Politica Internazionale

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giovedì 24 maggio 2012

Il cambiamento di rotta di Hollande può portare al blocco delle decisioni UE

Come previsto l'elezione di Hollande alla carica di Presidente della Repubblica francese, ha provocato una frattura in seno alla direzione impressa dal duo Merkel-Sarkozy. Il neo presidente di Parigi sta mantenendo gli impegni presi in campagna elettorale, volti ad incrinare la rigida egemonia tedesca nei confronti del debito pubblico a scapito della crescita. Nell'ultimo vertice europeo, in Olanda, è stato chiaro da subito che per la Cancelliera tedesca, tra l'altro punita da una consultazione elettorale anche nel proprio paese, è finito il periodo di supremazia, garantito, oltre che dalla forza economica tedesca, anche dal costante appoggio del presidente francese uscito sconfitto dalle urne. Hollande, inoltre, può contare sull'appoggio esplicito del premier italiano Mario Monti, alle prese con una situazione particolarmente difficile nel proprio paese, per avere imposto sacrifici molto duri senza, finora, averli bilanciati con provvedimenti efficaci sul tema della crescita, l'unico ritenuto indispensabile per la ripartenza dell'economia. La necessità di scalfire l'atteggiamento tedesco, arriva quindi da più parti e Berlino non può tenere conto di istanze così pressanti, che provengono anche dal proprio interno. Ma sebbene la leadership europea della Merkel sembri vacillare, non altrettanto la propria risoluzione nell'ostacolare i prestiti comuni europei, visti da più parti come necessari per sbloccare la situazione economica del vecchio continente. L'atteggiamento della cancelliera tedesca è dettato dall'intimo convincimento che i nuovi eurobond siano, da un lato un pericolo per l'aumento del debito e dall'altro una minaccia all'industria tedesca, perchè favorirebbero la concorrenza delle industrie degli altri paesi europei. Per la Merkel un cedimento sulla questione significherebbe anche un segnale di debolezza verso quell'elettorato che ancora rappresenta la base del consenso della cancelliera. Il rischio per l'intero sistema europa è di arrivare ad un blocco che rappresenterebbe un intoppo di non poco conto, nella soluzione della crisi. Anche perchè la situazione greca è tutt'altro che vicina a risolversi e malgrado le dichiarazioni di Berlino, che paiono francamente solo di facciata, la Germania è molto preoccupata da una uscita di Atene dalla moneta unica, con un poco remunerativo ritorno alla Dracma. Il pericoloso incrocio tra debito pubblico e debito degli istituti bancari rischia di fare retrocedere a posizioni meno nobili diversi paesi che si fregiano di bilanci in ordine e sopratutto la pericolosità dell'apertura di una falla di tali dimensioni nell'eurozona avrebbe conseguenze difficilmente sopportabili dall'intero sistema. Quali scenari si aprono così alla spaccatura franco-tedesca? Se si esclude una uscita tedesca dall'euro con un impossibile ritorno al marco tedesco, l'unica via è quella di una mediazione che si preannuncia estenuante, in un momento in cui la velocità delle decisioni rappresenta un fattore fondamentale nella possibile ricerca di una soluzione. Se il governo della Germania continua a non volere cedere alcunchè, rischia però materialmente anche in casa propria, come successo nelle recenti elezioni, che hanno avuto il merito di sottolineare come anche sul suolo tedesco vi sia una forte corrente che preme per provvedimenti a favore della crescita. Del resto più che gli industriali sono i settori finanziario e bancario ad esprimere le maggiori riserve verso una apertura agli eurobonds. Una soluzione potrebbe essere fissare canoni particolarmente rigidi per le nuove aperture di linee di credito, in modo da tranquillizzare, almeno parzialmente i settori più restii. In ogni caso occorre considerare la stabilità sociale come fattore destabilizzante più pericoloso, come voce sempre più importante nel bilancio globale, ben più importante di quello strettamente finanziario. La pericolosa incrinatura della pace sociale rischia di diventare molto determinante nell'elaborazione delle politiche economiche, da cui è impossibile ormai prescindere, altrimenti ad implodere non sarà l'euro ma l'intera impalcatura dell'Unione Europea.

venerdì 18 maggio 2012

Obama punta sui diritti per la rielezione

La svolta verso il riconoscimento del matrimonio omossessuale di Obama è sembrata una novità sulla scena del dibattito elettorale. In realtà già il vice presidente Biden aveva manifestato un chiaro appoggio al riconoscimento dei diritti delle famiglie omossessuali, che lasciava intendere una decisa posizione sull'argomento da parte dei vertici del partito democratico. Tuttavia il presidente in carica aveva preferito mantenere un atteggiamento maggiormente distaccato, per non urtare una consistente parte elettorale decisamente avversa all'argomento. Ora, con la netta presa presa di posizione, Obama decide di giocare in attacco e mettere un punto fermo sui diritti alla propria campagna elettorale. Così facendo, nel conto dei costi e benefici, l'inquilino della Casa Bianca cerca di guadagnare consensi da quella parte politica, che se decide di andare a votare non può che votare per lui. In un colpo solo Obama rinuncia al voto più conservatore, considerandolo definitivamente per perso, e cerca di riconquistare chi lo ha pesantemente criticato da sinistra per non essere riuscito a mantenere le promesse nel campo dell'economia e, sopratutto, cerca di pescare nella grande massa dell'astensionismo dei delusi dalla politica e lo fa con un messaggio forte, impossibile da passare sotto silenzio e non essere notato. La strategia elettorale del presidente in carica aveva comunque bisogno di una scossa decisa, a causa del pericoloso avvicinamento nei sondaggi del candidato repubblicano. La questione economica resta il punto centrale della contesa, gli Stati Uniti faticano ancora troppo a riprendersi a causa della congiuntura economica mondiale ed in questi casi la ricetta liberista può consentire guadagni elettorali inaspettati in una popolazione come quella americana. Su questo argomento Obama non può inventare molto, se non ribadire la propria concezione dell'economia, supportata da un piano dello welfare, che non riesce ad attuare per l'ostruzionismo repubblicano al congresso. In effetti il peggiore intralcio ai programmi di Obama è stata la difficle coabitazione con un parlamento a maggioranza avversa, che non ha assecondato in alcun modo la politica economica e fiscale del presidente USA. Meglio va con la politica estera, cavallo vincente del programma democratico, grazie ai successi ottenuti in campo militare e diplomatico e con la promessa mantenuta del ritiro dai punti caldi del pianeta dove l'esercito USA è impegnato. La situazione era però di stasi, la task force elettorale di Obama ha certamente avallato, se non espressamente consigliato la mossa che deve dare una scossa. Puntare sui diritti fondamentali di tutti i cittadini rappresenta uno schema di rottura in un paese piuttosto conservatore rispetto a questo punto; il partito repubblicano è stato colto impreparato a questa sfida restando su posizioni che vanno bene soltanto alla parte più profonda del paese, ma che non possono accontentare gli abitanti delle metropoli, d'latra parte l'accoglienza da parte della stampa è stata tutt'altro che sfavorevole, fornendo un chiaro segnale della percezione della società americana. Il tema, oltre che particolarmente sentito, rappresenta anche una apertura verso ulteriori problematiche del genere: estendere alla maggior parte delle persone di un paese, se non alla totalità, il pieno godimento dei diritti civili, rappresenta una sfida molto sentita dal popolo americano, almeno dalla maggior parte di esso, tradizionalmente sensibile ai temi delle libertà nel senso più ampio del termine. L'augurio è che se eletto Obama mantenga la promessa e ciò permetta conquiste ancora maggiori da parte non solo di chi ha diverse inclinazioni sessuali, ma anche per emigrati ed ogni categoria svantaggiata e ciò sia di esempio anche per altri paesi, anche quelli che credono di essere all'avanguardia sul problema dei diritti, ma lo sono solo sulla carta.

martedì 15 maggio 2012

L'Unione dei paesi del Golfo Persico potrebbe diventare un nuovo soggetto internazionale

L'ipotesi della creazione di Unione tra le sei monarchie del Golfo Persico acquisisce maggiore concretezza e va aldilà della mera ipotesi strategica. Pur essendo ancora a livello embrionale, il progetto rischia di avere importanti ripercussioni già prima della sua nascita; infatti la ragione principale della più stretta collaborazione tra i regni del golfo, sarebbe quella, innanzitutto, di consolidare i legami tra Arabia Saudita e Bahrain in chiave anti iraniana. Le recenti proteste della minoranza scita, dietro cui ci sarebbe la mano di Teheran, nel Bahrain preoccupano sia l'Arabia Saudita che gli USA, che caldeggia fortemente la nascita di una alleanza più stretta dei paesi del golfo, proprio in chiave tattica contro l'Iran, sia per prevenire da vicino la minaccia atomica, sia per avere una piattaforma di intervento più veloce nel caso di precipitoso deterioramento della questione israelo iraniana. La volontà di creare una unione nel golfo è anche il sintomo di una salita della tensione, in ultima analisi, nei rapporti tra sunniti e sciti, particolarmente difficili negli ultimi tempi. Se il problema della supremazia religiosa nell'Islam è questione vecchia a livello teologico, il confronto materiale tra chi sostiene di essere l'effettivo rappresentante legittimato, cioè Arabia Saudita ed Iran, è salito di tono, andando ad investire altre problematiche da sempre motivo di attrito tra i due paesi. L'intervento politico dell'Iran volto a proteggere la minoranza scita in Baharain, concretizzatosi con la condanna ufficiale del governo di Teheran contro la decisione di Riyad di inviare soldati sauditi ad aiutare il governo di Manama, ha suscitato proteste contro l'ingerenza della Repubblica degli Ayatollah, mettendo allo scoperto tutte le difficoltà tra i due principali rappresentanti dell'islam. Inoltre proprio la maggioranza del parlamento iraniano ha già condannato in anticipo il progetto, accusando l'Arabia Saudita di essere una forza di occupazione straniera sulla terra del Bahrain. Anche la questione siriana contribuisce ad aggravare la crisi tra i due paesi, essendo l'alleanza tra Damasco e Teheran osteggiata da Riyad, come pure la crescente influenza iraniana sull'Iraq, cresciuta in maniera considerevole dopo il ritiro delle truppe statunitensi. Quello che appare è quindi che l'opzione della nascita di una unione dei paesi del Golfo stia rappresentando una necessità per l'Arabia Saudita per arginare la politica diplomatica espansiva iraniana; il pericolo di una crescente influenza sulla popolazione scita presente nel Golfo impone la scelta di strategie nuove, che permettano di compattare sempre di più la causa sunnita, intesa in un livello più ampio, oltre il puro significato religioso; ma è anche la presa d'atto della necessità delle nazioni, a qualunque latitudine, di cercare e sperimentare sempre nuove forme di unione, che possano consentire di affrontare situazioni sempre differenti. Sicuramente nella stabilità regionale, se questa unione andrà a concretizzarsi, rappresenterà un soggetto di elevata importanza e di accresciute capacità, in grado di assestare gli equilibri territoriali già presenti, difendendo le singole posizioni delle monarchie aderenti ed anche di rafforzarle di fronte ad eventuali minacce. Tuttavia esistono altre cause ostative all'attuazione del progetto, oltre la presenza della minoranza scita, lo scarso livello di democrazia e le reciproche diffidenze, che non hanno ancora permesso la partenza sia della moneta unica che dell'unione doganale. Ma la crisi economica e sopratutto politica proveniente dalla primavera araba, che è arrivata nella regione soltanto smorzata, potrebbero fornire l'impulso necessario alla creazione dell'unione dei paesi del Golfo.

domenica 13 maggio 2012

Pyongyang favorisce l'intesa tra Cina, Corea del Sud e Giappone.

La volontà Nord-Coreana di effettuare un terzo test nucleare, fatto che sarebbe addirittura imminente, sta diventando il motivo principale di una nuova alleanza che si sta delineando ad oriente. Infatti Cina, Corea del Nord e Giappone ritengono all'unanimità inacettabile questa determinazione di Pyongyang. Il possibile test nucleare della Corea del Nord è ritenuto dai tre paesi una provocazione inacettabile, densa di conseguenze negative per la ditattura nord coreana. Si tratta dell'ennesima azione incomprensibile del paese asiatico, dove la popolazione è allo stremo per la mancanza di generi alimentari e dove il recente passaggio di potere non ha portato alcuna novità. Malgrado le speranze, il nuovo inquilino della residenza presidenziale nord coreana non devia dalla linea governativa precedente e si pone nel solco già tracciato da nonno e padre. In realtà questa volontà di effettuare un nuovo test atomico potrebbe essere la prova definitiva che il potere è esercitato dall'elitè militare, come più volte sospettato. Questo aspetto costituirebbe la maggiore preoccupazione della Cina, l'unico alleato della Corea del Nord, che teme le iniziative, sempre più imprevedibili di Pyongyang, come fattore destabilizzante per l'area, capaci di alzare l'attenzione americana su richiesta di Corea del Sud e Giappone e mettere in pericolo le vie marittimo commerciali, sfruttate anche dal colosso cinese. In un momento di grande difficoltà economica ogni via deve essere libera per l'incremento dei commerci e non deve esserci alcun elemento di preoccupazione per la stabilità dell'area. Nonostante la situazione di tensione il fatto che Pechino, Seul e Tokyo abbiano trovato un terreno d'intesa comune, rappresenta una situazione favorevole per la diplomazia mondiale ed un terreno da coltivare in vista del superamento delle reciproche diffidenze. La zona rappresenta attualemte uno dei punti più caldi del pianeta, sia per i confronti tra le due Coree, che tra Corea del Nord e Giappone e quest'ultimo con la Cina. Pechino nei confronti del problema regionale ha sempre tenuto un atteggiamento responsabile, utilizzando tutta la sua forza di pressione nei confronti di Pyongyang, ma il cambio al potere, forse più nominale che reale e la sempre più difficile situazione economica del paese nord coreano, stanno determinando una azione politica tutt'altro che lineare da parte di Pyongyang. Sia la Corea del Sud, che la Cina temono anche che le migrazioni del popolo nord coreano, dovute alla carenza dei generi alimentari, possano mettere in difficoltà le proprie rispettive zone al confine con la Corea settentrionale. Altre sanzioni ancora più restrittive potrebbero portare il paese al collasso, una sorta di implosione interna dovuta più che alle condizioni politiche e civili alla fame ed alla denutrizione che potrebbe concretizzarsi, non con una ribellione armata ma con una fuga di proporzioni bibliche. Tuttavia la Cina, che ha in mano il pallino della decisione, non ha ancora deciso sa fare cadere il governo nord coreano, infatti se da un lato una Corea del Sud alle prese con i costi di una eventuale riunificazione del paese, sarebbe un avversario economico indebolito, ma anche una area di notevole espansione per i prodotti cinesi, Pechino, con la caduta di Pyongyang, perderebbe un alleato politico che per ora gli sta consentendo di controllare, seppure da lontano, una parte di territorio di importanza strategica. Non si tratta quindi di una decisione facile, che sarà presa urgentemente, ma comunque non troppo rimandabile. Intanto la situazione favorisce la collaborazione tra tre paesi solitamente diffidenti l'uno verso l'altro per motivi politici, strategici ed economici.

La sfiducia nella UE, pericolo per il mondo.

Il crescente calo della fiducia nell'istituzione europea, che interessa in maniera trasversale l'intero vecchio continente, rappresenta un fattore potenziale di destabilizzazione dell'intero pianeta. La UE, infatti, pur con tutti i suoi difetti riveste un importante ruolo nella politica mondiale, andando, sovente a bilanciare situazioni pericolose, sia in ambito diplomatico, che militare, che economico. Il difficile percorso dell'unificazione europea, non ha impedito alla UE di essere un importante protagonista in svariate situazioni difficoltose, che si sono risolte in modo positivo proprio per la presenza mediatrice dell'Unione Europea. La crisi economica ha però fatto variare prospettiva ad un gran numero di cittadini dei diversi stati che compongono l'Unione. La percezione, in parte sbagliata, di una invadenza in campo economico e normativo delle istituzioni di Bruxelles, sempre presente, seppure in minoranza, è ora accresciuta a causa della difficoltà materiale delle famiglie europee. Nonostante queste difficoltà non siano distribuite in maniera omogenea sul territorio europeo, anzi vi sono profonde diseguaglianze, dovute alle diverse politiche economiche dei diversi paesi, la diffidenza verso la UE è un sentimento che accomuna sia gli stati più ricchi che quelli più poveri. Logicamente le motivazioni sono diverse, a chi si sente sfruttato dalle condizioni economiche che si sono venute a creare, vi è il contraltare di chi non vuole essere ulteriormente spremuto per contribuire ad economie non autosufficienti. In realtà la vera colpa delle istituzioni centrali europee è quella di essere state poco presenti nell'elaborazione dei programmi economici dei singoli paesi, lasciando aggravare situazioni già presenti. Inoltre è mancata una protezione normativa sufficiente contro la speculazione, che sommata al fattore precedente, ha creato le condizioni per lo stato finaziario attuale. Ma se ai burocrati di Bruxelles si può imputare una sorta di miopia dell'azione preventiva, ad alcuni singoli stati non si può non imputare comportamenti dannosi al reale intendimento della unificazione europea. Se la Grecia, ma anche l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda ma anche l'Olanda, sono colpevoli di cattiva amministrazione, l'atteggiamento tedesco, rigido al limite dell'autolesionismo, è il maggiore responsabile della situazione presente. Il calcolo della Germania è quello di instaurare un controllo esasperato nei bilanci degli altri stati, per preservare, ma solo nel breve termine, la sua quota di mercato mondiale. Forse quello che muove il calcolo tedesco è di incamerare più valuta possibile nell'immediato per rifarsi degli aiuti che ha dovuto sborsare per aiutare le economie in difficoltà del continente. Se questo atteggiamento può essere capito a livello di una compensazione in parte realmente dovuta, non può essere accettato dall'insieme dell'istituzione europea perchè contiene un vizio di fondo, costituito dall'assenza programmatica del lungo periodo. La contrazione dei consumi e degli investimenti industriali in tutto il territorio europeo alla fine farà mancare i migliori clienti all'industria tedesca ed allontanerà gli investitori dei paesi emergenti, gli unici in grado di portare liquido fresco per la ripartenza dell'economia. Il ragionamento non è complesso e sicuramente è facilmente comprensibile a chi propugna l'esclusivo pareggio di bilancio, tuttavia le complesse alchimie politiche bloccano anche i ragionamenti più logici. Il risultato è quindi una crescente diffidenza verso l'Europa, su cui speculano movimenti politici estremisti capaci solo di portare idee di quaranta anni prima, che prevedono inflazione ed ulteriore speculazione e non tengono conto delle mutate condizioni della finanza mondiale e delle nuove capacità degli speculatori di arrivare fin dentro i bilanci dello stato. L'atteggiamento dei governi, a parole, è quello di preservare l'istituzione europea, ma se cresce la distanza con la società, sarà sempre più difficile mantenere questo impegno. Questo porta alla necessità di una nuova costituente europea capace di pensare normative nuove, in grado di guardare l'interesse dell'insieme che vada quello dei singoli stati. Ma il punto più urgente è quello di riguadagnare la fiducia dei cittadini europei con provvedimenti tangibili che ne accrescano il livello di benessere e sopratutto permettano l'uscita da quelle situazioni di emergenza sociale sempre più presenti, che costituiscono il principale alimento della diffidenza europea. La manovra è necessaria, il mondo ha bisogno dell'Europa e della sua funzione di perno e di punto di riferimento nell'agone internazionale, un punto su cui investire anche in chiave economica.

mercoledì 2 maggio 2012

La società israeliana è divisa sul possible conflitto con l'Iran

In Israele si ampia il divario tra il governo e chi non è favorevole ad un attacco militare all'Iran. Sono, infatti sempre maggiori ed autorevoli le voci che si levano con preoccupazione contro la possibilità di un intervento armato contro Teheran. Uno dei primi a dichiararsi contrario all'ipotesi militare è stato proprio il Capo dello stato maggiore dell'esercito, Benny Gantz, che non vede un pericolo imminente da parte dell'Iran, a questa presa di posizione ha fatto seguito quella dell'ex capo dei servizi segreti, Yuval Diskin, che interpreta la determinazione di Netanyahu come una sensazione non supportata da elementi abbastanza convincenti da trascinare il paese in una guerra che potrebbe essere solitaria. Anche Ehud Olmert, ex primo ministro israeliano, vede l'opzione militare soltanto come soluzione estrema, in ogni caso da percorrere non in maniera solitaria, ma con l'appoggio degli USA e di concerto con la comunità internazionale, inoltre nella stessa occasione Olmert ha espressamente dichiarato di essere fortemente dubbioso circa una conclusione di un accordo con i palestinesi da parte del premier in carica. Se la situazione pare comunque non evolversi, con l'Iran che conferma le sue intenzioni pacifiche rispetto allo sviluppo della tecnologia nucleare e gli USA continuano i loro sforzi diplomatici sempre accompagnati dalle sanzioni, sottoscritte anche dall'Europa, nel governo israeliano cresce la convinzione che l'obiettivo finale per Teheran è quello di usare le bombe nucleari contro lo stato ebraico per distruggerlo. Per dare ancora maggiore risalto ai convincimenti dell'esecutivo di Tel Aviv, Netanyahu ha usato la platea della commemorazione della giornata dell'olocausto, dando particolare enfasi alla minaccia iraniana e paragonando lo stato degli ayatollah alla Germania nazista. Sono argomenti retorici che sarebbero da maneggiare con cura e che il capo del governo usa deliberatamente, sapendo quanto colpiscono l'opinione pubblica israeliana. Ma la tattica di Netanyahu, non è mai stata quella di gettare acqua sul fuoco, in nessun frangente, infatti i recenti sondaggi elaborati nel paese danno in rialzo la popolarità del premier ed uno dei motivi sembra proprio essere il sentimento di paura nella popolazione nei confronti di un possibile attacco nucleare iraniano e della necessità di prevenirlo, che viene continuamente alimentato dagli apparati di governo. Negli analisti cresce la sensazione che questa tattica sia dettata dalla volontà di anticipare le elezioni previste per l'ottobre 2013: una vittoria schiacciante, come indicano gli attuali sondaggi, per Netanyahu, gli consentirebbe di scavalcare le influenti obiezioni che si stanno levando contro un attacco preventivo a Teheran. Con una maggiornaza schiacciante il capo del governo, avrebbe le mani maggiormente libere per qualsiasi decisione. Quello che traspare quindi, è un paese spaccato dove gran parte delle elite sono contrarie ad una guerra dall'esito e sopratutto dallo sviluppo molto incerto, al contrario della maggioranza della popolazione che pare ormai seguire le convinzioni del premier; inoltre negli ambienti più estremisti dell'ebraismo ortodosso potrebbe farsi strada la convinzione che un conflitto di tale portata potrebbe portare anche ad una soluzione più favorevole nei confronti dei palestinesi, permettendo di guadagnare ulteriore terreno per lo stato ebraico. E' uno dei risvolti potenzialmente più pericolosi, perchè impedirebbe una soluzione condivisa, unica condizione per un processo di pace duraturo, senza il quale la regione tutta sarebbe trascinata in un vortice inarrestabile di violenza.

martedì 24 aprile 2012

I difficili rapporti tra Israele ed Egitto preoccupano gli USA

Israele non aveva accolto bene, fin dall'inizio, la primavera araba egiziana. La permanenza la potere di Mubarak aveva permesso a Tel Aviv di stringere accordi sicuri con il vicino arabo, sia di pace, che si controllo reciproco delle frontiere, sia di collaborazione, anche in virtù del trattato del 1979, firmato alla Casa Bianca, e quindi con la benedizione degli USA, tra Begin e Sadat. Per Israele la frontiera egiziana era essenziale nel proprio scacchiere strategico, perchè rappresentava un accesso controllato in modo sicuro, che preservava, quindi il fianco meridionale, permettendo una maggiore concentrazione verso punti ritenuti più pericolosi. La garanzia del presidio garantiva invece all'Egitto di Mubarak i privilegi in aiuti economici ed armi con cui gli USA ricambiavano la stabilità della frontiera. Sebbene nei disordini di piazza Tahrir, cioè all'inizio e nel prosieguo della rivolta, non vi siano state ne manifestazioni ne una retorica contro Israele, con l'allontanamento del potere del dittatore egiziano è apparsa sempre più crescente l'ostilità contro lo stato ebraico, rimasta fino ad allora pressochè latente, in ragione del fatto che gli islamisti, tra i principali avversari di Mubarak, erano frequentemente fatti oggetto di repressione. Ma l'accordo tra Il Cairo e Tel Aviv è sempre stato percepito, non solo tra i più radicali, come un tradimento della causa araba; ciò ha determinato un progressivo deterioramento dei rapporti tra i due paesi, che ora sono caratterizzati da una reciproca diffidenza e soffrono di ulteriori margini di peggioramento. La vicenda del taglio alle forniture di gas da parte dello stato egiziano a quello israeliano rappresenta ora il culmine della tensione tra i due stati. Malgrado il tentativo di fare passare la questione, da parte di entrambi i governi come mero problema commerciale, forse nel tentativo congiunto di stemperare la questione, il fatto segue numerose diatribe, tra cui un incidente di frontiera tra le truppe dei due stati dove sono deceduti ben 11 soldati egiziani, a cui ha fatto seguito l'occupazione ed il saccheggio dell'ambasciata israeliana a Il Cairo, che di fatto ha determinato l'abbandono della sede diplomatica da parte del personale di Tel Aviv. L'attuale maggioranza parlamentare egiziana, costituita da partiti di matrice islamica, hanno più volte ribadito di non volere porre in discussione la pace con il paese vicino, ma sui reali motivi di queste dichiarazioni pesa la minaccia del mancato rifornimento dei consistenti aiuti statunitensi, piuttosto che una reale convinzione a mantenere rapporti di buon vicinato. Del resto sono proprio gli USA ad avere l'interesse del mantenimento di, almeno, una non belligeranza tra i due stati, che sarebbe in grado di aprire un nuovo fronte difficile da governare per la stabilità già precaria della regione. Per scongiurare pericoli da parte di integralisti l'esercito egiziano, che resta uno dei maggiori alleati israeliani nel paese, ha rafforzato la propria presenza nel Sinai, per prevenire atti terroristici contro Tel Aviv. In questa partita le forze armate del Cairo giocano un ruolo essenziale data la loro laicità, rappresentano un corpo sociale abbastanza impermeabile alle istanze islamiste, sopratutto le più radicali, ed insieme sono fortemente interessate agli aiuti americani, che sono per buona parte costituiti da armamenti. Ma ad Israele non basta l'aiuto dell'esercito egiziano, la certezza di una popolazione non certo ben disposta nei propri confronti appena oltre il confine ha decretato la necessità di rafforzare la presenza sui confini territoriali meridionali, con tre divisioni per rafforzare il controllo del territorio. In alcuni ambienti dello stato ebraico l'Egitto è ritenuto ancora più pericoloso che l'Iran ed in effetti, Teheran è molto lontana e materialmente non ha mai portato reali pericoli a Tel Aviv, se non con minacce cui non è mai stato dato seguito. Ben diversa in quest'ottica la valenza dell'Egitto, dal quale sono entrati e possono entrare armi per Hamas, kamikaze pronti a tutto e volontari per la guerra di liberazione della Palestina. Sebbene questo fronte riscuota minore interesse mediatico in effetti, almeno al momento è quello più gravido di pericoli immediati e tangibili e si capisce perchè Washington, malgrado stia in silenzio, segua la situazione con altrettanta attenzione e riguardo del possibile confronto tra Israele ed Iran. Se cede la frontiera egiziana, infatti, per Israele resta sicuro il solo confine con la Giordania e malgrado la potenza di fuoco dell'esercito della stella di David sia enorme diventerebbe obiettivamente difficile fare fronte a più situazioni contemporaneamente, ciò vorrebbe dire un nuovo teatro di azione per le forze armate americane: un pericolo da scongiurare comunque ma specialmente in campagna elettorale.