Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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domenica 17 giugno 2012
USA ed Europa: politiche di cittadinanza differenti
La decisione di Obama di dare la cittadinanza ad 800.000 americani nel cuore, come li ha definiti il Presidente USA, pone ancora una volta la questione della forza e dell'innovazione americana rispetto all'immobilismo europeo. Aldilà delle considerazioni di carattere partigiano, che hanno presentato i repubblicani, con argomentazioni anche valide, e delle implicazioni legali di un provvedimento che presenta vistose lacune, occorre riflettere, in questi tempi di profonda crisi economica, sull'impatto di un provvedimento del genere e della capacità di sostenerlo. La norma va ad incidere direttamente su quel lato dell'economia, che considera gli investimenti come una notizia che può fare innalzare il prodotto interno lordo di un paese. Naturalizzare 800.000 persone non può che essere visto come un atto di fiducia in una ripresa economica che stenta a decollare, ma, insieme, anche una profonda lezione all'Europa del regionalismo con le prospetive ristrette. Certo, anche in un momento particolarmente difficile gli USA hanno una forza economica in grado di sostenere un provvedimento che la UE non potrebbe neppure concepire. Ma il lato economico, pur importante, rappresenta solo una parte del problema. La chiusura di molte società europee è dovuta alla mancanza di capacità di gestione di un problema, che poteva diventare una opportunità. Istituzioni miopi non hanno saputo regolare un mercato dei clandestini, che faceva comodo a sfruttatori presenti in ogni campo, con il risultato di innalzare la temperatura rilevata nel termometro sociale. Questo ha determinato una chiusura culturale, che restringe le possibilità di naturalizzazione anche nei casi più evidenti. Dare la cittadinanza a chi è nato o anche solo cresciuto nei paesi europei non è un atto di misericordia ma un concreto investimento per la crescita della società. Non si auspica qui una apertura delle frontiere non regolata, anzi si chiede una regolazione più attenta in grdo di elaborare le giuste distinzioni. D'altra parte il fenomeno migratorio è un fatto irreversibile che non si ferma con ottuse chiusure indiscriminate. Obama ha fatto molti errori nel suo mandato, sopratutto non riuscendo a mantenere alcune promesse elettorali, ma con questo provvedimento si rivela un politica di alta classe, che in Europa non ha alcun paragone.
venerdì 15 giugno 2012
Chavez: anello di passaggio della politica estera russa ed iraniana
Quella che si sta profilando è una alleanza tra dittatori certamente da non sottovalutare. Gli incontri tra Chavez, Ahmadinejad e Lukashenko, non possono non mettere in apprensione il mondo occidentale per la creazione di rapporti che si annunciano sempre più stretti. Il punto di partenza riguarda la produzione militare di cui il Venezuela sta diventando un grande compratore. L'acquisto di droni, armi e munizioni rientrano nel piano di Chavez per difendere quella che lui definisce la sua rivoluzione. Il principale fornitore del Venezuela è proprio l'Iran, che estende il suo modello di politica estera contro gli Stati Uniti, anche nel continente sud americano. Ad accomunare Caracas e Teheran vi è una rinnovata retorica anti americana, nel momento storico caratterizzato dalla presidenza Obama, che probabilmente rappresenta il periodo meno indicato per praticare questo tipo di discorsi. Tuttavia non si può non individuare negli USA il nemico principale, contro cui Chavez intende difendersi. Alla coppia iraniano venezuelana si aggiunge Lukashenko, il dittatore della Bielorussia, paese più volte sanzionato dalla comunità internazionale, per la negazione dei diritti civili, ma sostenuto da Mosca. La visita del capo bielorusso a Caracas, rientra in una strategia dove è francamente difficile non intravedere la mano dei russi, che, appunto tramite Lukashenko, offrono l'appoggio a Chavez, che forse non possono dare in maniera più limpida. Quello che si prefigura pare un ritorno al passato delle relazioni internazionali, per Putin il piano, anche presentato come proposta elettorale, di fare diventare di nuovo la Russia una grande potenza, passa per una rinnovata rivalità con gli Stati Uniti, in quello che pare un tentativo di rivalsa per le posizioni perse con la caduta del regime sovietico. Mosca anzichè collaborare con Washington, come pareva avviata a fare negli anni novanta dello scorso secolo, si allontana sempre di più dalle istanze, non solo americane ma anche occidentali. Il caso della Siria è sintomatico, ma anche il dubbio rapporto che coltiva con Teheran, fatto di alti e bassi certo, ma senza che vi sia mai una esplicita condanna della corsa agli armamenti nucleari, non può che fare intravedere un disegno chiaro dell'azione diplomatica del Cremlino, che mette al centro le relazioni con paesi schierati principalmente contro gli USA ed in seconda battuta con l'occidente, più spesso identificato con la UE. La conquista del continente sudamericano, per le sue risorse, è un obiettivo ritenuto praticabile, con molti distinguo relativi ad i diversi paesi, dai nemici degli USA, perchè l'avversione a Washington, malgrado la situazione sia cambiata, ha radici storiche non ceerto ingiustificate. L'azione americana delgi anni settanta ed ottanta, che ha privilegiato le parti più conservatrici del paese, per asservirle agli scopi di Washington, benchè abbandonata da tempo, ha lasciato pesanti strascichi nella popolazione e negli stessi governi in carica. Anche nei paesi più ricchi, come il Brasile, vi è uno smarcamento sempre più forte dall'orbita americana; tuttavia, non sono i paesi più ricchi e nei quali vi è un processo democratico più radicato nella vita sociale ad essere oggetto delle attenzioni dei nemici degli Stati Uniti, ma, piuttosto, stati, come appunto il Venezuela, dove la componente populista è maggioritaria tra la popolazione. Ahmadinejad è bravo a comprendere in quali interstizi può penetrare per portare avanti la sua politica quasi in casa del nemico, assumendo una visibilità ormai preclusa in altre parti del globo. A ciò fa da contraltare la politica estera americana, che pare avere abbandonato alcune zone a causa della troppa concentrazione in altre, come l'Afghanistan, l'Iraq e le zone del Giappone e della Corea del SUd, ritenute strategiche per la vicinanza con la Cina. E' vero che Obama ha professato una politica estera da esercitare sottotraccia, ma estremizzare questo atteggiamento potrebbe portare consensi alle maggiori motivazioni repubblicane in campagna elettorale. Per gli USA è importante non ritirarsi troppo e chiudersi all'interno dei propri confini: gli spazi lasciati possono essere colmati facilmente da altri.
giovedì 14 giugno 2012
In Egitto sciolta la camera bassa, dove i Fratelli Musulmani avevano la maggioranza
La decisione delle Corte Costituzionale egiziana, che ha sciolto la Camera bassa del parlamento formatasi dal risultato delle recenti elezioni, pone l'Egitto di nuovo in una situazione molto pericolosa. Il motivo dello scioglimento deriva dalla legge elettorale vigente, che sarebbe contraria alla costituzione. Il risultato elettorale aveva consegnato alla formazione religiosa dei Fratelli Musulmani la maggioranza del ramo del parlamento. Lo scioglimento, avviene in un momento molto delicato per il paese, alla vigilia delle elezioni presidenziali. Che la situazione sia tesa all'interno del paese lo testimonia il fatto che il Consiglio militare si sia riunito d'urgenza per controllare lo svolgimento degli avvenimenti, i quali, peraltro, non si preannunciano distesi. Mohamed Beltagui del comitato esecutivo del partito dei Fratelli Musulmani, Giustizia e Libertà, ha definito esplicitamente il provvedimento un colpo di stato, che annulla le vicende dei mesi scorsi, che hanno portato alla caduta di Mubarak ed alle prime libere elezioni svoltesi nel paese. In effetti il provvedimento della Corte Costituzionale egiziana, a prescindere dai motivi legali, appare mosso da considerazioni politiche, fondate sulla storia stessa del paese, dove le classi dominanti non hanno mai visto di buon occhio, quella che loro considerano una deriva quasi teocratica. Il risultato delle elezioni aveva scontentato parecchie anime della protesta, sopratutto quelle laiche, per il timore dell'instaurazione dei principi islamici come legge vigente. Fattore che i vincitori hanno sempre smentito, ma ciò non ha mai convinto chi auspicava una direzione più occidentale dell'Egitto e sopratutto i militari, grandi registi dietro le quinte, del passaggio di potere e della caduta di Mubarak. Probabilmente dietro la decisione della Corte, più che le opinioni dei gruppi partitici che speravano in una svolta del paese grazie all'instaurazione di una democrazia simile a quelle vigenti in occidente, vi è chi detiene effettivamente il potere nel paese: i militari. Il timore di perdere le proprie prerogative ed anche i propri privilegi, che verosimilmente verrebbero ridotti da un governo di matrice islamica, ha creato i presupposti per la decisione della Corte. Ora tutto potrebbe ritornare in gioco e ripartire dall'inizio: l'organizzazione logistica dei Fratelli Musulmani, sopravissuta nell'illegalità durante il regno di Mubarak, è capace di ricreare quel clima di protesta che ha permesso la caduta del faraone, anche se ora non dovrebbero godere dell'appoggio dei partiti laici, di cui erano alleati durante le fasi acute della ribellione, che si sono detti scontenti per il risultato delle urne, che appunto, hanno favorito le formazioni confessionali. In questa situazione di profonda incertezza sono state significative le parole di El Baradei, che ha sottolineato come l'elezione di un presidente di un paese privo della Costituzione e di un Parlamento, significa consegnare ad un individuo poteri più ampi di quelli di un dittatore. Ragionevoli, quindi le sue proposte: da un lato l'elezione di un presidente ad interim o, ancora meglio, di un consiglio presidenziale che adempia ai propri doveri insieme ad un governo di unità nazionale e la creazione di una commissione costituente in grado di redigere una legge fondamentale capace di tenere conto di tutte le istanze presenti nel paese. Resta ora da vedere se il paese e sopratutto i militari intenderanno seguire questa strada, alla quale, come alternativa esiste solo di nuovo la guerriglia e le violenze.
Gli USA accusano la Russia per gli aiuti ad Assad
La questione siriana, troppo a lungo sottovalutata, rischia di avere un impatto ben maggiore sul complesso sistema delle relazioni internazionali. L'ultima vicenda riguarda la rinnovata tensione tra USA e Russia, che pare ricalcare le cupe atmosfere della guerra fredda. Gli Stati Uniti accusano Mosca di rifornire Damasco con armi, elicotteri da combattimento e sistemi anti aerei, viceversa la Russia accusa Washington di fare altrettanto con le forze ribelli. Se entrambi negano le reciproche accuse, Mosca ammette però, di avere effettivamente inviato i sistemi di difesa aerea, facenti parte di lotti di forniture firmate precedentemente dell'inizio della guerra civile in corso, mentre gli USA hanno confermato soltanto l'invio di materiale medico ed apparati per le radio comunicazioni, smentendo in modo categorico l'invio di armamenti. Se risulta ben difficile stabilire, sopratutto adesso, la verità, l'invio dei sistemi anti aerei, peraltro confermato dai russi, va ad inquadrarsi nella strategia di Mosca di evitare che forze aeree possano bombardare le truppe di Assad. Il pensiero russo si basa sui precedenti casi della Serbia e della Libia, dove, per sfiancare i regimi in carica è stata usata l'arma aerea, che attraverso bombardamenti, che dovevano essere mirati, ha operato con lo scopo di indebolire i governi in carica ed in appoggio delle forze di terra ribelli, evitando l'impiego diretto di truppe straniere sul terreno. Anche per la Siria i piani erano questi, ricalcando un modello di azione ormai assestato. La Russia, affiancata dalla Cina, ha unito gli sforzi diplomatici con il veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, con la fornitura dei sistemi anti aerei ottenendo così di blindare dall'alto il regime di Assad, anche nel caso di azioni concordate al di fuori dell'ombrello delle Nazioni Unite. Così se i sistemi anti aerei russi assicurano una copertura del cielo siriano, in concomitanza con l'impossibilità di una invasione da terra, Assad per il momento resta saldamente al suo posto, giacchè la composizione delle forze in campo può consentire ai ribelli, nella migliore delle ipotesi, soltanto il mantenimento delle zone conquistate, insomma una situazione di stasi, che, però gioca a favore del dittatore siriano, perchè gli consente di recuperare tempo prezioso per riorganizzare la riconquista sistematica dei territori a lui più lontani. L'atteggiamento russo non è però una novità, nello schema geostrategico di Mosca la Siria rappresenta una pedina fondamentale, perchè in quella nazione è ospitata l'unica base militare russa nel Mediterraneo ed un eventuale cambio al vertice del paese potrebbe creare le condizioni per uno sfratto delle navi militari ex sovietiche, sopratutto dopo il comportamento di appoggio ad Assad tenuto finora dal governo russo. La situazione particolarmente tesa tra USA e Russia impedisce qualsiasi progresso sulla via della pacificazione in Siria e l'irrigidimento delle rispettive posizioni non favorisce gli incontri bilaterali che dovevano tenersi nei prossimi giorni e che risultano ora sospesi. Il maggiore impegno della Russia a favore di Assad rischia così di diventare un pericoloso intralcio nella soluzione della questione e determina che l'unica strategia possibile sia un maggiore coinvolgimento della Cina, verso cui devono essere operate azioni di convincimento a cambiare il proprio atteggiamento nel considerare possibili alternative all'ormai fallito piano di pace di Annan. Un mutato atteggiamento cinese porterebbe la Russia ad un isolamento diplomatico sulla questione siriana difficilmente spiegabile se non con l'ammissione, per ora sempre negata, di profondi interessi in Siria, tali da permettere le carneficine praticate da Assad: una posizione difficilmente sostenibile per una nazione che aspira a riprendere il suo ruolo di super potenza, in un contesto che non è più quello degli anni della guerra fredda.
mercoledì 13 giugno 2012
Gli attentati sunniti in Iraq possono favorire la politica estera iraniana
I numerosi attentati di questi giorni in Iraq, contro gli sciti, rimettono al centro la questione dell'unità del paese, da sempre diviso tra el due principali correnti dell'islam. Il governo di Saddam Hussein aveva risolto il problema favorendo i sunniti e sottoponendo gli sciti ad una ferrea repressione; con il governo democratico e la concomitante partenza del grosso dei militari americani, il paese sembra sprofondato nell'ennesima spirale di violenza. Le conseguenze, oltre che sul piano interno, rischiano di essere molto pesanti su quello internazionale, con il solito Iran a fare la parte del guastatore. Non è un mistero, infatti, che Teheran ambisca a portare sotto la sua influenza il paese iraqeno, molto vicino ad un vuoto di potere, per allargare la sua sfera d'azione nella regione. Certamente, se non all'intero territorio, l'Iran mira alla parte meridionale del paese, dove vi è la maggiore presenza scita e vi sono diversi giacimenti petroliferi. La questione della presenza di sciti e sunniti all'interno dello stesso paese, poteva essere risolta con la divisione in due parti dello stato, nella fase del dopo Saddam, ma Washington non ha optato per questa soluzione, proprio per impedire che Teheran potesse, a quel punto, concretizzare le sue mire sulla parte scita del paese. La strategia sunnita mira a portare il paese nel terrore, con attentati kamikaze, che spesso hanno come obiettivo luoghi sacri per gli sciti, non a caso tra gli ultimi attentati hanno avuto come destinatari pellegrini sciti che si recavano alla celebrazione per la venerazione di un Imam. Come già accaduto per la repressione degli sciti nei paesi del Golfo Persico, Teheran potrebbe sfruttare questa situazione a proprio vantaggio, inglobandola nella propria politica derivante dall'auto nomina a paese protettore degli sciti nel mondo, specialmente quelli oggetto di prevaricazione da parte dei sunniti. Si tratta di una strategia che permette all'Iran di percorrere una doppia finalità: allargare la propria influenza su paesi stranieri, spesso nemici dichiarati, come l'Arabia Saudita, attraverso l'appoggio della parte scita della popolazione di quegli stati e nello stesso tempo, dare indicazioni a questi gruppi etnici e dirigerli verso ribellioni capaci di destabilizzare l'ordine interno. Non a caso proprio l'Arabia Saudita ha più volte protestato contro le ingerenze iraniane degli affari interni della propria nazione e degli alleati, come il Bahrain. Il progetto iraniano in politica estera si muove quindi su di una direttrice che possa annullare gli effetti dell'isolazionismo imposto dagli stati occidentali, per sfondare verso zone dove la presenza scita può assicurare un canale preferenziale verso chi si presenta come a loro come protettore e punto di riferimento religioso. Ciò determina una capacità di mobilitazione anche piuttosto importante all'interno di stati stranieri, che diventa quindi uno strumento concreto di pressione internazionale. Ma, allo stesso tempo , costituisce un potenziale pericolo per la stabilità regionale, in realtà uno degli obiettivi di Teheran pare muoversi proprio in quel senso, l'aiuto alla Siria di Assad, le citate ingerenze nei paesi del Golfo e l'attività nello Yemen, configurano l'insieme di una complessa strategia, anche sotto traccia, volta a diventare la risposta alle sanzioni occidentali, questo perchè senza una adeguata platea, la repubblica teocratica iraniana non può schierare il suo arsenale propagandistico, che ne costituisce una delle maggiori fonti di sopravvivenza.
martedì 12 giugno 2012
L'inutile lamentazione di Obama
Nei giorni scorsi Obama ha chiesto all'Europa di cambiare rotta, spostandosi dal rigore a provvedimenti che possano facilitare la crescita, sopratutto per non penalizzare ulteriormente i prodotti statunitensi, che stentano nelle vendite in quello che è comunque, malgrado tutto, il mercato ancora più pregiato del mondo. La richiesta, ancorchè condivisibile, muove però da più di un vizio di fondo, infatti, fatte salve le grandi responsabilità dei governi nazionali e delle istituzioni centrali europee è un fatto che la bolla immobiliare americana ha avuto una grande parte di responsabilità nello scatenare la crisi attuale, che le società di rating continuino ad esprimere giudizi pericolosi che influenzano i mercati in maniera abnorme, nonostante siano state responsabili di più di una valutazione errata che ha prodotto conseguenza nefaste, che la finanza USA, come quella inglese, sia ancora una macchina senza controllo adeguato le cui conseguenze di operazioni perlomeno avventate si riverberano inevitabilmente nella zona euro. Obama è probabilmente il migliore presidente possibile in un paese come gli Stati Uniti, viziato da anni di liberismo eccessivo, ma la sua azione, al comando della nazione più importante del mondo, quella che con il suo comportamento può influenzare gran parte degli altri stati, se inquadrata in una visuale più vasta, non è stata sufficiente. Chi sperava nella presidenza Obama per una radicale trasformazione degli assetti finanziari ed economici del pianeta, non ha potuto che subire una cocente delusione. Limitato da una congiuntura effettivamente troppo negativa e da una coabitazione con una maggioranza diversa dal suo partito nel potee legislativo, il Presidente americano ha esercitato un potere riformista timido e talvolta appiattito su necessità elettorli contingenti, che ne hanno frenato quasi da subito la ventata innovatrice. Significativo è stato il rapporto con i gruppi di Occupy Wall Street, praticamente ignorati, seppure fossero portatori di reali sentimenti presenti in una platea più vasta e che richiedevano, in modo non violento, quella riforma del sistema finanziario, individuata come necessaria per frenare la crisi e ristabilire su parti più egualitarie la redistribuzione del reddito mediante anche una tassazione profondamente rivista. Il mancato incontro con questi di gruppi spontanei, capaci di una protesta intelligente, troppo spesso soffocata in maniera anche violenta dalle forze dell'ordine, e quindi anche, in ultima analisi, da Obama stesso, rappresenta un segnale chiaro di come l'inquilino della Casa Bianca non abbia saputo cogliere quell'opportunità per tramutare in provvedimenti legali un sentimento comune, molto vasto nella nazione americana. Se tale protesta poteva dirsi partita dalla sinistra americana, a livello di idea era stata fatta propria anche da parti del partito conservatore, consci della necessità di una doverosa ristrutturazione del sistema finanziario statunitense. Occorre dire che se Obama non ha praticamente accolto questa esigenza in casa democratica, nei conservatori è stata del tutto ignorata, come hanno bene evidenziato i temi maggiormente trattati nella campagna elettorale per eleggere lo sfidante nelle prossime presidenziali. Nei repubblicani si è preferito puntare su temi come l'aborto e la supremazia americana, che fanno sempre una grande presa sul proprio elettorato, ma si è tralasciato di proposito di portare in prima linea i temi economici, lasciando inatatta la dottrina del partito, improntata al liberismo, ma senza urlarlo troppo. Insomma dagli Stati Uniti, in entrambi i maggiori partiti si è avuto un atteggiamento di contrita sottomissione alle ragioni della finanza. Ma ciò non autorizza, specialmente chi ricopre la massima autorità USA ha fare prediche, che paiono soltanto fuori luogo. Gli USA sono la massima potenza finanziaria del mondo, ogni movimento, positivo o negativo, comporta inevitabilmente delle ricadute sul resto dei mercati. Se si appura la necessità di una regolazione del sistema finanziario americano e poi questo non avviene la colpa non è certo dell'Europa, che anche per questo motivo non può più permettersi i prodotti americani.
E' possibile una guerra tra Israele e la Siria?
Nella speranza di vedere, almeno, indebolita la grande minaccia iraniana, Israele rinuncia alla propria neutralità nei confronti delle diatribe del mondo arabo, e si pronuncia a favore dei ribelli siriani. Si tratta di un cambiamento profondo nel panorama diplomatico regionale, sebbene, per ora senza ricadute efficaci, aldilà dell'appoggio formale agli insorti contro Assad. Con il presidente siriano, fino ad ora, il rapporto, ufficialmente di inimicizia, è stato in realtà improntato alla non aggressione reciproca, tanto che la frontiera con la Siria, per Israele, era quella ritenuta meno pericolosa dall'esercito di Tel Aviv. Ufficialmente la pronuncia israeliana è dovuta alla crudele repressione attuata dal governo di Damasco contro i civili, in realtà la dichiarazione a favore dei ribelli non è venuta sull'onda dell'emozione di quanto visto da tutto il mondo, ma è frutto di una profonda riflessione maturata con ponderazione nel tempo. Lo sviluppo che hanno preso i rapporti, sempre più stretti, tra Damasco e Teheran è alla base del ragionamento israeliano: Assad non è più ritenuto un vicino affidabile, ed anzi la piega che ha preso la guerra civile nel suo paese, ne fa un personaggio ormai imprevedibile, capace, per distogliere l'attenzione dalla sua politica di repressione, di azioni diversive molto pericolose, che potrebbero riguardare anche Israele. Damasco possiede un grande arsenale di armi chimiche, che potrebbero essere girate verso il territorio israeliano o direttamente dalle forze regolari siriane o girate agli Hezbollah che potrebbero usarle dal Libano. Si tratta di uno scenario estremo ma potenzialmente verificabile, Assad potrebbe guidare tutta la rabbia dell'estremismo islamico, contro un nemico facile, capace di aggregare forze più disparate. La mossa consentirebbe, insieme al sempre più incomprensibile atteggiamento cinese e russo, di guadagnare tempo prezioso, da investire in ulteriori repressioni degli oppositori, che continuano a combattere con il solo conforto di aiuti matriali esterni. Va anche detto che l'oggetto maggiore a cui sono indirizzate le azioni militari governative siriane è la parte di popolazione sunnita, la meno determinata contro Israele, al contrario di quella scita, pesantemente influenzata dalla teocrazia di Teheran e più favorevole al mantenimento di Assad al potere. Si sono così riposte le antiche speranze di Israele di vedere la Siria avvicinarsi ai paesi sunniti più moderati per abbracciare, ormai totalmente l'alleanza con l'Iran. Questo elemento è fondamentale per valutare la sicurezza futura del paese della stella di David: una condivisione della politica estera iraniana, da parte di Damasco, non può non comprendere Israele come principale nemico. In questa ottica una permanenza al potere di Assad, potrebbe fornire a Teheran basi per i propri missili, anche nucleari, particolarmente vicini allo stato israeliano, che diventerebbe sotto minaccia costante. E' una considerazione che apre la possibilità, per Israele, della valutazione di un attacco diretto alla Siria. Per i ribelli si tratterebbe del più inaspettato degli aiuti, ma anche del più controverso, a non tutte le correnti, spesso in contrasto tra di loro, che formano l'opposizione ad Assad, questo aiuto sarebbe gradito. Ma la misura porterebbe strategicamente Israele più vicino all'Iran, nel quadro di un possibile attacco preventivo ai centri di produzione dell'atomica. Si tratterebbe anche si una situazione nella quale gli USA, non potrebbero esimersi dall'intervento, magari insieme a partner europei, coperto da evidenti ragioni umanitarie. Questo scenario amplia così le possibilità di un conflitto in medio oriente, dietro cui le ragioni fondamentali sono costituite dall'irresponsabilità della politica estera iraniana, reale minaccia alla pace nella regione.
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