Politica Internazionale

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lunedì 28 marzo 2011

Gli USA non si occuperanno della crisi siriana

Una partecipazione degli Stati Uniti, in una eventuale operazione militare in Siria, paese dove si stanno verificando rivolte e dove la repressione della polizia ha causato diversi morti, è da scartare totalmente. Così la segretaria di stato Hillary Clinton in una intervista alla CBS. La Clinton ha precisato che una evenineza del genere richiede troppe condizioni, difficilmente verificabili contemporaneamente: una coalizione della comunità internazionale, ina risoluzione del consiglio di sicurezza dell'ONU, una richiesta della Lega Araba ed una condanna universale del regime di Hassad.
La situazione siriana non è paragonabile con quella libica, per quanto siano gravi le proteste e la repressione non è in corso alcuna guerra, ed anzi il governo ha promesso aperture per superare lo stato delle cose. Dal punto di vista diplomatico, inoltre appare assai improbabile l'impiego di una forza occidentale, ed in special modo americana, in un paese che relazioni molto strette con l'Iran; ciò potrebbe sembrare una pericolosa provocazione nella regione, dove, tra l'altro la Siria si trova contigua allo stato di Israele: una miscela altamente esplosiva.

USA e sudamerica

La politica estera di Obama nel centro sud america non ha fatto registrare grosse variazioni; per Cuba non ci sono sostanziali avanzamenti tra i due paesi, le misure messe in campo dal fratello di Castro sono ancora poca cosa, se viste da Washington, ed i problemi con la dissidenza anticastrista sono ancora di tale entità da bloccare ogni sviluppo di relazione bilaterale. Sullo sviluppo del trattato di libero scambio con Colombia e Panama esistono degli aspetti ancora da limare, la sensazione è che il presidente USA, voglia portare a termine l'accordo nel 2012, come dote elettorale da gettare nella campagna. Il problema più grosso è il Venezuela, sospettato di fornire uranio all'Iran, il rapporto con Chavez è difficoltoso, e la sensazione che fornisca Teheran non aiuta, tuttavia per il momento la presidenza USA non intende forzare la mano, anche in virtù dell'assenza di prove concrete. Il quadro che appare è che la diplomazia USA al riguardo dei paesi latinoamericani è in una fase di attendismo, probabilmete a causa di esigenze più pressanti, tuttavia l'obiettivo è di incrementare l'influenza americana nel continente per sottrarre partner commerciali all'avanzata cinese. E' probabile che questo piano si attuerà con aiuti destinati al problema educativo ed infrastrutturale per innalzare il livello degli interlocutori territoriali.

Guerra umanitaria e guerra preventiva

Qual'è la differenza tra intervento umanitario e guerra preventiva? Non è una domanda retorica, dato che ormai spesso le due cose coincidono. Con l'avvento della dottrina della guerra umanitaria, che deve cioè essere intesa come operazione di polizia internazionale tesa a difendere la popolazione civile da atti militari contro di essa, le organizzazioni sovranazionali hanno spesso esercitato questo diritto/dovere intervenendo, appunto come forza esterna, a sanzionare "manu militari" l'oppressore di turno. La questione è quale è stato e quale deve essere il motivo che fa scattare questa reazione? Nel passato i casi più eclatanti sono stati l'impiego della forza contro Serbia, Iraq ed Afghanistan (questi ultimi due peraltro operazioni ancora in corso), attualmente una coalizione occidentale sta agendo in Libia. Mentre in questi paesi si è agito più o meno speditamente in altri casi l'intervento è stato limitato al presidio territoriale di caschi blu, spesso inefficienti, o nel maggior numero delle evenienze non vi è stato alcun intervento diretto, ma solo blande sanzioni o dichiarazioni d'intenti a cui non è seguito nulla. Il sospetto che dietro la giustificazione della cosidetta guerra umanitaria si nascondano altri motivi è stato da subito strisciante. In effetti, pur essendo presente la possibilità o peggio la certezza di gravi azioni sulla popolazione inerme, l'intervento militare è spesso parso come operazione intrapresa a causa di quell'unico fine. Se in Serbia non vi era petrolio era pur vero che stava accadendo qualcosa di pericoloso dentro i confini europei, in una zona strategica dove non si potevano permettere zone d'ombra di instabilità; in Afghanistan l'intervento è stato dettato dal periodo seguente all'undici settembre e si può vedere come un investimento sulla sicurezza occidentale, per fermare la formazione e lo sviluppo delle formazioni terroristiche; più complesso il caso iraqeno, dove la presenza di un dittatore che angustiava il proprio popolo, è stato eliminato, in ritardo, con un falso motivo, la presenza di armi di distruzione di massa, su di un territorio ricco di greggio. E siamo alla Libia, dove l'intervento in corso è partito tra mille fraintendimenti e difficoltà contro un personaggio con cui gli stati che ora lo attaccano, hanno sempre avuto rapporti duraturi. Tutti questi casi, parlano chiaramente di interventi dove l'emergenza umanitaria esiste ma non è condizione sufficiente a determinare l'intervento, ne consegue che la regola è che deve essere presente anche una ragione accessoria, che però è spesso quella determinante per l'intervento militare. Siamo così alla guerra preventiva, lo schema è quello di intraprendere una azione militare per regolare una situazione potenzialmente pericolosa, per l'avvio è necessaria una causa che faccia presa sull'opinione pubblica e giustifichi l'intervento. Siamo nello stesso caso della guerra umanitaria? La risposta è si, in questo momento storico le due cose coincidono, è lo schema vigente per operare azioni militari su vasta scala, speriamo che il prossimo passo sia riuscire a scindere le due cose e si intervenga per tutti i casi di emergenza umanitaria, ma per fare questo è necessaria una forza armata dell'ONU.

domenica 27 marzo 2011

Per Israele pericolo Siria

La rivolta in Siria crea nuova apprensione per Israele, in un momento delicato dopo il recente attentato subito. La dinastia degli Assad vive un momento cruciale, per la sua permanenza al potere, in un paese a maggioranza sunnita, l'elite del potere segue una setta scita; ci troviamo in una situazione rovesciata rispetto al caso saudita. Questa particolarità ha permesso una strategia diplomatica molto duttile, venata di ambiguità e sottigliezza. Lo stato siriano, ha infatti intrattenuto relazioni con Iran, Hezbollah (finanziati in Libano) ma anche con Israele, il quale giudica la Siria un interlocutore con cui potere negoziare e che consente stabilità alla regione. Questo nonostante la Siria si sia professata più volte antisionista ma l'interesse a recuperare la zona del Golan, occupata dall'esercito della stella di David nel 1967, ha più volte portato a contatto i due paesi. Invero una speranza recondita di Tel Aviv è la caduta degli Assad, proprio per rompere il letale triangolo Teheran-Damasco-Beirut, giudicato pericoloso dal governo israeliano. Tuttavia in questo momento storico, con le nazioni arabe in rivolta e senza potere ipotizzare certezze su chi prenderà il comando nelle rispettive caselle della scacchiera delle rivolte arabe, gli Assad vengono giudicati un fattore di stabilizzazione nel paese circa i rapporti con Israele e i dubbi sui possibili sviluppi attanagliano la dirigenza di Tel Aviv. Sembra il ripetersi delle sensazioni che accompagnavano in Israele la fine del regime di Mubarak, quando si sosteneva che era più conveniente il suo mantenimento al potere per la stabiltà della regione. Quello che traspare è che la diplomazia israeliana si sia trovata impreparata ancora una volta dopo i fatti egiziani e navighi a fari spenti nel mare delle rivolte. Con la propria posizione geografica la Siria potrebbe diventare uno snodo strategico per un possibile attacco alla nazione israeliana, non tanto dall'esercito siriano, inferiore a quello di Tel Aviv, ma base di partenza di terroristi o anche attacchi missilistici. La bomba siriana è quindi da disinnescare subito, anche con concessioni (vedi Golan), che impediscano un possibile conflitto nell'area più calda del mondo.

venerdì 25 marzo 2011

Quale destino per Gheddafi?

«Le operazioni militari si concluderanno quando la popolazione civile sarà al sicuro dalla minaccia di attacchi e quando gli obiettivi della risoluzione 1973 saranno raggiunti» è scritto in un documento in più punti i capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles. La frase lascia aperta ogni possibilità ed evenienza sul prosieguo della operazione libica. Le riflessioni sulle implicazioni di un pronunciamento del genere, che ha tutti i crismi dell'ufficialità, lasciano credere che l'operazione prevede l'annientamento o almeno la condizione di non nuocere per Gheddafi. Sarebbe, infatti impossibile garantire la parte orientale della Libia dalla minaccia di attacchi per la popolazione civile con Gheddafi ancora in Libia. Se questo è vero si aprono tre possibilità per il rais: la soppressione fisica, in battaglia o successiva (come in Iraq), la cattura e il rinvio a giudizio al tribunale de L'Aja ed infine l'esilio. Non pare deciso verso quale decisione intende dirigersi l'alleanza, che comunque dovrà tenere conto anche della decisione dei ribelli, e senz'altro il tema è fonte di discussione nelle cancellerie. Il destino di Gheddafi è legato non solo al successo delle operazioni militari, anche la diplomazia dietro le quinte sta operando per andare in un senso o nell'altro. Si tratterà di vedere e valutare anche cosa Gheddafi potrà tirare fuori dai cassetti della sua scrivania. La presenza di dossier segreti, in mano al colonnello, è un'ipotesi non tanto peregrina: non si passano quaranta anni al potere senza accumulare documenti riservati su capi di stato con cui si intrattengono rapporti, talvolta anche stretti. Se la presenza di questi dossier fosse reale potrebbe essere l'arma finale che consentirebbe a Gheddafi di contrattare una uscita di scena onorevole e sopratutto conveniente per se stesso. La messa in salvo di Gheddafi potrebbe anche essere vista in chiave di pacificazione nazionale e sarebbe un elemento per evitare un dopoguerra da regolamento di conti, clima essenziale per fare ripartire il nuovo stato libico.

Le tre strategie del caso Libia e la mancanza della diplomazia UE

Francia, Germania ed Italia: tre paesi fondamentali della UE e componenti della NATO, con tre strategie diverse circa la Libia. Ruota intorno a questi tre paesi la possibilità con cui mettere fine alle ostilità militari e trovare una via di uscita. La Francia ha optato subito per un attacco militare, sfruttando le indecisioni americane e della UE, per cercare di allargare la propria influenza sulla sponda sud del Mediterraneo; probabilmente si aspettava una evoluzione rapida del conflitto da portare sulla bilancia del prestigio. Invece ha ottenuto di spaccare una alleanza nell'alleanza, quella con la Germania, e di risultare invisa in seno alla UE. Per quanto riguarda gli USA, Obama ha cercato da subito di riportare la NATO al centro delle operazioni, sconfessando, così, Sarkozy. La mossa di Parigi alla fine si è rivelata un azzardo, che alla fine costerà molto in termini di politica estera. La Germania, superata dagli eventi, ha dimostrato una scarsa propensione per l'intervento militare, arrivando a togliere dal Mediterraneo le poche forze armate presenti. Il problema del comando unico assente, è stato quello che maggiormente ha infastidito Berlino, il dirigismo francese non è stato digerito ed alla fine la Merkel ha elaborato una strategia che punta a fiaccare il regime con pesanti sanzioni economiche ed isolandolo dal consesso internazionale. A gioco lungo potrebbe questa decisone potrebbe sortire effetti letali sul regime di Tripoli, ma è una strategia che si basa sull'accettazione universale della stessa, appare difficile che non ci sia una qualche forma di contrabbando dell'oro nero tale da aggirare l'embargo. Tuttavia, in chiave diplomatica la decisione pare destinata a dare dei frutti nell'ambito della discussione e può porre la Germania a capo di una cordata di nazioni, che anzichè optare per l'uso della forza, punta a risolvere la situazione con mezzi pacifici. Il progetto, pur meno appariscente, pare destinato ad avere maggiore rilevanza sul piano internazionale perchè basato su un maggiore interscambio tra gli stati. L'Italia, infine, pur restando nell'ambito degli steccati della UE e della NATO, cui non ha negato l'appoggio, anche materiale, tramite l'uso delle basi militari, sta sviluppando una terza soluzione che prevede un maggiore uso della diplomazia sotterranea, anche in funzione degli accordi sviluppati con il regime libico durante tutta la sua storia. I frequenti contatti hanno sviluppato una rete di contatti che solo Roma può vantare, ciò determina la scelta di puntare in questo senso. L'Italia cerca di arrivare ad una exit strategy onorevole per Gheddafi, in modo di evitargli il coinvolgimento in un processo presso la Corte Internazionale dell'Aja ed un esilio onorevole. E' la via che assicurerebbe una veloce fine del conflitto senza troppi danni da ambo le parti, anche se le conseguenze successive sono tutte da valutare. Sul piano della politica internazionale, Roma si muove in sintonia sia con la UE che con la NATO, e ciò la mette al riparo da contrasti palesi; l'azione che porta avanti, pur essendo una azione di propria iniziativa, viene portata avanti senza ne interferire ne stravolgere la politica UE e NATO e senza, sopratutto avere intenti travalicatori. L'analisi delle tre strategie pone in primo piano la mancanza di una politica estera comunitaria e l'incapacità di frenare gli eventuali slanci in avanti di quegli stati, in questo caso la Francia, che sfuggono alla collegialità. Senza strumenti adeguati previsti dalla UE, non si inizia neppure a costruire una diplomazia europea, condizione essenziale, am non sufficiente, per pesare, come Europa, nell'agone internazionale.

giovedì 24 marzo 2011

Rivolte arabe ed infiltrazione terroristica

Esiste un concreto pericolo di infiltrazione terroristica nelle rivolte arabe? La domanda circola da tempo nelle cancellerie dei governi occidentali e l'apprensione è ancor più salita dopo l'escalation della guerra libica. Secondo informazioni di intelligence uomini di Al Qaeda potrebbero essere tra le fila dei ribelli di Gheddafi, infiltrati per cercare di guadagnare posizioni alla causa terroristica nella parte est del paese. La formazione dei ribelli appare un insieme eterogeneo, dove si mescola l'elemento tribale e l'opposizione politica; il momento di caos è ottimale per favorire l'infiltrazione di soggetti alieni alla protesta, che tentano di portare il verbo qaeddista in Libia. Occorre ricordare che Gheddafi ha tenuto lontano gli estremisti islamici dalla Libia, sopratutto per non pregiudicare il funzionamento della propria macchina statale, dove ogni forma di opposizione poteva nuocere alla macchina del rais. Tuttavia la vicinanza con l'Algeria, dove sono presenti base qaeddiste, potrebbe avere favorito l'infiltrazione di elementi di Al Qaeda, anche grazie al caos venutosi a creare nei primi momenti dell'inizio delle ostilità. Se questo fosse vero, sarebbe una ragione in più per seguire da vicino l'evoluzione di quello che potrebbe diventare il nuovo stato libico. Uno dei meriti di Gheddafi era stato, appunto, tenere lontano dalla Libia il movimento di Al Qaeda, se si aprisse questo nuovo fronte per l'Europa, sarebbe un pericolo in più da non sottovalutare.
Uno dei paesi più preoccupati è l'Italia, meta verso cui si muovono molti profughi provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Esiste un concreto pericolo che tra i tanti sventurati che cercano una sorte migliore, vi siano dei terroristi che possano approfittare del momento di confusione per entrare nell'area UE, inoltre in caso di sconfitta di Gheddafi, molti pretoriani fedeli al regime potrebbero passare il mare diretti a Lampedusa. E' questo, del terrorismo, un aspetto di difficile gestione all'interno della complessa vicenda libica: con l'Europa che, verosimilmente, si troverà a gestire direttamente una problematica molto delicata, in un momento in cui l'argomento religioso nel vecchio continente è uno degli argomenti centrali del processo di integrazione. La questione non è secondaria perchè può fornire argomenti a tutti quelli che in questi anni hanno costruito la loro fortuna politica sulla lotta allo straniero ed al diverso. Agitare lo spettro terroristico potrebbe avere facile presa di un'opinione pubblica spaventata. Il problema non va comunque sottovalutato, sia per le sue implicazioni, che per il reale pericolo, a cui ci si augura badino anche strutture sovranazionali.