Politica Internazionale

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mercoledì 5 dicembre 2012

Xi Jinping affronta la politica estera

Xi Jinping, il nuovo segretario del Partito Comunista Cinese, ha effettuato il suo primo discorso di politica estera, dopo la nomina al vertice della principale organizzazione politica della Cina; l'occasione è stato un incontro con esperti, imprenditori e studiosi sia del paese, che provenienti dall'estero. Formalmente Xi Jinping, non è ancora entrato in carica, il suo insediamento avverrà nel prossimo mese di marzo, ma data l'importanza del suo ruolo, gli osservatori di politica internazionale attendevano con trepidazione le parole del nuovo leader della seconda potenza mondiale. Il discorso è rimasto nel solco della tradizione cinese, molto generale ed infarcito di buoni propositi, quasi ecumenico nei confronti del mondo intero, anche di quelle che potranno essere le nazioni avversarie. Partendo dal punto fermo che la Cina deve raggiungere i propri obiettivi, il nuovo segretario del Partito Comunista, ha affermato che ciò non dovrà essere a discapito di altri paesi e che, anzi, sarà necessaria una maggiore apertura della Cina verso il mondo esterno. La caratteristica fondamentale dovrà essere uno sviluppo pacifico, dove la competizione economica non dovrà generare sconfitti ma creare i presupposti affinchè, nello stato di economia globale e globalizzata, sia favorita la crescita generale. Queste intenzioni si possono facilmente comprendere con le esigenze cinesi di allargare i propri mercati, creando una fase espansiva che favorisca la crescita ulteriore del paese; è facile immaginare che per fare ciò la Cina dovrà mettere mano al portafoglio ed immettere massicce dosi di liquidità nel sistema, cosa, peraltro già iniziata prima dell'avvento del nuovo segretario. In questo campo, quindi, si annuncia una continuità con la politica precedente, contraddistinta, semmai, da una maggiore spinta agli investimenti verso l'estero. Quello che appare è una volontà di affermazione morbida, non contrassegnata da proclami che il panorama internazionale possa intendere in maniera troppo spinta. Tuttavia perchè ciò sia attendibile, il nuovo segretario dovrà operare anche sul fronte interno, favorendo quelle riforme sociali necessarie a ridurre le grosse iniquità presenti sul territorio cinese. A questo riguardo, nonostante le timide aperture in fase congressuale, i veri intendimenti di Xi Jinping non si sono ancora compresi a fondo. La necessità di una riforma che riguardi i diritti fondamentali e quelli legati al lavoro sono ben chiari alla nomenclatura cinese, che si trova però ad affrontare le resistenze delle parti più conservatrici del partito e, sopratutto, della periferia della nazione, dove il potere dei potentati locali, rappresenta ancora l'ostacolo maggiore alla diffusione della ricchezza, necessaria anche all'estensione del mercato interno, finora ancora poco sfruttato. Sui temi più specificatamente di politica estera, l'atteggiamento vago del nuovo segretario fornisce la sensazione che l'atteggiamento cinese del nuovo corso, non si discosterà troppo da quello precedente, la Cina, prediligendo l'aspetto commerciale ed economico, continuerà nella politica di non ingerenza assoluta negli affari interni degli altri paesi, tuttavia per Pechino è importante assumere una nuova dimensione sulla platea internazionale: in questo senso è possibile che la Cina tenda ad intraprendere una maggiore attività di mediazione nelle questioni internazionali, presentandosi come un partner al di sopra delle parti, nei conflitti e nelle questioni tra gli stati. In quest'ottica sarà fondamentale vedere come la Repubblica Comunista Cinese intenderà usare l'enorme potere del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU.

martedì 4 dicembre 2012

La NATO schiera i Patriot al confine tra Turchia e Siria

La pressione della Turchia sulla NATO, nonostante l'incontro con la Russia, ha dato il via libera da parte dell'Alleanza Atlantica alla dislocazione dei missili Patriot sul territorio di Ankara, per proteggere il paese da eventuali attacchi siriani. Il territorio turco era già stato colpito dall'artiglieria siriana in almeno due occasioni e la NATO si era riunita d'urgenza, come previsto dal protocollo in caso di aggressione di un proprio membro. La possibile evoluzione del conflitto siriano, che secondo fonti di intelligence, potrebbe vedere impiegate le tanto temute armi chimiche, da parte dell'esercito di Assad, ha costretto la NATO a compiere un passo praticamente obbligato, ma che è destinato a provocare delle reazioni nel mondo diplomatico. Infatti, nonostante le smentite del quartier generale di Bruxelles, che prevedono un impiego puramente difensivo dei missili Patriot, non è difficile prevedere che questa misura sarà interpretata come il primo passo per un intervento esterno nella guerra in corso in Siria. Le prime reazioni negative sono venute proprio da Mosca, che vede nel dispiegamento dei missili NATO, un elemento potenzialmente capace di generare ulteriore tensione in un'area già particolarmente provata, rischiando di innescare un conflitto anzichè evitarlo. Le ragioni della Russia sono comprensibili, se guardate alla luce degli interessi del Cremlino, ma allo stato delle cose, Mosca, all'interno delle grandi potenze, pare ormai essere rimasta sola ad opporre una resistenza più solida alle iniziative della NATO. In questa ottica il silenzio cinese pare abbastanza eloquente, il che non significa che Pechino potrebbe approvare un attacco della NATO, sopratutto in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, tuttavia sembra evidente che l'atteggiamento generale del panorama internazionale, con le ovvie eccezioni di alcuni paesi musulmani, primo fra tutti l'Iran, dovrebbe essere oramai orientato a dare una svolta decisiva ad un conflitto sempre più pericoloso in un'area fortemente instabile. Con questa lettura, che si fonda soltanto su di una interpretazione della successione dei fatti, l'esclusiva ragione difensiva dello schieramento dei Patriot è fortemente in discussione. Del resto vi è anche una serie di fatti che sembrano andare in questa direzione: la Turchia, prima di tutto, non gradisce una guerra ai suoi confini, per i problemi dei profughi e delle implicazioni della vicenda curda, fin dai primi momenti del conflitto l'atteggiamento turco è stato sfavorevole per Damasco, su queste perplessità si innesta la volontà americana di disinnescare la possibilità di un pericoloso allargamento del conflitto, che potrebbe riguardare Israele. Inoltre i regni sunniti del golfo Persico, che si sono impegnati da subito nel sostegno dei ribelli, premono per evitare che Teheran riesca ad aumentare la sua influenza nell'area. Vi è anche un'altro elemento che potrebbe avere accelerato lo schieramento dei missili sul suolo turco: malgrado la stasi sostanziale del conflitto, la forza dei ribelli pare attenuarsi negli ultimi giorni ed il pericolo di una ripresa delle forze governative è reale, ed è questo anche uno dei motivi che avrebbe indotto Assad ad usare l'arsenale chimico, per dare una soluzione a lui favorevole più veloce. Quindi per la NATO ci sarebbe il motivo per una rappresaglia ed un intervento diretto sul territorio siriano. Dal punto di vista strategico, quindi, i Patriot lanciati da basi contigue alla Siria, potrebbero ottenere un effetto maggiore e dare una svolta al conflitto. Resta da vedere quale sarà l'atteggiamento di Assad, che se ha già colpito la Turchia, apparentemente senza motivo, potrebbe reagire all'eventuale lancio di missili con una risposta particolarmente violenta. Questo elemento è quello che dovrebbe frenare maggiormente una azione preventiva con partenza dalla Turchia, ma la situazione è in continua evoluzione e non è da escludere che altri elementi di valutazione potranno aggiungersi alle decisioni prese sia sul campo che sul terreno diplomatico.

lunedì 3 dicembre 2012

Per Israele si profila una crisi diplomatica

La principale misura di ritorsione studiata dal governo israeliano, per il riconoscimento della Palestina, come stato osservatore all'ONU, rischia di provocare un incidente diplomatico senza precedenti. L'intenzione di Netanyahu è quella di dare il via alla costruzione di circa tremila case nel territorio della West Bank, in piena Cisgiordania; ma fin qui niente di nuovo, non è la prima volta che Tel Aviv infrange la legge internazionale, grazie all'uso della forza ed al silenzio degli stati occidentali, USA in testa. La differenza, sostanziale, è che i nuovi insediamenti andrebbero ad interrompere la continuità territoriale del futuro stato palestinese, essendo costruiti nella zona denominata E1. Israele non ha mai osato tanto per l'esplicito divieto degli Stati Uniti, ma il tanto temuto riconoscimento palestinese all'ONU pare avere fatto saltare ogni prudenza e cautela all'amministrazione di Tel Aviv. La mossa, oltre che oltremodo avventata, rischia di innescare una serie di situazioni che questa volta porrebbero Israele in un isolamento ancora più forte. Probabilmente Tel Aviv contava sul fatto che la divisione politica tra Hamas ed ANP, ottenuta con la pace dopo i bombardamenti di Gaza, fosse sufficiente per mettere in atto qualsiasi decisione con la solita impunità; ma questa volta ad essere colpita, oltre i palestinesi, è il potere di esercitare la propria sovranità delle nazioni occidentali, sanzionate con un atto che mette in pericolo ogni futuro processo di pace in medio oriente. Se Madrid ha espresso il proprio "disgusto" per l'operazione ed ha convocato l'ambasciatore israeliano, il Regno Unito e la Francia potrebbero ritirare i propri ambasciatori da Tel Aviv, peraltro già richiamati in patria per consultazioni ufficiali sull'argomento. Anche Stoccolma ha convocato il rappresentante diplomatico di Israele, mentre la Germania ha reso pubblica la propria preoccupazione per la decisione di Netanyahu. ul territorio israeliano, tuttavia, credono remote le possibilità di un ritiro definitivo degli ambasciatori dei paesi occidentali, forse perchè increduli ad una variazione così drastica di un comportamento che gli ha garantito, fino ad ora, una libertà di azione senza sanzione alcuna. Perfino Washington, che non ha, per ora, fatto nessun passo ufficiale, ha manifestato la sua opposizione al piano israeliano, pare con enfasi differente rispetto al passato. Se Israele voleva manifestare il proprio dissenso sulla decisione dell'ONU, con un atto particolarmente forte, vi è senz'altro riuscita, il problema ora è cosa seguirà. Netanyahu non vuole apparire debole di fronte al mondo e, sopratutto, di fronte agli elettori con l'imminente votazione in arrivo; in questo momento più della platea internazionale il capo del governo di Tel Aviv pare preoccuparsi della platea interna, tuttavia questo equilibrio alterato può portare il paese in una difficile situazione diplomatica. Nonostante il problema della sicurezza, che peraltro con questo progetto viene notevolmente messa in discussione, alla sensibilità dei cittadini israeliani non può sfuggire che una pessima politica estera, sopratutto per un paese atipico come Israele, è un biglietto da visita non propriamente positivo all'interno della cabina elettorale. Netanyahu pare non capire che il voto favorevole alla Palestina, non inficia il rapporto che gli stati occidentali intendono mantenere con Israele, ed anzichè provare a capire le ragioni di questa scelta, opta per una risposta dura aldilà di ogni ragionevolezza. Ma la natura dello stato israeliano non può prescindere dal rapporto con gli stati occidentali ed europei in particolare; se questi hanno una visione differente da quella del capo del governo di Tel Aviv e, magari, forse, pensano, che l'ingresso della Palestina alle Nazioni Unite, possa essere un elemento che potrebbe favorire il processo di pace, Israele ha, prima di tutto, il dovere di rispettare tale scelta, e poi di cercare di comprenderne le ragioni, anzichè attaccare a testa bassa. Uno stato israeliano senza gli ambasciatori dei principali paesi europei, sembrerà una nazione decapitata dei rapporti più funzionali alla sua stessa sopravvivenza, dove il passo immediatemente successivo potrebbe essere quello delle sanzioni. A quel punto Tel Aviv potrebbe andare sullo stesso piano di Teheran, la capitale di uno stato pericoloso per la pace del mondo.

Tra Russia e Turchia un vertice per la Siria

Sul vertice tra la Russia e la Turchia si fonda ancora qualche labile speranza di trovare una qualche soluzione per la crisi siriana. I due paesi sono su fronti opposti, rispetto ai contendenti: la Turchia appoggia le forze ribelli ed è stata più volte vicina ad intraprendere azioni militari contro Damasco a seguito dei bombardamenti, effettuati per errore secondo le forze di Assad, di cui è stato fatto oggetto il suo territorio. La Russia è l'unico alleato occidentale che resta legato alla Siria, una alleanza fondamentale perchè dispone del diritto di voto all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che gli permette di bloccare qualsiasi iniziativa presa in nome delle Nazioni Unite. L'interesse russo è dato dalla concessione siriana alla marina ex sovietica dell'uso dell'unica base navale di cui la flotta di Mosca dispone nel Mediterraneo, concessione difficilmente ripetibile con un nuovo governo al posto di quello di Assad. Ma tra Ankara e Mosca vi sono state anche recentemente frizioni diplomatiche di non poco conto in ragione dell'intercettazione, da parte della forza aerea militare turca, di un aereo siriano partito dal territorio russo, sospettato di trasportare materiale militare di provenienza proprio russa e destinato a rinforzare le truppe leali al dittatore Assad. Malgrado la smentita del Cremlino, che asseriva che il materiale in questione fosse costituito da apparecchiature radar non vietate dalle convenzioni internazionali in vigore, la tensione tra i due paesi è aumentata. Proprio questo stato di precarietà nelle relazioni tra i due paesi, paradossalmente, se sostenuto da una reciproca volontà di miglioramento può costituire una base di partenza per un conseguente sbocco positivo della guerra civile siriana. D'altro canto pare ormai assodato che lo stallo della situazione non possa risolversi attraverso la contesa militare a favore di uno dei due contendenti; con la possibilità di intervento esterno praticamente inesistente i ribelli non hanno la forza sufficiente per sconfiggere le forze armate ufficiali, che, tuttavia, stanno patendo il logoramento del conflitto e la sempre maggiore distanza dalla popolazione, pagata con le ripetute diserzioni. Il fatto, quindi, che due potenze così distanti, accettino di incontrarsi può essere letto come argomento incoraggiante, almeno come partenza per un maggiore coinvolgimento di altri attori, indispensabili ad entrare in scena per la soluzione diplomatica, che sebbene appaia tutt'altro che rapida, rappresenta al momento l'unica via di uscita. Uno dei timori russi è che la Turchia riesca a coinvolgere l'Alleanza Atlantica nella vicenda siriana, sbilanciando l'equilibrio precario tra le fazioni in lotta, creatosi con le armi. Gli argomenti di Mosca sono il possibile allargamento del conflitto in una escalation che potrebbe coinvolgere tutta la regione del medio oriente, già in pericoloso subbuglio, sia per la questione libanese, che per quella palestinese, con Israele sempre in stato di perenne allarme. In effetti tale pericolo è una possibilità concreta, tenendo conto anche dell'atteggiamento iraniano, sempre provocatorio e pronto a sfruttare ogni minima occasione per avvantaggiarsi delle situazioni contingenti. Ma saranno anche altre le questioni sul tavolo: il problema della striscia di Gaza, che può essere inquadrato in una visione più ampia del problema mediorientale, di cui la Siria costituisce comunque l'argomento centrale, ed anche le questioni relative al necessario sviluppo della cooperazione internazionale, fattore sempre più determinante a cui ricorrere per la risoluzione delle crisi, da quelle regionali a quelle su scala più ampia. Nonostante le divergenze politiche i due stati hanno comunque mantenuto una intensa e fitta rete di rapporti commerciali, che le divergenze internazionali non hanno intaccato: si tratta della cooperazione nei settori dell'energia e del commercio, che ha permesso di di tenere sempre vicini i governi dei due paesi, che ora dovrebbero sviluppare nuovi accordi nei settori della finanza e del credito bancario.

giovedì 29 novembre 2012

Il cambiamento egiziano, pericoloso precedente nelle primavere arabe

La successione temporale, tra l'importante ruolo di mediazione giocato nel conflitto tra Hamas e lo stato di Israele, ed il cambiamento di atteggiamento verso le regole democratiche, assunto dal presidente egiziano Mursi, non sembra affatto casuale. Il sospetto è che la massima carica del paese delle Piramidi, abbia sfruttato un momento di grande favore da parte dell'opinione pubblica internazionale, per mettere in atto un cambiamento che non poteva non essere stato pensato precedentemente, ma che la crisi della striscia di Gaza ha soltanto accelerato nella sua realizzazione. D'altra parte la decisione di emanare il decreto tanto contestato, che rende le decisioni di Mursi inappellabili, non pare trovare motivazione alcuna, se non quella di interrompere lo sviluppo democratico iniziato con la primavera araba e culminato con le elezioni, che hanno proclamato proprio Mursi alla carica presidenziale. Quella che manca è una causa oggettiva e reale che abbia determinato la promulgazione di una legge di tale tenore, se non il compimento di un disegno tendente a riportare il paese, sostanzialmente ad uno stato di regime. Il significato della disposizione regala alla carica di presidente egiziano, poteri addirittura superiori a quelli detenuti dal deposto Mubarak ed il carattere di temporaneità, addotto da Mursi come una delle scuse usate per contrastare le proteste, non giustifica l'instaurazione di disposizioni così liberticide. Neppure la volontà proclamata di arrivare ad un dialogo nazionale tra tutte le forze politiche per giungere ad una intesa nazionale sulla Costituzione, può rappresentare un valido argomento a sostegno della via scelta, che imbocca una strada del tutto opposta a quella democratica. Il risultato è ora quello di un paese spaccato in due, con il funzionamento della giustizia paralizzato dallo sciopero della magistratura, a cui Mursi ha cercato di porre rimedio sostituendo il più alto funzionario in carica, con un uomo di sua fiducia. Così piazza Tahrir è tornata a riempirsi di dimostranti, sostanzialmente contrari alla fratellanza musulmana, il partito al governo, di cui Mursi è espressione. Lo svolgimento della vicenda, ben lontana da una conclusione, porta ad amare riflessioni sui reali sentimenti, verso la democrazia, dei partiti confessionali, come purtroppo temuto da più parti. La mancata affermazione delle formazioni laiche, rischia, che i peggiori timori, circa la reale propensione ad un sereno dibattito sulle regole della vita dello stato, da parte dei partiti di orientamento musulmano si avverino con tragica puntualità. La lotta che si sta combattendo per l'elaborazione della legge fondamentale del paese ha preso una piega dove i musulmani hanno gettato la maschera e non intendono tenere conto delle istanze delle minoranze (principalmente i laici ed i cristiani), portando avanti un progetto quasi teocratico palesemente in contrasto con il rispetto di tutte le parti in causa. Nei prossimi giorni, proprio Piazza Tahrir, luogo simbolo della lotta contro il dispotismo, sarà teatro di una manifestazione organizzata dai Fratelli Musulmani a sostegno del Presidente Mursi, sarà quello il momento cardine per capire la reale direzione che la parte al potere vorrà prendere. L'impressione è di essere di fronte ad un progetto di instaurazione della legge islamica in un paese tutt'altro che in accordo su questa via. La realtà sembra essere quella di una nazione che si avvia dal dispotismo laico di Mubarak ad un dispotismo confessionale, che, ai fini della democrazia, non muta la sostanza della pressione oppressiva sulla popolazione. Se è vero che la salita al potere dei partiti confessionali si è svolta in maniera democratica, lo svolgimento della vicenda pare attestarsi su di un esercizio di questo potere contraddistinto dall'abuso e dalla forzatura. L'atteggiamento di Mursi rivela però, la chiara paura di una affermazione di valori che possano mettere in discussione l'orientamento verso i precetti islamici tradotti da regole religiose in disposizioni civili. Questo aspetto è molto importante, perchè Mursi ha sempre professato una elaborazione e la conseguente applicazione delle leggi, slegata dagli aspetti confessionali, assicurando più volte, che la salita al potere di una formazione religiosa non era in contrasto con i principi democratici universali. Ciò non sta però ora avvenendo, non è chiaro se Mursi agisca di propria volontà compiendo un personale disegno o, più probabilmente, è in accordo con quella parte di mondo islamico, di cui è esponente, portatore di una visione ristretta alla dimensione confessionale della vita politica e sociale del paese. In ogni caso il tradimento è evidente, sia di fronte alla totalità della nazione, che attendeva un miglioramento sostanziale rispetto alla precedente condizione, sia di fronte al panorama internazionale, che pensava alla nazione egiziana come esempio per altri paesi, proprio per l'importanza storica del paese. Difficile non prevedere che le relazioni con l'occidente potranno subire un irrigidimento tutt'altro che positivo, sopratutto, pensando al ruolo egiziano in medio oriente, ma è questa, al momento l'unica speranza dei dimostranti contro il presidente egiziano: l'azione di convincimento delle cancellerie occidentali alla ripresa del percorso democratico così maldestramente abbandonato.

martedì 27 novembre 2012

L'incremento demografico delle zone povere sarà sempre più pericoloso gli equilibri mondiali

Il rapporto diffuso dall'UNICEF in occasione della giornata mondiale dell'infanzia, presenta dati preoccupanti circa l'incremento demografico generale, su quello del continente africano e su quello dell'infanzia nelle zone povere. Le previsioni dicono che nel 2025 le nascite saranno concentrate, per un terzo del totale, in Africa, dove vi sarà un dato analogo relativamente alle persone con meno di diciotto anni. Questi valori presentano un brusco cambiamento nella serie storica dei dati statistici, che contavano appena un bambino su dieci nato in Africa, su quelli nati nel mondo nel 1950. All'interno del dato di previsione, che evidenzia in maniera sostanziale i cambiamenti e le tendenze demografiche future, è compreso il fatto che i decessi dei bambini sotto i cinque anni saranno concentrati nell’Africa subsahariana. Il totale della popolazione, nel 2025, avrà un incremento di un miliardo di persone, passando dall'attuale totale di sette miliardi ad otto miliardi di abitanti, dove un miliardo sarà composto da bambini, di cui il 90% collocato nelle regioni meno sviluppate. La scomposizione dei nati da ora al 2025, valutati in due miliardi di individui, avrà la maggiore concentrazione, circa un quarto, nei 49 paesi classificati come sottosviluppati, mentre 860 milioni di persone nasceranno in nazioni già molto popolose, ma con buone prospettive di crescita come: Cina, India, Indonesia, Pakistan e Nigeria. Proprio la Nigeria dovrebbe registrare l'aumento più consistente, annoverando 31 milioni di persone sotto i 18 anni, con, però, il dato previsionale di un decesso di una persona su otto in questa fascia di età. Da qui al 2025 mancano ancora poco più di dodici anni, su questa previsione, che proviene da un ente altamente attendibile, si può ancora incidere, lavorando per cambiare dati che rischiano fortemente di compromettere equilibri mondiali molto labili. Un incremento così forte in stati poverissimi, si può contrastare con politiche demografiche, che siano tese alla riduzione della natalità, associate ad investimenti che permettano una sussistenza autonoma di partenza, che debba poi evolversi in economie di tipo più maturo. L'alternativa è fornire uomini, come merci, al mercato dell'emigrazione illegale, destinata ad assumere proporzioni di esodo biblico, di cui si sono già avuti esempi sostanziali con le recenti carestie, avvenute nella regione del Corno d'Africa. Strettamente connesso con questo fenomeno vi sarà l'aumento dell'influenza dell'estremismo islamico, che avrà facile terreno di coltura, in una situazione esplosiva, dove sarà facile addebitare, come in parte è vero, la mancanza di cibo ai paesi occidentali. Non esistono quindi, soltanto ragioni umanitarie, che dovrebbero comunque essere quelle più rilevanti, per cercare di cambiare queste previsioni, sono presenti anche ragioni di chiara opportunità politica ed economica, che richiedono una pronta risposta sia in sede sovranazionale che presso i singoli stati più ricchi. Le pesanti carestie avvenute recentemente non hanno saputo fornire risposte che andassero aldilà della pura emergenza: forniture di generi alimentari in grado di mitigare temporaneamente il bisogno immediato di cibo. Non vi è stato, viceversa, o vi è stato in maniera non incisiva perchè limitata ad alcuni progetti pilota, una azione organica di lungo periodo capace di dare il via alla soluzione definitiva del problema alimentare nelle zone più sottosviluppate. Non che questa operazione sia facile, ci si muove in una zona che non ha ricchezze naturali tali da richiamare investitori in grado di contribuire alla cronica mancanza di infrastrutture, inoltre la sicurezza è un aspetto, purtroppo molto aleatorio, per la presenza di bande criminali e gruppi estremisti, che sono in grado di ostacolare, spesso con la scusa della religione, l'intervento delle associazioni umanitarie. Occorre quindi una presenza militare capace di pacificare le zone di intervento, come atto preventivo di una eventuale azione di intervento infrastrutturale. La necessità di costruire canali di irrigazione e strade è il primo passo da compiere per potere aspirare ad una autosufficienza economica, che possa scongiurare, almeno in parte, le fosche previsioni del rapporto UNICEF. Pur in tempi di crisi economica così grave per i paesi ricchi, i loro governi devono trovare le risorse da investire affinchè la mortalità infantile, ed in generale per fame sia combattuta, nel contempo le istituzioni sovranazionali come l'ONU devono aumentare il loro impegno al di fuori dell'emergenza, proprio per evitare ulteriori emergenze, altrimenti la polarizzazione nord-sud del pianeta è destinata ad aggravarsi con risultati allarmanti sia per la geopolitica, che per la sicurezza e per l'economia.

lunedì 26 novembre 2012

USA: Partito Repubblicano le ragioni della sconfitta e la necessità del cambio di atteggiamento

Negli USA, il dopo elezioni ha portato nel Partito Repubblicano un momento di forte contrasto, dettato dal pessimo risultato elettorale, che oltre a non raggiungere la vittoria nella corsa per la presidenza, ha anche subito un calo di seggi al Senato. La situazione attuale è quella di un partito spaccato in due, con, da una parte, il vecchio gruppo dirigente ed i suoi seguaci e, dall'altra gli esponenti del Tea Party, che rappresentano la nuova tendenza all'interno del movimento conservatore statunitense. Pur avendo diversi punti in comune, le due parti sono, nel contempo, molto distanti sulla concezione intrinseca con cui praticare l'azione politica. Il gruppo dirigente è composto da personale più navigato ed esperto, che, pur restando nei binari del conservatorismo, agisce in modo più pragmatico per il raggiungimento dell'obiettivo. Tuttavia questa caratteristica, nelle ultime elezioni, è stata frustrata da un candidato inadatto, frutto di una scelta basata su troppi compromessi, che ha puntato su di una persona spesso in contraddizione anche con se stessa. I continui errori, compiuti a ripetizione, hanno vanificato le possibilità di vittoria esistenti, fondate sulla delusione dell'azione in campo economico di Obama. L'avere snobbato il voto femminile e quello delle minoranze etniche ha denunciato i limiti di una campagna impostata sulla base elettorale certa, senza cercare il consenso in altre aree attraverso l'elaborazione di programmi, che pur restando nel solco conservatore, sapessero richiamare anche un tipo di elettorato nuovo, oramai necessario per arrivare alla vittoria. Non pare però possibile che la scelta di Romney sia stata presa con tanta leggerezza, ben sapendo i limiti del candidato a cui si affidava la competizione. Quello che emerge è un partito ingessato e privo di linfa vitale e sopratutto arroccato su posizioni ormai troppo lontane dalla base. Del resto è questa, sostanzialmente, l'accusa che proviene dal Tea Party: un allontanamento dalla base, incapace di essere coinvolta anche a livello emotivo, dal programma del candidato presidente. Se il Tea Party ha indubbiamente ragione, vi è però da dire, che la parte direttiva del partito accusa il movimento di avere preso una strada troppo di destra, spesso coincidente soltanto con il comune sentire dell'America più profonda, legata alle questioni religiose e troppo lontano dagli effettivi problemi che uno stato multietnico come gli USA deve quotidianamente affrontare. Ma se questo è vero occorre dire che Romney non ha certo incarnato i valori di una destra moderna, capace di confrontarsi con elasticità alle sfide attuali; semmai la percezione che il candidato repubblicano ha trasmesso è stata di essere troppo elitaria, il che non può certo piacere ai seguaci del Tea Party. L'errore di tutto il movimento è stato quindi di scendere troppo a compromessi con due visioni che erano quasi opposte e non sapere trovare una sintesi capace di produrre un candidato che sapesse ridurre le distanze anzichè aumentarle. La lezione non è da poco, senza sapere compattare fino ad unire queste due anime del partito, i repubblicani hanno poche speranze di incidere nell'immediato sulla politica delgi Stati Uniti. Il futuro perà può dare già delle opportunità per operare dei cambiamenti strategici in attesa di tempi migliori. Nello scorso mandato l'ostruzionismo praticato dai repubblicani in sede istituzionale è stato, spesso, la causa di veri e propri blocchi all'attività dell'apparato statale, una strategia controproducente, che non è irragionevole individuare come una delle cause della sconfitta elettorale. Se non vi sarà un cambio di rotta sarà difficile poi presentarsi come paladini degli interessi nazionali, viceversa un atteggiamento più duttile, che possa dimostrare la partecipazione a scelte che possano favorire azioni tese a favorire le riforme, potrà presentare il Partito repubblicano come una forza più responsabile, non ferma ad inutili posizioni di principio. I prossimi appuntamenti riguarderanno la riforma fiscale e la legge sull'immigrazione: si tratta di due prove cruciali, non solo per la maggioranza, ma, in un'ottica di lungo periodo, ancora di più per la minoranza, che è chiamata ad esercitare un ruolo più attivo del semplice rifiuto. Una partecipazione attiva alle decisioni, impostata su di un dialogo differente potrà generare una nuova immagine del partito, maggiormente disposta a collaborare con un governo di segno opposto, portando alla discussione la propria esperienza e le proprie esigenze, esercitando un ruolo costruttivo anche dalla parte dell'opposizione.