio garantiva invece all'Egitto di Mubarak i privilegi in aiuti economici ed armi con cui gli USA ricambiavano la stabilità della frontiera. Sebbene nei disordini di piazza Tahrir, cioè all'inizio e nel prosieguo della rivolta, non vi siano state ne manifestazioni ne una retorica contro Israele, con l'allontanamento del potere del dittatore egiziano è apparsa sempre più crescente l'ostilità contro lo stato ebraico, rimasta fino ad allora pressochè latente, in ragione del fatto che gli islamisti, tra i principali avversari di Mubarak, erano frequentemente fatti oggetto di repressione. Ma l'accordo tra Il Cairo e Tel Aviv è sempre stato percepito, non solo tra i più radicali, come un tradimento della causa araba; ciò ha determinato un progressivo deterioramento dei rapporti tra i due paesi, che ora sono caratterizzati da una reciproca diffidenza e soffrono di ulteriori margini di peggioramento. La vicenda del taglio alle forniture di gas da parte dello stato egiziano a quello israeliano rappresenta ora il culmine della tensione tra i due stati. Malgrado il tentativo di fare passare la questione, da parte di entrambi i governi come mero problema commerciale, forse nel tentativo congiunto di stemperare la questione, il fatto segue numerose diatribe, tra cui un incidente di frontiera tra le truppe dei due stati dove sono deceduti ben 11 soldati egiziani, a cui ha fatto seguito l'occupazione ed il saccheggio dell'ambasciata israeliana a Il Cairo, che di fatto ha determinato l'abbandono della sede diplomatica da parte del personale di Tel Aviv. L'attuale maggioranza parlamentare egiziana, costituita da partiti di matrice islamica, hanno più volte ribadito di non volere porre in discussione la pace con il paese vicino, ma sui reali motivi di queste dichiarazioni pesa la minaccia del mancato rifornimento dei consistenti aiuti statunitensi, piuttosto che una reale convinzione a mantenere rapporti di buon vicinato. Del resto sono proprio gli USA ad avere l'interesse del mantenimento di, almeno, una non belligeranza tra i due stati, che sarebbe in grado di aprire un nuovo fronte difficile da governare per la stabilità già precaria della regione. Per scongiurare pericoli da parte di integralisti l'esercito egiziano, che resta uno dei maggiori alleati israeliani nel paese, ha rafforzato la propria presenza nel Sinai, per prevenire atti terroristici contro Tel Aviv. In questa partita le forze armate del Cairo giocano un ruolo essenziale data la loro laicità, rappresentano un corpo sociale abbastanza impermeabile alle istanze islamiste, sopratutto le più radicali, ed insieme sono fortemente interessate agli aiuti americani, che sono per buona parte costituiti da armamenti. Ma ad Israele non basta l'aiuto dell'esercito egiziano, la certezza di una popolazione non certo ben disposta nei propri confronti appena oltre il confine ha decretato la necessità di rafforzare la presenza sui confini territoriali meridionali, con tre divisioni per rafforzare il controllo del territorio. In alcuni ambienti dello stato ebraico l'Egitto è ritenuto ancora più pericoloso che l'Iran ed in effetti, Teheran è molto lontana e materialmente non ha mai portato reali pericoli a Tel Aviv, se non con minacce cui non è mai stato dato seguito. Ben diversa in quest'ottica la valenza dell'Egitto, dal quale sono entrati e possono entrare armi per Hamas, kamikaze pronti a tutto e volontari per la guerra di liberazione della Palestina. Sebbene questo fronte riscuota minore interesse mediatico in effetti, almeno al momento è quello più gravido di pericoli immediati e tangibili e si capisce perchè Washington, malgrado stia in silenzio, segua la situazione con altrettanta attenzione e riguardo del possibile confronto tra Israele ed Iran. Se cede la frontiera egiziana, infatti, per Israele resta sicuro il solo confine con la Giordania e malgrado la potenza di fuoco dell'esercito della stella di David sia enorme diventerebbe obiettivamente difficile fare fronte a più situazioni contemporaneamente, ciò vorrebbe dire un nuovo teatro di azione per le forze armate americane: un pericolo da scongiurare comunque ma specialmente in campagna elettorale.
La UE teme per il successo dell'antipolitica e del populismo
Se al mondo della grande e piccola finanza conviene l'affermazione di partiti con orientamento conservatore, di centro, di destra moderata e perfino di una sinistra cosidetta progressista, cioè sensibile in buona parte alle istanze dei banchieri e degli uomini d'affari, cercando un compromesso spesso impossibile con le proprie idee di partenza, le ultime tendenze elettorali del vecchio continente vanno nel segno opposto. L'affermazione di partiti di estrema destra, con connotazioni xenofobe e populiste, vanno di pari passo con i successi e le sempre maggiori simpatie che riscuotono i movimenti di estrema sinistra, che ritornano in auge, dopo anni di oblio. E' il chiaro segno di un malessere diffuso nella popolazione europea, dove il disorientamento politico ha preso il sopravvento a causa di sempre maggiori sacrifici imposti alla cittadinanza, senza che questa ne senta il mtovi e, sopratutto, la ragionevole responsabilità. Il clima di sfiducia verso i partiti, che in Italia viene definito come anti politica, è un fenomeno che si allargato a macchia d'olio ed materialmente palpabile in ogni singola nazione europea. Il primo effetto preoccupante è l'indifferenza verso l'elettorato attivo che si esplica con la rinuncia ad esercitare le proprie funzioni elettorali, disertando le urne. La crescita dell'astensionismo è un fenomeno composto da due componenti: la prima è il rifiuto come ribellione all'incapacità ed alla disonestà dei politici, la seconda, che è connessa con la prima, è il mancato riconoscimento con alcuno dei candidati presenti sulla scheda elettorale; non si vota perchè il cittadino non sente alcuna comunità d'intenti o senso di appartenenza con i partiti e neppure si fida delle persone che si presentano al voto. L'elettore, in definitiva, non viene messo in condizione di esercitare il proprio diritto per mancanza oggettiva di condizioni materiali. La quota crescente di astensione dovrebbe fare riflettere i politici, ma finchè questa percentuale di non votanti non verrà computata al fine della distribuzione dei seggi, togliendo il corrispondente numero di seggi assegnabili in ragione del numero di chi non ha esercitato il diritto di voto, i partiti ed i loro candidati non saranno sanzionabili dei loro comportamenti. Questo perchè chi non vota accomuna ormai l'insieme dei movimenti ad una accozzaglia di incompetenti, nel migliore dei casi, e più spesso di disonesti. Si tratta di una visione che fino a poco tempo prima veniva definita senza mezzi termini qualunquista, ma con l'aumentare del fenomeno l'astensionismo è guardato con sempre maggiore rispetto, anche perchè si rafforzano e quindi ne forniscono giustificazione, le sempre più evidenti cause. Ma quando l'elettore si reca alle urne sceglie sempre di più movimenti estremi, che fanno della rottura con l'ordine vigente il loro programma elettorale, frammentando la protesta in schegge che possono diventare impazzite. E' la preoccupazione della stessa Unione Europea, che individua senza mezzi termini la tendenza politica in atto come vera e propria crisi accessoria del vecchio continente, da affiancare allo stato di difficoltà generato dall'economia e dalla finanza. I valori portanti di queste forze estreme sono contrari a quelli su cui si fondano le istituzioni europee ed il rischio di disgregazione del difficile e laborioso processo di unificazione dell'Europa è messo quindi a rischio dall'affermazione di queste forze politiche. Del resto esiste già l'esempio dell'Ungheria, dove il partito al potere, sta governando in dispregio delle direttive europee e costituisce un pericoloso precedente che mette a dura prova Bruxelles.
Uno dei timori concreti degli eurocrati si basa sul passato storico del continente, quando le notevoli crisi economiche hanno favorito la nascita di movimenti come il fascismo ed il nazismo, che hanno diversi punti in comune con le idee propugnate dai partiti di estrema destra che registrano una crescita dei consensi. Occorrerebbe sapere se questi timori sono per la messa in pericolo di quei diritti civili e politici che sono ormai dati per scontati o se perchè, in un modo o in un altro, il successo di queste formazioni, che sono anti sistema, possono mettere in pericolo i poteri economico finanziari, che sono ora al vertice della piramide in Europa. Il sospetto è legittimo, Bruxelles non ha fatto molto finora per contrastare l'influenza di una finanza particolarmente accanita, i cui effetti e costi si sono riversati su di una popolazione impotente. Anche nei confronti della supremazia tedesca poco è stato detto, per cui i timori, legittimi e tardivi, degli effetti dell'ondata di consensi alle formazioni di estrema destra non possono che essere accolti come una constatazione amara. Del resto è da molti anni che la destra europea è in crescita, proprio grazie a motivi ben conosciuti riconducibili, oltre che a crisi economiche prima latenti e poi più evidenti, anche a decisioni e provvedimenti talvolta assurdi e sopratutto calati dall'alto, senza cioè la necessaria elasticità rispetto al contesto dove dovevano produrre i loro effetti, che hanno contribuito in maniera netta al successo di formazioni che traggono la loro forza in territori circoscritti e spesso contraddistinte da elementi xenofobi. Anche se esiste una debolezza di fondo di matrice statutaria e normativa che consiste nella scarsa forza delle istituzioni europee, peraltro composte da uomini di quei partiti e di apparati oggetto della contestazione, sempre troppo debole è stato l'atteggiamento delle istituzioni comunitarie contro lo strapotere della finanza, perchè il grido di allarme, senz'altro giusto, sia da ritenersi sincero. A meno che la UE non cambi rotta in maniera rapida ed urgente e sappia coinvolgere la totalità del sistema Europa in un diverso atteggiamento, gli anticorpi verso la deriva populista sono destinati a diminuire. Se non intervengono variazioni consistenti in miglioramenti materiali per la vita della maggior parte della popolazione europea il pericolo del caos politico è praticamente una certezza.
lunedì 23 aprile 2012
Quale futuro per l'area euro dopo le elezioni francesi?
Quali saranno, per l'area Euro, le conseguenze di una sconfitta di Sarkozy? Se il presidente francese in carica non dovesse essere rieletto, il primo effetto potrebbe essere un sostanziale isolamento della Germania, che con la sua politica ha condizionato le politiche finanziarie dei governi della zona della moneta unica, spesso appoggiata in maniera fondamentale dalla Francia di Sarkozy. Sulla spinta di una crisi inconfutabile, la Germania ha obbligato a scelte di estremo rigore gli altri membri dell'euro, in nome di una stabilità finanziaria generale. Se questi provvedimenti, all'inizio erano dettati dalla necessità di sistemare conti pubblici in estrema difficoltà, il piano di riordino non si è poi evoluto verso una direttiva che potesse permettere una crescita tale da garantire una ripresa solida e necessaria per fare ripartire l'economia dell'area euro. Il sospetto è stato quello di avere avvallato, da parte dei governi europei, una politica finanziaria utile e strumentale alla sola Germania, che non si è messa a servizio dell'Europa, come più volte ribadito dalla cancelliera Merkel, ma che dalla sua posizione di forza ha incanalato i severi provvedimenti, di cui sono vittima tanti popoli europei, per rafforzare la propria economia e le proprie imprese. Infatti uno degli effetti delle misure imposte è una generale stretta creditizia che non permette alla imprese extra tedesche, di competere con il tessuto produttivo della Germania. Nonostante la sua evidente forza Berlino, non ha potuto fare da sola, spesso la Parigi di Sarkozy, seppure a tratti riluttante, ha supportato le direttive tedesche, fungendo da alleato alla pari soltanto per figura. In realtà la Francia, cercando di imprimere una sua direzione e potendo sedere a quella che pareva la stanza dei bottoni, è stata solo funzionale affinchè le impopolari decisioni prese dalla Germania sembrassero il frutto di una collaborazione paritaria e condivisa. Già il premier italiano, Mario Monti, aveva incrinato questa strana alleanza, quando dopo avere caricato di sacrifici gli italiani, richiedeva maggiori sforzi materiali per elaborare processi tali da favorire la crescita. Hollande, il principale sfidante di Sarkozy e dato per favorito nella corsa alla presidenza francese, si è incuneato in questo spazio lasciato inspiegabilmente libero dal presidente in carica. Uno dei punti forti della campagna elettorale del principale sfidante è stata proprio la promessa di una nuova negoziazione degli accordi sul rigore dell'euro, in modo da potere garantire bilanci più sicuri senza per questo soffocare la crescita. Il ruolo di supporter nella campagna elettorale di Sarkozy da parte della Merkel ha fatto capire bene quello che teme la Germania. La necessità di avere risultati immediati, senza l'elaborazione di un piano a lungo termine pone ora la cancelliera in un vicolo senza uscita. O meglio quelli che si aprono sono scenari profondamente diversi ed anche lontani nel loro possibile epilogo. Si è più volte parlato di una possibile uscita della Germania dall'area dell'Euro, non totale ma attraverso la creazione di zone della moneta unica a diversa velocità. Su di questa soluzione, caldeggiata dagli stati con i conti più in ordine, pare non si possa più contare: l'Olanda, una delle nazioni più dure con gli stati del sud Europa, è essa stessa alle prese con difficoltà di bilancio, tanto che il governo è caduto ed il paese si avvia ad elezioni anticipate. In questa situazione la Germania rischia di trovarsi sola, con una divisa molto valutata, che renderebbe molto poco concorrenziali i suoi prodotti. Inoltre politicamente una potenziale alleanza tra il secondo ed il terzo paese per economia della zona euro, la Francia e l'Italia, costringerebbe la Germania a rivedere il proprio protagonismo per non soffrire di isolamento. Ma questo potrebbe portare ad una crisi politica nel paese, che se costretto ad elezioni potrebbe cambiare gli assetti di potere, portando al governo di Berlino idee più vicine a modelli espansivi, pur nel mantenimento di determinati valori di bilancio non derogabili. Ma anche una riconferma di Sarkozy, obbligherebbe l'inquilino dell'Eliseo a cambiare atteggiamento verso Berlino. I dati elettorali francesi, dove spicca l'ottimo risultato di Marine Le Pen, parlano chiaramente del gradimento del corpo elettorale di campagne incentrate sulla necessità dello sganciamento dall'invadenza della finanza sulla politica e della voglia di riconquistare una maggiore libertà di azione sia politica che economica. Quindi anche con una rielezione il presidente in carica, non potrà tenere conto, nella sua azione governativa, di tali espresse richieste provenienti dalla società francese. Si andrà quindi, in ogi caso, ad un sostanziale ribilanciamento dei rapporti verso lo stato tedesco, che non potrà più abusare della propria posizione di forza, pena un isolamento tutt'altro che magnifico.
venerdì 20 aprile 2012
Pechino interessata all'Artico
Complice il disgelo causato da una dissennata politica industriale, che non ha tenuto conto degli effetti della propria azione sul clima, l'Artico, che rappresenta una riserva di energia enorme e non ancora sfruttata, sta diventando sempre più facilmente raggiungibile. E' da questo assunto che si muove la Cina, paese sempre più affamato di fonti energetiche, per cercare di entrare nello sfruttamento di materie prime del circolo polare artico e di aprire nuove vie di comunicazioni marine che rendano minore la distanza tra Asia ed Europa, per il trasporto delle merci. Pechino ha individuato nell'Islanda, paese dove il leader cinese Wen Jiabao effettuerà una visita ufficiale, all'interno del viaggio dal 20 al 27 Aprile nel nord dell'Europa, una base strategica per sviluppare questa linea economica, in ragione della posizione geografica dell'isola a metà tra continente artico ed Europa. In realtà la Cina aveva tentato di entrare in Islanda con una pratica spesso adottata con paesi più poveri e cioè acquisendo porzioni di territorio per effettuare speculazioni immobiliari ed impiantare le proprie infrastrutture. Ma il piano è fallito per l'opposizione del governo di Reikiavyk. Ora Pechino proverà la via ufficiale degli accordi economici per sviluppare una collaborazione conveniente ad entrambi le parti, questo perchè la Cina continua a ritenere fondamentale potersi appoggiare a basi islandesi. Tuttavia il piano per potere accedere all'Artico non comprende la sola Islanda, il colosso cinese cerca di avere maggiore importanza dell'attuale ruolo di osservatore, all'interno del Consiglio Artico, composto da Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, USA e Svezia. La politica cinese nei confronti dello sfruttamento dei giacimenti sotto la calotta polare consiste nel dirsi disponibile allo sviluppo sotenibile e pacifico della regione, la quale, però, non deve essere considerata come territorio privato dei paesi geograficamente più vicini, ma, viceversa è da intendersi come patrimonio comune del mondo. E' una tesi controversa, conoscendo le reali mire cinesi sulle risorse energetiche presenti e sul loro peso strategico in ottica sia industriale che militare. L'impressione è che siamo di fronte ad un futuro denso di annose dispute e che per i giuristi e le organizzazioni internazionali ci sarà molto lavoro. Ma la Cina è costretta a muoversi in tempo perchè oltre ai paesi membri del Consiglio Artico, si sono mossi anche la UE, il Giappone e la Corea del Sud, tutti a rincorrere lo sfruttamento dei preziosi giacimenti. All'interno del Consiglio Artico, poi, si muovono alleanze e tendenze che potrebbero essere determinanti per Pechino: infatti se Russia e Canada, sono i paesi che più ostacolano la marcia cinese, altri potrebbero essere necessari per i progetti di Pechino. La Svezia e la stessa Islanda sono quelle più favorevoli ad una cooperazione con la Cina e poi esiste il caso Norvegia. I rapporti tra Pechino ed Oslo non sono buoni dopo che la Cina ha condannato la Norvegia per l'assegnazione del premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo, impedendogli il ritiro dell'ambito riconoscimento. La guerra commerciale che si è innescata a seguito di questo episodio non favorisce certo un miglioramento dei rapporti e la continua richiesta di scuse di Pechino per il Nobel non permette un miglioramento della situazione. Tuttavia, circoscrivendo la situazione alla necessità cinese di entrare in gioco per l'Artico, Pechino si troverebbe ora in una posizione di inferiorità rispetto ad Oslo e questo potrebbe fare riconsiderare al governo cinese la propria politica verso la Norvegia. Potrebbe essere anche l'occasione per la richiesta di un cambio di atteggiamento di Pechino verso i dissidenti ed inserire così regole democratiche in cambio di risorse energetiche, una soluzione da non scartare.
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