Politica Internazionale

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lunedì 4 marzo 2013

La Cina in difficoltà nelle relazioni con la Corea del Nord

Pechino è sempre più in difficoltà per l'atteggiamento di Pyongyang, che non ha tenuto conto degli avvertimenti cinesi sullo scoppio dell'ordigno nucleare. Per la Cina, praticamente l'unico alleato della Corea del Nord, è venuto il tempo di compiere un esame approfondito che analizzi i pro ed i contro dell'alleanza. Pechino ha sempre ritenuto strategica l'alleanza con la Corea del Nord, per evitare la riunificazione della Corea in un unico stato, che diventerebbe sicuramente un alleato americano direttamente posto sul confine nazionale. L'impressione è che a Pyongyang, consci di questo timore, sfruttino la situazione alzando oltremodo la posta per ottenere dalla Cina maggiori aiuti. Tuttavia l'irritazione di Pechino, che ha aderito alle sanzioni ONU, non deriva tanto dallo sgarbo subito, sopratutto sul piano internazionale, quanto dal timore, che l'esperimento nordcoreano, possa provocare una rincorsa agli armamenti nucleari, per reazione, dei paesi vicini, come Corea del Sud e Giappone. La paura non è del tutto ingiustificata, se Washington non riuscisse a tenere a bada i suoi alleati, la regione diventerebbe una polveriera nucleare, costantemente sull'orlo di un conflitto atomico. Questo scenario sarebbe il peggiore per Pechino, che non cerca altro che la massima stabilità possibile per favorire i suoi traffici economici, punto cruciale della politica cinese. Per il futuro presidente Xi Jinping, che sta per assumere la carica a breve, la questione nordcoreana si presenta subito come un urgente problema da risolvere. La linea cinese, peraltro, è già chiara: all'ambasciatore nordcoreano, convocato d'urgenza a Pechino dopo il test nucleare, è stato espresso il più profondo disappunto e l'invito al ritorno al dialogo. Questa presa di posizione ha fatto pensare, a parte degli analisti, ad una maggiore durezza nei provvedimenti contro Pyongyang, sebbene sganciata dalle proposte americane, ma inquadrata in una logica unilaterale da concretizzarsi in un robusto taglio degli aiuti. Ma questa possibilità non è condivisa da tutti gli esperti: la paura di una reazione imprevista e sconsiderata di un regime messo con le spalle al muro, potrebbe provocare reazioni di segno opposto a quelle volute, mettendo da subito in crisi il modello di stabilità regionale costruito da Pechino. Pyongyang non ha solo lo spauracchio nucleare o le provocazioni militari verso la Corea del Sud, capaci di attirare subito le forze armate USA nella zona, come frecce nel proprio arco, ma possiede anche l'arma dei propri cittadini, costantemente sull'orlo dello stremo per la carenza alimentare, da usare come profughi da indirizzare oltre i confini con la Cina. In ogni caso, rispetto al passato, la Cina ha chiaramente minore influenza sulla Corea del Nord, ed è proprio questo fatto la novità più rilevante portata dall'insediamento del nuovo capo dello stato di Pyongyang, Kim Jong-un, che persegue una politica decisamente ardita nei confronti di Pechino, sfiorando in modo calcolato l'incidente diplomatico, per ottenere di più dalla Repubblica Popolare Cinese. Queste pressioni non sono bene accolte dall'opinione pubblica cinese, che a differenza del paludato mondo delle istituzioni, caratterizzato da un silenzio di prammatica, sono espresse dai quotidiani del partito ed, in generale, dalla stampa ufficiale cinese. Quello che viene evidenziato è che il rapporto privilegiato tra i due stati può continuare soltanto se entrambe le parti lo vogliono, ed in questo momento l'atteggiamento della Corea del Nord non sembra andare in quella direzione. Si tratta di posizioni praticamente ufficiali che manifestano un disagio profondo per una situazione vissuta come se la Cina fosse ostaggio della Corea del Nord, sia dal punto di vista politico che della sicurezza nazionale. A ciò vanno aggiunti lo stato d'animo di Washington, che teme lo sviluppo di un mercato pericoloso del materiale e della tecnologia atomica nel mondo, proprio da parte di Pyongyang e l'aumento delle posizioni nel parlamento sudcoreano in favore dell'abbandono del trattato di no proliferazione nucleare per avviare un programma militare atomico che consenta il contrasto della potenza atomica nordcoreana. Questo è il quadro della situazione al momento, l'effettivo insediamento del nuovo presidente cinese dirà quali saranno i prossimi sviluppi.

giovedì 28 febbraio 2013

Italia: il risultato elettorale indica all'Europa la fine della politica del rigore

Al non equivocabile segnale proveniente dalle elezioni italiane, si è aggiunta la relazione dei servizi segreti di Roma, che intravedono nell'attuale situazione economica, forti potenziali pericoli derivanti da una instabilità sociale sempre più evidente. Sono principalmente questi gli effetti della recessione imposta dal metodo tedesco: una austerità ed un rigore portato ad un grado di estremizzazione ormai insostenibile, sia dalle famiglie, che dalle imprese. Mentre in Europa si faceva finta di niente, grazie all'opera del governo tecnico italiano, che forniva risultati macro economici positivi, grazie alla compressione dei valori micro economici relativi alle parti più deboli del tessuto sociale italiano mentre la condizione della Grecia continuava ad essere snobbata in ragione della sua minore importanza, Bruxelles continuava a subire il dettato tedesco sull'economia continentale. Anche il malessere spagnolo e perfino quello francese venivano sottovalutati ampiamente in ragione dei buoni risultati del socio forte dell'Unione Europea. Tuttavia, se le elezioni di Parigi hanno portato una composizione di governo non molto gradita, ma comunque in grado di assicurare una stabilità adeguata, quello uscito dalle urne italiane è un risultato che rischia di contagiare tutto il continente, sia per la stabilità dei mercati, che per quella sociale. Nella Commissione europea inizia così ad incrinarsi la convinzione che l'impostazione così fortemente incentrata sul rigore abbia bisogno di qualche correttivo. Parigi, che con Hollande al governo non è più in sintonia con la Merkel come con Sarkozy presidente della repubblica, intende chiedere alla UE l'elaborazione di un nuovo modello economico, fondato su minor rigore e maggiore crescita, ma deve scontrarsi con una Germania, che, per la verità, pare sempre più isolata, convinta che l'area euro non è affatto uscita dall'emergenza. Questo è vero però solo in parte, nel senso che l'emergenza della moneta unica pare un ottimo pretesto da asservire alla commercializzazione dei prodotti tedeschi e non al reale interesse dell'Europa nel suo complesso, che, anzi, soffre proprio la stretta creditizia per sviluppare le economie degli altri stati membri, esclusa la Germania. La sensazione dominante nel vecchio continente è che dopo l'unificazione dei due stati tedeschi a seguito della caduta del muro di Berlino, pagata dall'unione europea, ora la Germania scarichi sugli altri stati, da un punto di forza particolare, i costi della propria inefficienza produttiva. La figura peggiore è però quella di Bruxelles, che risulta appiattita in maniera quasi servile alla politica tedesca ed ora, di fronte all'evidenza del fallimento della politica improntata all'eccessivo rigore, non sappia come cambiare rotta. Le previsioni economiche continuano ad evidenziare per la zona euro una piena recessione, chiaro segnale che la politica attuata fino ad ora è stata errata e può essere corretta soltanto con robusti provvedimenti destinati a stimolare la crescita, soluzioni non gradite a Berlino. Sulla sincerità europeista di Angela Merkel i dubbi sono ora più di uno: schiacciata dall'urgenza della prossima consultazione elettorale e dal soddisfare un tessuto produttivo che ha il suo maggiore sviluppo proprio in Europa e che quindi non è interessato a vedere crescere i concorrenti all'interno del suo mercato di riferimento, la cancelliera si arrocca sulle solite posizioni di estrema austerità che impongono soltanto sacrifici ai cittadini degli altri stati, senza però dare in cambio nulla, questo atteggiamento tedesco è stato individuato come un freno ad un maggiore contributo che Berlino potrebbe e dovrebbe fornire alla causa europea. La speranza di molti analisti era che arrivasse al potere in Italia un partito europeista ma capace di creare una alleanza, con Parigi e Madrid, in grado di controbilanciare il potere di Berlino. Il risultato di Roma, ancorchè negativo, risulta funzionale alla strategia di Hollande della necessità della crescita nel continente ed avvera per la Germania i suoi peggiori timori. Il governo tedesco sperava in una riconferma di Monti, che ha attuato come un soldato i dettami di Berlino, diventando il migliore alleato delle politiche economiche tedesche, tuttavia anche una vittoria di Bersani sarebbe stata preferita alla più completa incertezza attuale, che da forza alle posizioni di Parigi contro l'austerità totale, che possa permettere la maggiore occupazione, elemento necessario all'effetiva integrazione europea.

L'Iran vicino alla bomba atomica, per Israele torna in auge l'opzione militare

I negoziati del Kazakistan, per mettere fine alla determinazione iraniana di diventare una potenza militare nucleare, sono sostanzialmente falliti. Nonostante le sanzioni, Teheran continua ad andare avanti nel suo programma nucleare, anche a costo di sacrificare la propria situazione economica; questo aspetto risulta indicativo in maniera fondamentale nelle intenzioni iraniane di diventare una potenza atomica. Lo scorso 21 febbraio l'Agenzia dell'ONU per il nucleare ha espressamente affermato che Teheran è ora molto vicino, tecnologicamente, nella produzione del plutonio arricchito per costruire l'ordigno atomico, più nel dettaglio, secondo l'AIEA, il regime degli ayatollah avrebbe a disposizione l'armamento nucleare finito entro il termine del 2013. Le reazioni israeliane non si sono fatte attendere: Tel Aviv ha, ancora una volta, sollecitato i paesi occidentali a muovere un attacco contro gli impianti nucleari iraniani, da compiere nel lasso di tempo restante. Oltre alle rivelazioni dell'AIEA, sono state pubblicate dal quotidiano "Daily Telegraph" le immagini via satellite scattate sulla città di Arak, dove vi sarebbe un ulteriore impianto per la produzione di plutonio arricchito, che costituirebbe il piano di riserva iraniano, in caso di danneggiamento degli impianti principali. Questa notizia, ben conosciuta dai servizi segreti e fornita alla stampa serve allo scopo di guadagnare consensi anche tra l'opinione pubblica occidentale, che nella maggioranza, è contraria ad un attacco militare contro l'Iran, per le conseguenze difficilmente immaginabili che potrebbero scatenarsi. Tuttavia, dopo la riuscita dell'esperimento nordcoreano, nell'occidente e non solo, sale la preoccupazione per la nuova proliferazione degli armamenti nucleari, specialmente in paesi non sicuri e capaci, con il possesso di armi atomiche, di condizionare equilibri regionali già di per se molto instabili. Se l'Iran, sempre nel quadro della teocrazia che comanda il paese, dovesse arrivare effettivamente al possesso della bomba atomica, la regione mediorientale sarebbe soggetta ad un equilibrio del terrore molto precario, con due soggetti fortemente nemici entrambi militarmente dotati di forza nucleare. Uno scenario fino a poco tempo prima impensabile e troppo a lungo creduto impossibile da avverarsi. La politica degli USA, su questo argomento, è stata mossa da un atteggiamento prudente, Obama ha preferito usare l'arma delle sanzioni senza forzare troppo la mano, ma i risultati, sia a Pyongyang, che a Teheran non sono andati nella direzione voluta. La rielezione di Netanyahu, rafforza, però, l'ipotesi di intervento scongiurata lo scorso anno anche per la scadenza delle presidenziali americane. Terminati gli appuntamenti elettorali gli USA a questo punto dell'evoluzione della vicenda, potrebbero dare un tacito assenso all'opzione militare di Israele, dove la pressione per il pericolo iraniano si fa sempre più pesante. Anche lo scenario siriano, dove l'indebolimento di Assad, principale alleato di Teheran, sembra favorire l'intenzione di Tel Aviv di scegliere la possibilità di un attacco chirurgico in grado di azzerare la tecnologia nucleare iraniana. Alla fine dell'anno mancano ancora dieci mesi ma se Israele deciderà di intervenire non lo farà alla scadenza del 2013, più probabile che la pianificazione dell'attacco sia uno dei primi atti dopo l'insediamento del nuovo governo; se ciò sarà vero, verso fine primavera, inizio estate potrebbe iniziare l'operazione militare.

mercoledì 27 febbraio 2013

La UE non deve sottovalutare il caso italiano

Il risultato delle elezioni italiane deve essere interpretato come piu’ di un segnale di allarme da parte delle istituzioni europee. Roma, da sempre convinta appartenente delle istituzioni europee, si ritrova con il parlamento meno propenso all’Unione Europea del continente. Il fenomeno, prima circoscritto a nazioni meno importanti, o, se presente in quelle maggiori, confinato in zone regionali ben definite, in Italia assume un ora un valore di tutt’altro peso specifico. L’evoluzione dei prossimi giorni dira’ se il paese italiano riuscira’ a costruire un governo, capace, almeno di arrivare ad una nuova scadenza elettorale con una nuova legge per determinare il peso politico delle coalizioni, evitando le situazioni, come l’attuale, che determinano lo stallo del sistema. Ma a questo problema, pur importante per i delicati equilibri europei, vi e’ quello ancora maggiore che riguarda la lezione che Bruxelles deve capire affinche’ questa situazione non si ripeta, portando il pericolo della disgregazione europea a livelli fino ad ora mai raggiunti. Le forze che siederanno nel prossimo parlamento italiano, sono infarcite di un euro scetticismo che va dall’uscita della moneta unica, fino all’abbandono dell’Unione Europea, come soluzioni possibili alla grave crisi economica. Quello che si imputa a Bruxelles e’ di avere assecondato troppo le esigenze tedesche, che hanno determinato una contrazione enorme del reddito disponibile per famiglie ed imprese, alzando il valore del debito pubblico degli stati, sopratutto quelli dell’Europa meridionale. Il comportamento della Germania, condizionato da una visione miope e ristretta ha ridato fiato all’euro scetticismo piu’ spinto, a sua volta mosso, da programmi a brevissima scadenza. Detto cio’ se si verificasse, non proprio un distacco, ma soltanto un allentamento dei vincoli nei confronti dell’Europa, i primi a rimetterci sarebbero proprio i tedeschi, che hanno nell’area euro il loro mercato di riferimento. Il segnale greco per scongiurare i pericoli del populismo e della contrarieta’ alle istituzioni europee non e’ evidentemente bastato, ma ora quello che avviene in Italia, la terza economia dell’area euro, rischia di avere una portata ben maggiore, anche per il potenziale effetto di emulazione che potrebbe verificarsi. Chiaramente la colpa non e’ tutta della Germania o della UE, pero’ e’ un fatto che il governo Monti, definito tecnico, ha abbassato notevolmente gli standard di vita degli italiani, per soddisfare le richieste europee e mantenere in piedi un sistema bancario non in grado di sostenere i necessari investimenti. In un simile scenario il Partito Democratico, accreditato dai sondaggi della vittoria, e’ arrivato primo senza raggiungere la maggioranza necessaria per governare, subendo la rimonta di Berlusconi, responsabile dello sfacelo che ha determinato l’insediamento di Monti. Proprio il risultato deludente del premier uscente, che governava con l’assoluto favore di Bruxelles, rivela il basso livello di gradimento che il popolo italiano ha manifestato e che deve essere il principale motivo di riflessione per Bruxelles. Tutto cio’ ha favorito l’ascesa del Movimento Cinque Stelle, che pur partendo da motivazioni piu’ che valide, ha proposto in sede di campagna elettorale, una visione populista di facile presa, che, tuttavia, ha permesso di nascondere la pochezza delle proposte politiche. La UE non puo’ permettersi un’altro episodio simile e deve fare in modo che in Italia si creino le condizioni per fermare da subito l’antieuropeismo mediante ogni aiuto possibile per evitare una deriva capace di trascinare tutta l’impalcatura europea. Se cio’ non si verifichera’ l’unione politica sara’ irraggiungibile e sara’ la fine del sogno europeo, con il risultato che le singole nazioni del vecchio continente saranno preda di facile conquista di Cina e Stati Uniti.

venerdì 22 febbraio 2013

L'atomica della Corea del Nord potrebbe rappresentare un pericolo ancora maggiore

Dopo il test nucleare effettuato dalla Corea del Nord e provato dalla registrazione di una scossa di terremoto di magnitudo 5, avvenuta a 100 chilometri dal confine con la Cina, continuano le misurazioni di radioattività da parte di USA, Giappone e Corea del Sud. Il fatto che non siano stata ancora rilevate tracce di radioattività non esclude certamente che la prova sia avvenuta, come hanno verificato i sismografi, ma pone interrogativi circa il materiale utilizzato per la bomba, che possono determinare, di conseguenza, i progressi nella ricerca e nel grado di tecnologia raggiunto da Pyongyang. Intanto una ipotesi della mancata rilevazione di particelle radioattive nell'aria, è che l'esperimento sia avvenuto all'interno di una sede protetta da formazioni rocciose ed in profondità. L'ammissione della Corea del Nord di avere fatto esplodere un ordigno miniaturizzato, quindi più leggero, ma con magiore potenza esplosiva, senza danni ambientali, incrociata con i dati del terremoto registrato in corrispondenza dell'effettuazione del test, fornisce una indicazione di massima agli scienziati, che consente di ipotizzare una potenza raggiunta di almeno 5 kiloton, superiore ai test nordcoreani precedenti, ma ancora lontano dai 20 kiloton raggiunti dalla bomba sganciata su Hiroshima. Tuttavia il punto cruciale è stabilire quale materiale ha effettivamente usato Pyongyang. Nei test precedenti si è certi che è stato usato plutonio, ma dalle indicazioni delle misurazioni questa volta all'interno della bomba potrebbe esservi stato uranio arricchito. Se ciò corrisponde al vero la notizia è preoccupante per due ragioni fondamentali: la prima costituisce la prova di un avanzamento tecnologico notevole, con potenziali implicazioni dell'esportazione della tecnologia raggiunta verso paesi interessati a dotarsi di armamenti atomici, fattore in grado di portare ulteriore instabilità nel mondo. La seconda è di ordine più strettamente militare, ma non meno preoccupante. Un ordigno costituito da uranio arricchito è più facilmente oscurabile ai satelliti spia e, come è stato detto, necessita di dimensioni minori, il che favorisce in maniera nettamente più facile il montaggio su missili a lungo raggio. Pyongyang dispone, in teoria, di testate missilistiche in grado di coprire 10.000 chilometri, un raggio sufficiente per arrivare a colpire il territorio statunitense; in pratica i test di questi missili non hanno mai raggiunto tale distanza esplodendo prima in volo, dopo essere stati colpiti. Nonostante questi insuccessi però, lo scorso dicembre utilizzando un missile analogo la Corea del Nord è riuscita a mettere in orbita un satellite. Tutti questi fatti hanno determinato un aumento della preoccupazione di Washington, che risulta essere il primo nemico della lista elaborata da Kim Jong-un, sulla base delle sanzioni inflitte al suo paese, proprio per la questione della nuclearizzazione nordcoreana. Con un paese ridotto allo stremo l'unica politica che il governo di Pyongyang è capace di elaborare, per ottenere gli aiuti necessari a mandare avanti la propria pur ridotta economia, è quello di dispiegare un apparato militare verso cui le risorse destinate appaiono sbilanciate rispetto al budget complessivo dello stato, un apparato militare che probabilmente è il vero detentore del potere nel paese e ne è la causa delle pessime condizioni di vita. Praticamente abbandonata anche dalla Cina, che non gradisce tale concentrazione mediatica ai suoi confini, la Corea del Nord sembra incrementare la sua politica di minacce come estrema risorsa di convincimento nei confronti dei soggetti che hanno decretato le sanzioni. Questa situazione ne costituisce un attore molto pericoloso, instabile ed anche imprevedibile, che crea allarme in una zona che ha assunto una importanza nevralgica nel commercio mondiale. Resta difficile credere che Obama resti indifferente ad una minaccia che è anche relativamente vicina al territorio americano, oltre a gravare anche su Giappone e, naturalmente, Corea del Sud. Il dispiegamento navale e le recenti manovre militari congiunte, che hanno visto la partecipazione dei marines americani, attorno alla Corea del Nord, vanno, appunto, viste in quest'ottica, anche se, probabilmente, non saranno che un anticipo di operazioni ancora maggiori. Gli USA, intendono così rispondere alle provocazioni nordcoreane, con una miscela di minaccia militare e l'aggravamento sanzionatorio, la tattica ha un alleato importante in Pechino, che intende risolvere la questione al più presto. Il pericolo, però, di un colpo di testa del regime di Pyongyang, maturato in un contesto fortemente instabile, rimane. Per Washington, che comunque è in possesso di tutti i sistemi di neutralizzazione antimissile, ora la corsa è contro il tempo, in modo tale da acquisire le conoscenze sufficienti sul grado di sviluppo della tecnologia della Corea del Nord, per adottare le adeguate contromisure.

giovedì 21 febbraio 2013

L'Italia a due giorni dal voto

Ormai prossimi alla scadenza elettorale italiana, cruciale per il paese, ma anche per l'Europa e l'intero occidente, la situazione nello stivale appare molto confusa ed il livello, sempre più basso, della campagna elettorale, contribuisce ad aumentare il senso di smarrimento nelle cancellerie. Partiamo dai sondaggi bloccati per legge da due settimane: fino a che sono stati resi pubblici si registrava un recupero dell'ex primo partito italiano e della sua coalizione di centro destra trainato dal ritorno sulla scena pubblica del leader della formazione Silvio Berlusconi, sulla coalizione favorita di orientamento di centro sinistra. Il premier uscente, Mario Monti, entrato nella competizione a sorpresa e contrariamente a quanto dichiarato, non pareva sfondare in un elettorato che lo ha percepito come autore di una politica vessatoria, malgrado gli apprezzamenti internazionali; la coalizione di centro capitanata proprio dal Presidente del Consiglio non era accreditata sopra il 12-15%, un risultato, che se confermato, sarà deludente per le attese di una fascia collocata al vertice della piramide sociale italiana, che confidava nella politica del governo dei tecnici, ma che potrebbe consentire un potere di ricatto nei confronti delle altre due coalizioni, in una posizione di ago della bilancia. Questa ipotesi apre allo scenario più probabile: la vittoria insufficiente del centro sinistra, che avrà bisogno della stampella di centro per potere formare il governo. Pare, invece, impraticabile la via alternativa verso una alleanza tra la formazione di Monti ed il centrodestra, sia per la presenza del partito a matrice antieuropea, la Lega Nord, sia per i toni accesi che hanno assunto reciprocamente Berlusconi e Monti, con lo scopo di guadagnare la fiducia dell'elettorato definito, spesso a torto, come moderato. Ma una alleanza tra il centro ed il centrosinistra, dove è presente una formazione più marcatamente di sinistra, Sinistra ecologia e libertà, guidata dal governatore della Puglia, Vendola, potrebbe causare la ripetizione dell'ultima esperienza del governo Prodi, quando per le incomprensioni per le componenti eterogenee dell'alleanza, l'esperienza di governo terminò anticipatamente, aprendo la strada all'ultimo governo Berlusconi, inviso ai maggiori paesi europei. Un tale quadro della situazione aprirebbe una fase di instabilità che non avrebbe altro epilogo che una nuova consultazione elettorale. Lo scenario fin qui presentato ricalca però la tendenza sia dei media, che degli istituti demoscopici italiani, che hanno sottovalutato la presenza degli altri movimenti in corsa ed in special modo l'impatto del Movimento Cinque Stelle, guidato da un comico, Beppe Grillo, capace di riempire le piazze con i suoi comizi, usando una strategia elettorale basata sull'uso del web ed, appunto, delle piazze, rifiutando il canale tradizionale della propaganda politica: la televisione. I programmi di Grillo non sono chiari, si tratta di un impasto infarcito di proposte populiste ed astio, ampiamente giustificato, verso una classe politica che ha dato ampie prove di incapacità e malgoverno, ma che, proprio per la facilità di comprensione del messaggio, stanno incrementando i consensi. Il Movimento Cinque Stelle rischia di diventare il terzo o addirittura il secondo partito del paese. Ad aiutare l'aumento del gradimento è stato lo svolgimento di una campagna elettorale, dove i partiti tradizionali hanno mantenuto il discorso sui programmi, solo nelle prime battute, per poi scadere di livello, trascinati in continui attacchi l'uno contro l'altro e promesse spesso antitetiche, quanto pittoresche, con quanto enunciato all'inizio della competizione. Si aggiunga che il coinvolgimento, seppure indiretto, in episodi giudiziari molto rilevanti, ha riguardato diverse formazioni politiche, andando ad accrescere e provare direttamente quanto sostenuto da tempo da Grillo nei confronti dei politici di professione. Nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle pur accreditato di un 15-18% è stato probabilmente sottostimato, non è dato di sapere se per imperizia o ad arte, ma attualmente, secondo le impressioni di vari osservatori, avrebbe una percentuale ancora più rilevante. Beppe Grillo, il leader del movimento, ha sempre rifiutato qualsiasi possibile alleanza con le forze poltiche tradizionali, ed un suo eventuale successo rappresenterebbe un ulteriore elemento di instabilità del sistema, forse ancora maggiore, che un eventuale accordo tra centro sinitra e centro, già di per se poco stabile, quasi per definizione. Questa situazione, che è forse il risultato più probabile delle urne, è ben presente alla platea internazionale, che nutre forti preoccupazioni per i riflessi negativi sulla moneta unica derivanti dalla non governabilità della terza economia della zona euro. I risultati a livello macroeconomico del governo dei tecnici guidato da Monti, hanno avuto l'effetto di tamponare una crisi che poteva trascinare dietro di se la moneta unica, ma non hanno sistemato in maniera strutturale l'impalcatura sempre traballante dell'economia italiana. Le scelte di forte compressione dello sviluppo attuate mediante una tassazione applicata in maniera oltremodo feroce, che ha ridotto potere di acquisto e capacità produttive, non possono essere tollerate da una società sempre più portata verso il basso, dove le forti tensioni sociali ne hanno minato la coesione. L'antipolitica, dei movimenti populisti, sembra abbia occupato gli spazi liberi lasciati dal fallimento delle forze politiche, a questo fenomeno si deve sommare il grande livello di astensionismo ed allontanamento dalle urne, che costituiscono la forma più diffusa di protesta verso il sistema dei partiti, che resiste all'implosione grazie ad uno zoccolo duro di affezionati, che tende, però, ad una sempre maggiore erosione. Sostanzialmente è questo lo scenario italiano a poche ore dalle urne, uno scenario giustamente preoccupante.

mercoledì 20 febbraio 2013

Israele: Tzipi Livni guiderà i negoziati con i palestinesi

In un Israele minacciato dall'Iran, dagli Hezbollah e dalla situazione siriana, l'incaricato a formare il nuovo governo, l'ex premier Benjamin Netanyahu, compie una scelta pragmatica per una possibile e sempre più necessaria soluzione della questione palestinese. L'incarico, che dovrebbe essere affidato, secondo gli ultimi accordi, a Tzipi Livni come Ministro della Giustizia, comprenderà anche la ripresa della conduzione dei negoziati di pace con i palestinesi. Si tratta di una scelta che può apparire sorprendente, la Livni ha avversato negli ultimi anni, l'azione di governo del Premier incaricato, dai banchi dell'opposizione, tuttavia per Netanyahu l'incarico alla nuova ministro è un passo obbligato per cercare di formare un governo che comprenda la maggior parte dei settori della società politica israeliana. Questa necessità è dettata dall'isolamento internazionale in cui il paese israeliano si è gettato, per le posizioni oltranziste ed oltremodo rigide, proprio tenute nei confronti della questione palestinese. La scelta della Livni, unita alla volontà dichiarata di mettere fine al conflitto con i palestinesi tramite la ripresa del processo di pace dovrebbe andare nella direzione tanto auspicata dagli Stati Uniti, di due stati per due popoli. Se le premesse sono queste il fatto è senz'altro positivo, anche se Benjamin Netanyahu ha spesso abituato a promesse non mantenute mediante sfacciati voltafaccia. L'attribuzione della direzione dei negoziati di pace ad un nuovo soggetto, rispetto agli assetti politici precedenti, come la Livni dovrebbe garantire però una intenzione sincera, non fosse altro che per la sopravvivenza del nuovo governo israeliano, necessaria per ridare stabilità ad un paese che ha il grande bisogno di risolvere le proprie questioni interne, legate all'economia in crisi e alla disgregazione del tessuto sociale a causa del declino della classe media, che soffre di una distribuzione del reddito sbilanciata. Ma la nomina della Livni, proprio perchè gradita ad Abu Mazen, USA ed Unione Europea, non è altrettanto apprezzata dai conservatori ed ultraortodossi, che restano comunque un alleato importante di Netanyahu. Il primo scoglio dell'azione della Livni sarà, infatti, la condizione essenziale posta dai palestinesi per riprendere i negoziati: la fine dei programmi di insediamento delle colonie nei territori palestinesi. Si tratta di un tema che suscita grandi reazioni in entrambe le parti e che Benjamin Netanyahu è ben felice di non trattare in prima persona e delegare ad altri. Su questa questione spinosa, potrebbe esserci la trappola per la Livni, che è pur sempre stata nel passato una rivale di Netanyahu e verso la quale l'ex capo del governo non può nutrire di colpo la piena fiducia, usata dal premier in pectore come soggetto sul quale scaricare un possibile fallimento dei negoziati e quindi riprendere la sua politica anti palestinese, con una piena giustificazione. Sulla reale sincerità di Benjamin Netanyahu sull'attuazione della definizione della questione palestinese da concludere con la formazione dei due stati, vi è infatti, più di un dubbio. Nella scorsa legislatura le occasioni, se non per concludere, almeno per arrivare ad un punto avanzato delle trattative ci sono state tutte, ma sono state puntualmente disattese con una politica repressiva ed arrogante contro i palestinesi, ampiamente sostenuta dai partiti ultraortodossi ancora presenti nella prossima coalizione di governo. Questa situazione di equilibri politici è però variata, grazie all'affermazione del nuovo partito di centro di Yair Lapid, meno propenso alle concezioni agli ultraortodossi. Il nuovo scenario politico israeliano riduce quindi i margini di manovra di Benjamin Netanyahu, che, tuttavia, potrebbe tentare qualche nuova invenzione per andare avanti nella politica degli insediamenti. Per capire le reali intenzioni del futuro capo del governo occorrerà attendere i reali spazi che saranno concessi alla Livni, tenendo presente che l'elettorato, pur guardando con attenzione alle questioni della sicurezza nazionale, ha espresso maggiore preoccupazione per i problemi interni, la cui soluzione passa anche attraverso la definizione della questione palestinese.