Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 18 dicembre 2012
L'offensiva diplomatica della Palestina
Il recente trionfo diplomatico dei palestinesi all'ONU, deve essere valorizzato al massimo attraverso una nuova offensiva diplomatica, che costringa Israele a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. Sarebbe questo l'intendimento dei dirigenti palestinesi per combattere lo stato di crescente nervosismo presente in Cisgiordania come nella striscia di Gaza, portato a livelli pericolosi dalle ritorsioni israeliane per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, con dignità di stato indipendente. Il tentativo di edificare nella zona E1, con il chiaro intento di interrompere la continuità territoriale palestinese, elaborato in dispregio del diritto internazionale e poi bloccato sotto lo sdegno delle cancellerie occidentali unito alla disposizione di confiscare il denaro da destinare all'Autorità Palestinese proveniente dalle tasse riscosse da Tel Aviv, sta creando concretamente il pericolo che si verifichi una terza intifada. Se, in teoria, entrambe le parti dovrebbero avere interesse che ciò non si verifichi, in realtà per Israele potrebbe tradursi in un'occasione per mostrare ancora di più i muscoli, come la politica dell'esecutivo in carica ha fino ad ora fatto, costruendo una linea politica, nei confronti dei palestinesi, niente affatto basata sul dialogo. La risposta palestinese, viceversa, vuole vertere su armi di tipo diplomatico, che si basano, innanzitutto sulla simpatia registrata nella sede delle Nazioni Unite, proveniente da diverse nazioni del pianeta. In effetti non si tratta di un sentimento fine a se stesso, ma la consapevolezza, ormai diffusa a livello mondiale, della necessità di mettere fine all'annosa questione della creazione dello stato palestinese, che costituisce sempre una potenziale minaccia, anche solo come pretesto, alla stabilità regionale e con ampi riflessi sul vasto panorama delle relazioni internazionali. La proposta palestinese verso Israele, che dovrebbe essere presentata nel prossimo gennaio, si articolerebbe sulla ripresa delle trattative dal punto in cui furono interrotte nel 2008, alla condizioni dello stop agli insediamenti di Tel Aviv nei territori arabi ed il rilascio dei prigionieri della Palestina. La durata massima delle trattative dovrebbe essere fissata in sei mesi, durante i quali si cercherà di raggiungere un accordo, che preveda, finalmente, la creazione dello stato di Palestina e la relativa definizione certa dei confini. Se questa proposta dovesse essere formalizzata Israele non avrebbe scusanti per sottrarsi alle trattative, che sono viste, anche se non in forma ufficiale, con favore da Obama sempre impaziente di chiudere la partita. Va detto, ancora, che su Israele grava la minaccia, molto temuta a Tel Aviv, di essere citato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra, se la richiesta palestinese di adesione all'organismo internazionale verrà accettata. Non è però detto che questa arma, letteralmente puntata su Israele, venga usata, sembra, piuttosto, una opzione di riserva, nel caso il governo israeliano non accetti di sedersi al tavolo delle trattative. Il leader dell'ANP ha, intanto,intrapreso un tour diplomatico, che toccherà i principali paesi europei per perorare la causa della creazione dello stato palestinese.
lunedì 17 dicembre 2012
L'Italia alla prese con l'incertezza elettorale
Il futuro dell'Italia, probabilmente a due mesi dalle elezioni, si fa sempre più incerto. Se fino a poco tempo fa la vittoria del principale partito di opposizione al governo Berlusconi, il Partito Democratico, era fortemente probabile, la ridiscesa in campo del presidente del Consiglio che ha preceduto Mario Monti, ha avuto l'effetto di scompigliare le carte. Berlusconi in un estremo tentativo di tenere uniti quelli che lui stesso definisce moderati, ha offerto al dimissionario premier in carica, la leadership dello schieramento di centro destra, ma in maniera alquanto confusa e maldestra. In realtà ciò è stato solo in apparenza, Berlusconi, in base ad un preciso piano politico, ha fatto a Monti una offerta irricevibile perchè partita da un settore politico che lo aveva appena sfiduciato, inserendo nell'ipotetica coalizione anche la Lega Nord, partito che ha fortemente fatto opposizione alla politica rigorista del governo in carica. Ciò ha provocato la compattazione delle formazioni che stanno al centro ed invece, si riconoscono nell'azione, sopratutto economica, del rettore dell'Università Bocconi: Mario Monti. Forti del consenso espresso in campo internazionale, sopratutto europeo e della benedizione della Chiesa Cattolica, da sempre molto influente nella penisola, i partiti di centro, sia di ispirazione cristiana, che le nuove formazioni che si richiamano ad una politica liberista inquadrata in un rigore europeo, cioè fuori dalla concezione di Berlusconi favorevole ad un liberalismo più propenso ad una spesa pubblica finanziata dal debito, hanno fatto pressing su Mario Monti per coinvolgerlo fino a farlo diventare il leader di un movimento che auspica la continuazione dell'esperienza del governo dei tecnici. Il Presidente del Consiglio, che fino ad un mese prima dichiarava di non volere prolungare l'esperienza alla guida del paese, pare ora concretamente tentato di prolungare la sua carica. Questa mossa pare dettata dalla consapevolezza che una eventuale vittoria del Partito Democratico, che lo ha lealmente sostenuto anche contro il proprio elettorato, possa determinare una virata della politica del paese, in favore del ceto medio, quello che ha sostenuto fino ad ora il costo imposto dal governo in carica. Il Partito Democratico, una versione molto annacquata di qualunque forza definita di sinistra, è alleato con il movimento del Governatore della regione Puglia, Vendola, più propenso ad una politica che mira a rinforzare il welfare, incentivare politiche di redistribuzione e penalizzare gli aiuti alle banche, in sostanza una direzione contraria da quella intrapresa da Monti. Va detto che il Partito Democratico, secondo i sondaggi più recenti, il maggiore partito italiano, ha sempre considerato la fase del governo tecnico come transitoria ma necessaria per rimediare al malgoverno di Berlusconi; infatti per Monti prefigurava la massima carica super partes quale è quella del Presidente della Repubblica, che nel 2013 dovrà essere eletto per sostituire Napolitano, giunto alla scadenza del proprio mandato. Anche se per ora Monti non ha sciolto la riserva di presentarsi alla candidatura di Presidente del Consiglio, il solo fatto che questa eventualità possa verificarsi, ha generato all'interno del Partito Democratico parecchio nervosismo per due principali ragioni: la prima è che la candidatura di Monti, che ha un indice di gradimento molto alto per le politiche restrittive praticate, potrebbe erodere voti, la seconda è che, oltre ai voti, potrebbero andare a confluire verso le formazioni di centro, tutti quei componenti del partito che non si riconoscono in un'alleanza con la sinistra più radicale, ritrovando quell'affinità che avevano perso con il centro politico dalla morte della Democrazia Cristiana. A ciò si deve aggiungere che il principale partito del centro: l'Unione Cristiano Democratica, che ha avuto un rapporto privilegiato con il Partito Democratico durante l'esperienza del governo Monti e che pareva l'alleato più naturale per un futuro programma di governo, si è invece distaccata proprio in occasione dell'alleanza del Partito Democratico con Sinistra Ecologia e Libertà, che ritiene incompatibile con i suoi programmi. Berlusconi, che ha i sondaggi peggiori è riuscito così a dividere i suoi nemici politici in previsione della tornata elettorale, che sarà regolata dalla discussa legge in vigore, che dovrebbe dare una maggioranza certa alla camera ma non al senato e quindi bloccare la vita istituzionale del paese. Tuttavia nel centro destra, all'interno del Partito delle Libertà, la formazione fondata proprio da Berlusconi, che ha guidato il paese negli ultimi anni, vi sono divisioni profonde, acuite dal ritorno del leader, al quale sembrava destinato un ruolo di padre nobile, ma senza incarichi di primo piano. Molti, ma non tutti, consideravano finita l'esperienza di Berlusconi, per trovare una formazione più moderna e meno fondata sulla personalità del leader, che andasse a seguire le orme dei partiti di destra di Francia, Germani ed Inghilterra; una sostanziale rifondazione, insomma. Ma il grande potere finanziario di Berlusconi ha impedito questa evoluzione, se si eccettua pochi temerari, piuttosto, quello che sta accadendo è un fenomeno analogo al centro sinistra che consiste in una fuga verso il centro per dare sostegno, da destra, ad un nuovo esecutivo Monti. Il panorama politico italiano, quindi, torna ad essere segnato da incognite profonde che non ne favoriscono la stabilità; dalle urne infatti, come già detto, con questa legge elettorale ed una offerta politica così frammentata, a cui si deve aggiungere il pesante pronostico dell'astensionismo, non potrà uscire un paese facilmente governabile a meno di evoluzioni, per ora inaspettate e difficili da pronosticare.
La Cina guarda con preoccupazione al nuovo assetto politico del Giappone
Sale la preoccupazione di Pechino, dopo l'affermazione della destra giapponese nelle consultazioni elettorali del paese nipponico. Il problema più pressante riguarda i rapporti internazionali che potranno svilupparsi tra i due paesi per la questione delle isole contese: Senkaku, per Tokyo, Diaoyu, per Pechino. Sebbene il precedente leader giapponese avesse un atteggiamento che pareva più conciliante, i contrasti avevano già assunto dimensioni tali da produrre preoccupazione nel mondo diplomatico. La vittoria del Partito Liberal Democratico, con a capo Shinzo Abe, che sarà il futuro primo ministro del Giappone, rappresenta un ulteriore elemento di potenziale aggravamento della frizione diplomatica. Shinzo Abe è infatti, considerato un falco della politica internazionale ed un acceso nazionalista, che già in campagna elettorale ha affermato l'assoluta indisponibilità a qualsiasi negoziazione sul problema delle isole. La Cina, per contro, considera le isole parte integrante del territorio cinese, ma Pechino considerava favorevolmente l'eventualità di lavorare insieme al Giappone a rapporti più stabili, vi era, insomma, una apertura più conciliante verso una soluzione condivisa che non dispiacesse nessuno. La rigidità annunciata di quello che sarà il nuovo primo ministro, però, sicuramente invertirà la linea cinese, creando i presupposti di un muro contro muro, di cui risulta difficile fare una previsione. Questo confronto rischia, poi, di ripercuotersi anche negli altri casi di contesa presenti nel Mar Giallo meridionale, legati sia ad altre isole su cui esiste contenzioso, sia all'ampiezza delle acque territoriali. Se il problema tra Cina e Giappone poteva risolversi grazie ad una soluzione della controversia raggiunta in modo condiviso, poteva costituire un precedente importante anche per le altre situazioni che rappresentano casi fonte di contrasto, viceversa, come pare possa svilupparsi la questione, tutti i casi sul tappeto entrano in una incertezza pesante. L'unica speranza è che gli interessi economici tra i due stati possano essere il mezzo per attutirne i contrasti. Le grandi dimostrazioni avvenute recentemente in territorio cinese contro le attività economiche giapponesi, che hanno assunto anche toni particolarmente violenti, rappresentano soltanto un primo assaggio di quello che potrà succedere a livello internazionale. Risulta facile prevedere ed attendersi una escalation fatta di sanzioni economiche e sgarbi diplomatici nei due sensi, che potrebbe avere ripercussioni sul commercio mondiale; inoltre non appare inverosimile lo schieramento delle rispettive flotte militari nei pressi delle isole, con il concreto pericolo che un incidente dia il via a conseguenze ben più gravi. Già nella scorsa settimana il caso dell'aereo militare cinese che aveva sorvolato il piccolo arcipelago aveva causato la pronta reazione di Tokyo, con lo schieramento della sua forza aerea. Per ora siamo nella dimensione delle scaramucce e delle provocazioni, ma senza una intesa o, almeno, una volontà di collaborazione, che pare, al momento essere del tutto assente, la questione potrebbe andare a degenerare in maniera pericolosa. La regione quindi pare destinata a diventare concretamente uno dei punti più caldi del pianeta ed a ciò arriva, come conferma, la concreta preoccupazione di Washington, che già si vede, in un futuro molto prossimo, impegnata in prima persona a dovere mediare, se non gestire, una crisi che si annuncia di grande portata.
venerdì 14 dicembre 2012
Russia e USA inviano un mediatore a Damasco
Russia e Stati Uniti, dopo le sessioni di negoziato tenutesi a Dublino e Ginevra, hanno deciso di inviare il mediatore Lakhdar Brahimi a Damasco per concordare una possibile uscita di scena di Assad. La situazione militare, pur nella sua lentezza, sembra evolversi a sfavore del dittatore siriano ed i russi cominciano ad ammorbidire la propria posizione, fino ad ora caratterizzata dalla rigidità più assoluta. I timori di Mosca sono essenzialmente due: da una parte il paese russo non vuole passare, di fronte al panorama internazionale, come lo stato che ha difeso ad oltranza Assad, sul quale si addensano gravi sospetti di crimini, sia contro le forze dell'opposizione, che contro i civili, dall'altro lato vuole iniziare ad aprire, su di un piano nuovo, un rapporto con il governo che potrebbe crearsi con l'uscita di scena di Assad, per preservare i propri interessi in terra siriana e cioè, essenzialmente, la possibilità di mantenere l'unica base militare navale nel Mediterraneo, che sorge nel porto di Tartus. La nuova versione dell'atteggiamento di Mosca, potrebbe derivare, quindi, dalla necessità di presentarsi a futuri negoziati con gli USA, in grado di avere il maggiore potere contrattuale possibile; del resto il cambiamento russo sarebbe dovuto alla presa d'atto che Assad è sempre più isolato sul piano internazionale, ma, sopratutto, su quello interno, sopratutto dopo che i ribelli hanno conquistato l'aereoporto che serviva alle forze governative per ricevere i rifornimenti di armi. Lo scopo della missione di Lakhdar Brahimi, quindi, consisterebbe proprio nel tentativo di convincere Assad a lasciare il potere senza compromettere la propria situazione e non andare incontro ad una fine simile a quella toccata a Gheddafi. In proposito si stanno cercando anche paesi disposti ad ospitare il dittatore di Damasco, ed il più probabile pare, per ora, la Bielorussia, nazione dove l'influenza di Mosca è notevole. Per Assad sarebbe l'ultima occasione prima di una probabile offensiva finale, che i ribelli potrebbero lanciare a breve, nonostante l'artiglieria governativa sia ancora efficiente. Si tratterebbe però questione soltanto di tempo, tuttavia, prima di arrivare ad una soluzione definitiva, esiste il rischio concreto che la tragica contabilità delle vittime possa ulteriormente incrementarsi. Inoltre non è però assicurato che una volta che Assad sia uscito di scena si arrivi ad una pacificazione completa a causa delle profonde differenze presenti nei gruppi che compongono l'eterogenea formazione dei ribelli. A questo scopo sia russi, che americani, avrebbero compilato una lista di possibili funzionari in grado di comporre un governo di transizione, capace di assicurare al paese un passaggio di potere il meno traumatico possibile. Per gli Stati Uniti la collaborazione con Mosca è fondamentale per una rapida soluzione della crisi siriana, infatti, soltanto la Russia può esercitare l'adeguata pressione affinchè Assad lasci il potere; Washington è preoccupata per le ripercussioni possibili di un allargamento della crisi nella regione e pensa, sopratutto, ad Israele e all'Iran. La disponibilità russa è vista, quindi, come un fatto positivo, capace di accelerare la conclusione del conflitto, anche se poi, sarà inevitabile, Mosca presenterà il suo conto.
giovedì 13 dicembre 2012
Sempre più difficile i rapporti tra Cina e Giappone
L'intrusione di un aereo militare cinese, nello spazio aereo delle contese isole Senkaku / Diaoyu, alza la temperatura, peraltro già elevata, tra Giappone e Cina. Tokyo ha risposto con due passi formali, che sono consistiti nell'invio di aerei militari, in quello che ritiene proprio spazio aereo e con la protesta dell'ambasciatore giapponese a Pechino. Ad aggravare la situazione vi è la ricorrenza in cui è stata fatta l'incursione aerea: il settantacinquesimo anniversario del massacro di Nanchino, quando truppe dell'impero nipponico massacrarono migliaia di persone nella città cinese. Questa coincidenza è tutt'altro che casuale, Pechino sa bene come puntare sull'orgoglio del popolo cinese in una disputa che tende ad estremizzare una situazione già fortemente compromessa. Dietro la tattica cinese, pare esserci la volontà di provocare uno scontro che sollevi definitivamente la questione della sovranità delle isole, in una prospettiva più ampia, che mira alla colonizzazione completa attraverso le vertenze ingaggiate anche con gli altri paesi del Mare Cinese meridionale. Del resto rientra nei programmi della nuova dirigenza cinese affermare la propria potenza nella regione, sia dal punto di vista territoriale che politico, andando così a toccare i temi cruciali dello sfruttamento delle risorse e del dominio delle vie di comunicazione marittima. Non è un caso che si scelga la provocazione verso un avversario, il Giappone, indebolito da una crisi economica che è recentemente sfociata in recessione e dilaniato nel suo tessuto politico. D'altro canto Tokyo non si sottrae allo scontro, anzichè cercare una soluzione concordata e meno travagliata. Se i cinesi puntano sul fattore del nazionalismo, non da meno sono i giapponesi, che anzi ne fanno elemento trainante, anche come fattore mascherante del dissesto in atto nel proprio paese. La situazione è però ogni giorno più preoccupante, i casi di provocazione, da una parte e dall'altra, si susseguono senza sosta, attraverso incursioni navali ed aeree, con il contorno di discorsi più o meno ufficiali che richiamano a patrie violate, rendendo, di fatto, sempre più probabile che si verifichi l'eventualità di uno scontro. La preoccupazione del mondo intero e degli Stati Uniti, in particolare, non è servita granchè fino ad ora, e tutta una regione cruciale per l'economia del mondo intero vive una situazione di sempre maggiore precarietà nel proprio equilibrio geopolitico. Mentre si moltiplicano, quindi, le occasioni per il verificarsi di un incidente che potrebbe dare il via ad un confronto il cui sviluppo non è facilmente prevedibile, non si può che registrare l'assenza assordante delle Nazioni Unite, che senza assolvere al proprio ruolo, non esprimono una volontà di intervento pacificatorio.
Siria: gli USA riconoscono la coalizione contro Assad come leggitimo rappresentante del popolo siriano
Dopo Francia, Regno Unito, Turchia e Stati del Golfo Persico, anche gli USA hanno riconosciuto ufficialmente la coalizione di opposizione siriana, impegnata nei combattimenti contro Assad, come legittimo rappresentante del popolo siriano. Questo riconoscimento esclude dalla rappresentanza ufficiale Assad per quanto riguarda la Siria e lo pone in una grave condizione di isolamento diplomatico, che potrebbe essere il preludio ad azioni più concrete e dirette. Il riconoscimento americano è avvenuto con un distinguo particolare, ufficialmente, infatti, Washington ha affermato che, per il momento, non fornirà armi ai ribelli. Se questa è, però, la posizione ufficiale, occorre ricordare che l'amministrazione americana ha già intrapreso diverse collaborazioni con i ribelli, a livello differenziato, che hanno compreso la fornitura di apparati di telecomunicazioni, di assistenza medica e formazione militare. Difficile credere che all'interno di questa collaborazione non sia stata ricompresa anche qualche fornitura di armamenti, se non in maniera diretta, almeno attraverso gli alleati islamici del Golfo. Washington ha tenuto a rimarcare questa decisione di non fornire armi, per non incorrere a contrasti con la Russia, che resta il principale alleato di Assad, per interessi esclusivamente propri. La scelta di Obama, però non fornisce alibi, per una eventuale ripresa del dialogo che possa porre fine ad una guerra civile che ha già provocato più di quarantamila morti e che lascia profondi interrogativi sull'equilibrio della regione. Se le ragioni diplomatiche del rifiuto della fornitura di armi vanno verso la ricerca di una soluzione negoziata, la ragioni pratiche parlano della perplessità americana riguardo alla composizione eterogenea della forza che si oppone al regime di Damasco. In particolare la presenza dell'organizzazione al-Nosra, gruppo che è stato identificato come terroristico e testa di ponte di Al-Qaeda, può giustificare le paure statunitensi di una virata del paese siriano verso posizioni concordi con l'estremismo islamico; è proprio questo il maggiore timore di Washington: che possano ripetersi casi dove l'integralismo religioso, in nome di un concetto distorto della democrazia, possa instaurare nel nuovo governo del paese la legge coranica, elemento capace di bloccare del tutto i potenziali rapporti con una Siria rinnovata. La forte differenziazione, segnata da una grave mancanza di omogeneità, delle forze che compongono la costellazione che si oppone ad Assad è stata, fino ad ora, l'ostacolo principale al rovesciamento del regime, che ha spesso approfittato di queste profonde divisioni. L'importanza del riconoscimento di quella che è la più grande potenza mondiale, fornisce alla coalizione dei ribelli di accrescere la propria legittimità sul piano internazionale, anche in una ottica che possa aumentare la propria capacità negoziale ed il proprio peso politico in una trattativa al di fuori del contesto militare; è probabilmente questo che Washington intende favorire per porre fine allo stato di grande difficoltà di un paese allo stremo. Ma questa tattica morbida scelta da Obama, non gli ha permesso di evitare le critiche dei repubblicani che spingevano per un impegno più diretto nella soluzione del conflitto. Si tratta, però, di una soluzione difficilmente percorribile senza l'avallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un impegno diretto sotto la bandiera americana potrebbe generare tensioni ancora maggiori con l'Iran, che resta il maggiore alleato di Assad. Obama ha optato, almeno per il momento, per evitare questa soluzione sperando in una soluzione interna al paese, che è, però, obiettivamente difficile, dato lo stallo della situazione militare. La sensazione è che gli USA siano in attesa di un qualche sviluppo, che possa portare i contendenti ad una negoziazione perseguita senza il mezzo militare, a quel punto tutto il peso politico di Washington peserà sul piatto della bilancia dei ribelli.
martedì 11 dicembre 2012
Berlusconi spaventa l'Europa
La decisione di candidarsi nuovamente al ruolo di Presidente del Consiglio da parte di Silvio Berlusconi crea apprensione in una Unione Europea alle prese con la crisi economica. Le dimissioni di Mario Monti hanno avuto come immediata reazione la risposta negativa dei mercati, mettendo a rischio gli sforzi fatti dal paese italiano per il risanamento dei conti. Il riflesso che questa caduta ha avuto, si teme possa poi ripercuotersi anche all'intera Europa, dove l'Italia è pur sempre il terzo produttore dell'area euro. Scongiurando una caduta di Roma, che non è Atene ne Madrid, per il suo complesso tessuto industriale, Bruxelles contava di essersi messa al riparo da un possibile effetto domino, tale da mettere in crisi la tenuta dell'istituzione europea. La ricandidatura di Berlusconi rimette tutto in discussione, portando incertezza nei mercati. Ma se questo è l'effetto immediato, che i sostenitori di Berlusconi però ascrivono esclusivamente alle dimissioni di Monti, slegando le due vicende, quello ancora più temuto riguarda i temi che l'ex presidente del consiglio vorrà affrontare in campagna elettorale. Gli analisti, infatti, prevedono, una campagna elettorale fortemente anti europeista e populista, capace di puntare sugli scontenti del rigore e della moneta unica e su chi sostiene la contrarietà al predominio tedesco, cioè di chi accusa la Germania di essere la vera ispiratrice delle politiche del rigore economico che impediscono la crescita, traendone vantaggio. Si capisce che se tali temi avranno presa, per l'Europa si annuncia un periodo di forti divisioni, anche in ragione dell'emulazione da parte dei movimenti, già fortemente presenti, contro le azioni economiche caldeggiate dalla UE. Occorre specificare che, sul fronte dell'economia, i risultati, nel caso italiano, sono arrivati soltanto a livello macro economico, mettendo in difficoltà le famiglie e le imprese. Sopratutto le prime hanno pagato un conto salato per responsabilità non proprie, vedendosi alzare il livello di tassazione e diminuire quello dei servizi. E' essenzialmente questa la platea a cui si rivolgerà Berlusconi, cercando di sfondare con argomenti anche propriamente di sinistra, promettendo l'abbassamento delle tasse e l'uso di leve finanziarie per produrre posti di lavoro. In questo momento i sondaggi non danno speranza al partito di Berlusconi, al minimo storico del gradimento, va detto, però, che questi sondaggi furono elaborati quando ancora si considerava che lo stesso Berlusconi non prendesse parte alla competizione elettorale, la sua ridiscesa in campo potrebbe sovvertire i pronostici in un elettorato complessivo che conta un astensionismo pari al venti per cento e che potrebbe sentire il richiamo delle urne in presenza di proposte convincenti e differenti rispetto al passato. Tuttavia la mossa delle dimissioni di Monti intralcia i piani di Berlusconi, che contava di avere tempo fino ad Aprile per riorganizzare un partito allo sbando. Ora, verosimilmente, si andrà alle elezioni a Febbraio, con in più l'incognita della partecipazione dello stesso Monti, chiamato alla contesa a gran voce dai movimenti del centro politico del paese. Se questa ipotesi si verificasse lo scenario dei concorrenti si articolerebbe essenzialmente su quattro soggetti: oltre ai già citati Berlusconi e Monti, in rappresentanza della destra e del centro, ci sarebbero anche Bersani, leader della sinistra italiana, ed un candidato ancora da individuare in rappresentanza del Movimento Cinque Stelle, partito anti sistema all'esordio in una competizione politica, pur avendo già partecipato con discreto successo ad elezioni regionali ed amministrative. L'Europa in quanto istituzione, preferirebbe una affermazione di Monti o, almeno, di Bersani, ritenuti continuatori della politica del rigore, sebbene con sfumature differenti. Ritrovarsi a trattare con Berlusconi, pubblicamente dileggiato dopo la sua uscita di scena dello scorso anno, potrebbe presentare difficoltà non facilmente sormontabili, portando addirittura in blocco le relazioni tra gli stati. L'Italia, insomma, dopo la parentesi generata dalla brutta copia delle larghe intese tedesca, ritorna alla sua parte di variabile del sistema e mai come ora si pone in un futuro molto incerto: sarà difficile, infatti, che l'Europa possa sopportarla nel caso di una deviazione dal percorso intrapreso, la UE non può più supportare i costi di bilanci fuori controllo e pratiche indebite di ricorso a prestiti in serie, sopratutto senza risultati.
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