Politica Internazionale

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sabato 30 luglio 2011

La rete iraniana del terrore

Gli USA accusano l’Iran di essere alleati con Al Qaeda. Arriva dal dipartimento del tesoro americano, quello che pare piu’ di un sospetto, l’avviso che Teheran sia un punto di transito delle finanze del gruppo terroristico islamico, con destinazione Pakistan. Non solo, il transito riguarderebbe anche effettivi volontari pronti a combattere sotto le insegne qaeddiste. Si tratterebbe sia di stranieri addestrati in Iran, sia di miliziani reclutati in loco. Facile immaginare la destinazione: la frontiera tra Pakistan ed Afghanistan, teatro della dura guerra, quasi di posizione, tra le milizie talebane e e le truppe NATO. Dal punto di vista teologico questa alleanza pare un paradosso, giacche’ il regime iraniano segue il ramo scita dell’islam, che Al Qaeda ha bollato come eretico, ma la valenza politica e militare ne costituisce il vero cardine; d’altro canto non e’ neppure una novita’: immediatamente dopo l’undici settembre Washington punto’ subito il dito contro Teheran, come uno dei possibili mandanti dell’attentato. Quello rilevato dal dipartimento del tesoro USA, costituisce una conferma di una rete piu’ volte identificata, che e’ la spina dorsale della politica estera iraniana, che con la sua azione sottotraccia, si muove in una rete ramificata di ambienti terroristici e governativi, che hanno come unici obiettivi gli USA stessi ed Israele. Si va, appunto dai combattenti Talebani in Afghanistan, ai servizi deviati pakistani, agli Hezbollah libanesi, al governo siriano, ai terroristi iraqeni fino ad arrivare ai palestinesi di Hamas. La condotta dell’Iran si muove attorno ad una politica fatta di aiuti militari, finanziari e logistici, che tengono in costante apprensione gli USA, non tanto per azioni eclatanti, come invece piu’ volte minacciato da Teheran, quanto per una tattica quasi di guerriglia fatta di piccole o medie azioni di disturbo capaci di influenzare concretamente e l’aspetto delle sicurezza e l’aspetto della diplomazia. Esiste una fascia di territorio, nel mondo, dove queste azioni hanno una continuita’ sia di movimento che di capacita’ politica di influenza tale da fare guadagnare consensi alla causa iraniana. Tutto questo, poi e’ contiguo ai problemi internazionali dell’Iran, connessi sia al regime di isolamento, peraltro facilmente aggirabile, sia alle sanzioni, cui Teheran e’ sottoposta per il problema nucleare. Anche per questo versante l’uso spregiudicato delle alleanze risulta conforme al ragionamento iraniano, che ne fa ragione e di disturbo e di confusione.

venerdì 29 luglio 2011

Le implicazioni politiche del debito USA

Sul debito gli USA vanno incontro alla pilatesca decisione del rinvio. Con le elezioni incombenti, vero ostacolo ad una soluzione strutturale, la strada sembra già tracciata: nonostante una serie di discussioni, anche particolarmente accese, nessuno dei due schieramenti vuole prendersi la responsabilità di prendere accordi con gli avversari, che pregiudichino il rapporto con i propri elettori. Quindi il livello del debito sarà innalzato ed il problema rimandato dopo le elezioni. La situazione è un chiaro esempio di come la politica tenga in ostaggio l'economia e come, alla fine tutto ricada sulla popolazione. Gli USA sono ora in ostaggio di un sistema sbilanciato che mette in competizione il potere legislativo con quello esecutivo, quando la maggioranza che costituisce un potere non coincide con l'altra si arriva allo stallo. Ad aggravare la situazione vi è poi la complicata situazione interna del partito repubblicano, dove il movimento del tea party rischia di fare saltare i già delicati equilibri. Formatosi in base ai sentimenti dell'america bianca più profonda il tea party all'inizio è stato usato dai vertici del partito repubblicano per evidenziare le contraddizioni di Obama. Ma la pochezza ed anche gli scarsi argomenti dei repubblicani hanno finito per fare diventare prevalente il movimento del tea party in seno al partito conservatore americano. A questo è dovuto l'irrigidimento che ha portato al rinvio. L'economia americana, in realtà non è a rischio default, se non con possibilità remote, perchè gli interessi sui titoli decennali USA restando bassi dimostrano la fiducia dei mercati. Il problema più grosso è quello sociale, Washington deve fare i conti con un numero di disoccupati che ha raggiunto la quota astronomica di 29 milioni di persone, pari al 9,2 per cento ed i 18.000 nuovi posti di lavoro di Giugno rappresentano veramente poca cosa. Con queste premesse potrebbe avvicinarsi un conflitto sociale di proporzioni enormi, senza una soluzione politica il debito americano rischia di innescare una reazione a catena sui cui effetti la Cina è l'attore maggiormente preoccupato. Pechino ha nei suoi forzieri una quota pari a 1.600 miliardi di dollari di titoli americani e quindi non ha alcun interesse a soffiare sul fuoco del debito USA, tuttavia Hillary Clinton, durante una sua recente visita a Hong Kong, si è impegnata a rassicurare le autorità cinesi. Al momento la Cina non ha problemi di liquidità, nella peggiore delle ipotesi il debito cinese, comprendendo nel conteggio oltre allo stato anche le amministrazioni locali, potrebbe toccare il 40 per cento del PIL. Le implicazioni sono però, ancora una volta politiche, i rapporti tra Cina ed USA sono costellati da frizioni, che spesso si risolvono con compromessi raggiunti a fatica, nella competizione per potenza globale ormai la partita è a due: ma la quota di debito USA in mano alla Cina costituisce una vera e propria arma puntata su Washington, il cui blocco politico interno, alla luce di ciò risulta essere una pericolosa aggravante.

giovedì 28 luglio 2011

In libia non partono i negoziati

La situazione libica, oltre che dal punto di vista militare, è sempre più difficile anche dal punto di vista diplomatico. Gheddafi non è disposto ad intavolare alcuna trattativa con la controparte, senza che siano cessati i bombardamenti NATO, inoltre una eventuale fuoriuscita dal paese e la rinuncia del potere, da parte del rais, non costituiscono materia di trattativa. Questi assunti smentiscono le possibili soluzioni ventilate nei giorni scorsi da Mosca e delineano una strategia che punta a nuove sortite militari contro i ribelli qualora si blocchi lo scudo aereo. Infatti la condizione posta per aprire i negoziati non pare sincera e viene proposta per sfruttare il vantaggio dato a Tripoli dall'artiglieria pesante e dalle forze di terra. Una tregua aerea, in una fase di stallo come l'attuale, potrebbe permettere a Gheddafi di riguadagnare posizioni. Questa evenienza si accorda perfettamente con tutta la condotta del conflitto pensata a Tripoli, che consiste nel guadagnare tempo per cristallizzare la situazione. Conscio della impossibilità di una soluzione rapida del conflitto, al contrario dei volenterosi, Gheddafi, ha impostato su questa convinzione la guerra, probabilmente dando per persa la parte orientale del paese e cercando di mantenere sotto il proprio controllo la parte occidentale, dove gode di maggiore appoggio. Più il tempo scorre, più il rais ha possibilità di evitare la Corte dell'Aja o l'esilio. Tra qualche tempo non sarà più possibile protrarre il conflitto e l'unica soluzione sarà dividere in due la Libia, entità artificiale creata dal colonialismo italiano. Questa è la strada su cui Tripoli vuole portare il conflitto, la perdita di Bengasi e dell'oriente del paese è un pegno accettabile per il mantenimento del potere. Intanto il Regno Unito ha riconosciuto come unico rappresentante del popolo libico il Consiglio nazionale transitorio ed ha espulso i funzionari legati a Tripoli; tuttavia Gheddafi insiste anche sul lato diplomatico con missioni a Tunisi ed a Il Cairo di suoi emissari, rivelando di essere tutt'altro che isolato.

Potrebbero ripartire le trattative tra le due Coree

Un incontro durante il forum regionale per la sicurezza dell'Associazione dei paesi del sud est asiatico, in Indonesia, potrebbe fare ripartire i colloqui sul nucleare tra le due Coree, interrotti da circa tre anni. Il negoziato a sei, che oltre le due Coree comprende anche USA, Cina, Giappone e Russia, mira, come fine ultimo, a bloccare la proliferazione nucleare a scopo militare perseguita dalla Corea del Nord. La diplomazia internazionale non si è lasciata sfuggire l'occasione per fare riallacciare il dialogo che può risolvere una minaccia concreta in una zona nevralgica del mondo.
L'attivismo degli USA, che con Hillary Clinton ha trattato il tema con i più alti vertici cinesi, dimostra quanto Washington tenga alla risoluzione della vicenda, ponendo come condizione per la ripresa formale dei negoziati, il miglioramento delle relazioni tra le due nazioni della penisola coreana. In special modo a Pyongyang viene chiesto un cambio nel comportamento verso Seul e la fine delle provocazioni, come il bombardamento del territorio e l'affondamento della corvetta sud coreana avvenute nel 2010, quando, in seguito a questi fatti, si è più volte sfiorato il conflitto armato. Quello a cui mirano gli USA è una distensione a tutti gli effetti, che possa favorire il dialogo verso una definizione positiva, per la quale sono ritenuti essenziali presupposti chiari e lineari. Non è, purtroppo ancora così: la Corea del Nord starebbe preparando manovre militari, proprio nella zona calda del Mar Giallo ed inoltre è stato scoperto un sito per l'arricchimento dell'uranio, tuttavia per usi pacifici. Va anche ricordato che il regime di Pyongyang dal 2009 impedisce agli ispettori dell'AIEA di effettuare sopralluoghi ai siti nucleari. Nonostante questi presupposti negativi, i quattro paesi che partecipano ai negoziati non intendono lasciarsi sfuggire l'occasione per tenere in vita la speranza della risoluzione del problema, anche in forza delle sempre più difficili condizioni interne della Corea del Sud, dove la popolazione continua a patire le gravi condizioni economiche. Uno sblocco delle trattative potrebbe dirottare i fondi per la ricerca nucleare verso il miglioramento delle condizioni di vita dei nordcoreani, anche se questa opzione è ritenuta remota dagli stessi negoziatori.

mercoledì 27 luglio 2011

Tendenze attuali e possibili sviluppi dell'economia tedesca nella UE

La rigidità della Germania nei confronti dei paesi in difficoltà della zona euro, non è soltanto dettata dalla previdenza per il corso futuro dell'economia europea. In realtà uno dei fattori che concorrono a questa politica è dato anche dallo sviluppo dell'economia tedesca, che sta spostando sempre di più il baricentro lontano dal continente europeo. Per ora il fenomeno è in crescita, ma non rappresenta ancora l'aspetto maggioritario dell'andamento e la zona euro rappresenta ancora il mercato centrale per Berlino. Ma i dati indicano che in futuro questa centralità potrebbe cambiare, portando la Germania a concentrarsi in maggior misura oltre i confini europei. La tendenza è confermata dagli investimenti che la locomotiva europea, che ha ripreso a viaggiare in modo sostenuto, sta effettuando nei paesi che ritiene più stategici: Russia, Cina, India e Brasile, a discapito di Italia, Francia e Regno Unito. Anche politicamente non manca il sostegno di Angela Merkel, che è impegnata costantemente in prima persona a rappresentare gli sforzi del governo a favore dell'economia tedesca, sia in patria che all'estero. Quello che la Germania sta facendo è prepararsi al futuro, per superare la stagnazione dei mercati maturi per aggredire le opportunità offerte dai paesi in via di sviluppo. Se questa tendenza dovesse confermarsi si aprirebbero scenari futuri pieni di incognite sia per l'Unione Europea che, in misura maggiore la moneta unica. Pensare ad una UE senza la Germania appare poco probabile, il paese è sempre stato europeista convinto, tuttavia i travagli dell'euro hanno generato dubbi molto forti sulla convenienza della moneta unica. D'altro canto, oramai, pensare ad una forma di unione politica senza l'euro appare sostanzialmente difficile. Prima o poi il problema dovrà porsi, la Germania avrà sempre più potere economico per pretendere di avere sempre più peso nelle scelte economiche dell'Unione, a quel punto la suscettibilità di Francia e Gran Bretagna sarà senz'altro colpita e si può ragionevolmente prevedere che il processo decisionale avrà delle battute d'arresto. Spetta agli eurocrati prevenire questo intoppo, che come risoluzione presenta uno spettro di possibiltà negative che vanno dalla tutela tedesca su tutta l'economia della UE, fino ad una non augurabile uscita della Germania. Gli antidoti a queste possibilità sono una crescita, se non uniforme a quella tedesca, almeno sufficientemente grande per arrivare al tavolo delle trattative con argomenti che possano smorzare il potere tedesco; è una eventualità di difficile attuazione in questo momento economico, anche perchè l'industria europea, con tutti i distinguo del caso, non sta attuando la politica finanziaria e di marketing che può permettersi Berlino. Quale futuro allora? Appare più facile raggiungere intese sulla politica comunitaria e su aspetti quali la politica estera e la difesa che sugli aspetti economici, che saranno il vero nodo futuro sul quale si giocherà l'aggregazione europea. Se la Germania continuerà ad essere il motore economico europeo, sarà necessità di tutti gli stati membri che essa resti all'interno del recinto dell'Unione, cedendo quote di sovranità per quanto riguarda il governo dell'economia; stante così le cose il processo è irreversibile ed irrefrenabile, l'economia e la finanza della UE saranno affare tedesco, per gli altri membri si tratterà o meno di adeguarsi.

Xenofobia: Nord Europa sotto scacco

La tragedia di Oslo non ha colpito soltanto la Norvegia, improvvisamente si è destato il sentimento di paura in tutti i paesi nordici. Cultura e costumi simili, basati sulla tolleranza e su leggi ritenute avanzate si scontrano con il successo, comune a tutto il nord Europa dei gruppi dell'estrema destra, che incentrano la loro politica sull'esaltazione dei presunti valori cristiani, sono profondamente contrari all'immigrazione ed identificano il loro nemico principale nell'islam, visto come invasore ed inquinatore della cultura nazionale. Il fenomeno ha sviluppato caratteristiche simili in tutta la fascia dei paesi scandinavi, dove si è verificato il successo elettorale delle formazioni xenofobe. Ma la facilità con la quale l'attentatore di Oslo ha portato a compimento il suo piano, ha posto delle pesanti riflessioni, sia politiche, sia legislative che organizzative agli apparati statali del nord Europa. Il pericolo concreto di una legge lassista è diventato realtà in Danimarca, l'apertura tradizionale verso gli immigrati si è rivelata un boomerang per gli stessi cittadini danesi, vittime dell'avversione alla stessa legge che pareva preservarli, grazie a politiche di integrazione, dai fenomeni migratori distorti. Soltanto che la legge non ha previsto la falla creata all'interno del sistema. E' questo il grosso errore delle democrazie nordiche, non avere prefigurato che la corrosione partisse dall'interno del sistema. Nell'immediato si correrà ai ripari con norme tampone, come la regolamentazione della vendita dei fertilizzanti chimici, da cui ricavare facilmente ordigni potenti, ma la sensazione è di estremo spaesamento in tutta l'area nordica. La paura di una ripetizione di Oslo sembra avere paralizzato gli stessi apparati statali, inconsapevoli di sedere su di un potenziale esplosivo enorme. D'altronde la difficoltà di intervenire con normative più organiche è data dal fatto che in molte compagini governative sono presenti le stesse organizzazioni di estrema destra, che ostacolano materialmente il processo legislativo quando ravvisano aperture, secondo loro, lesive dell'identità nazionale. Il rischio è di una spaccatura insanabile all'interno delle società scandinave, che pare già avviata. La radicalizzazione delle posizioni di estrema destra, connotate dalla forte xenofobia appare incociliabile con il resto della società, tuttavia il clima di terrore, strategia comune nell'estrema destra di tutto il mondo, potrebbe generare nuovi e pericolosi equilibri.

martedì 26 luglio 2011

La xenofobia sintomo dell'occidente

L'attentao di Oslo e' solo l'ultima avvisaglia del pericolo xenofobia che mette a repentaglio l'intero globo. Stiamo vivendo in una epoca sempre piu' contrassegnata dallo sviluppo, a vari stadi, dall'esasperazione dei conflitti relativi alle differenze. Ci sono tante cause dietro questa situazione esplosa essenzialmente per ragioni economiche, ma che dietro ha un accumulo di tensioni, troppo sottovalutate. Fin che è stato valido l'equilibrio del terrore, basato sulla contrapposizione dei due blocchi est-ovest, detentori della forza atomica, tensioni di questo genere sono state soffocate da altri tipi di tensioni, prime fra tutte quelle politiche. Sono passati pochi anni, ma in realtà politicamente e socialmente è come se fosse trascorsa un'era geologica. Assetti ed equilibri ben definiti non erano incrinati da potenze emergenti, perchè di fatto assenti, e la stessa vita diplomatica correva entro binari già definiti e tracciati. Il problema migratorio era spesso contenuto entro confini di norma segnati da accordi internazionali, la durezza delle condizioni di vita era mitigata da forme di tutela che, pur nella loro freddezza, cercavano di assicurare le minime garanzie. Non che il razzismo e la xenofobia erano assenti, ma non erano certo organizzate in partiti, e meno che mai al governo. Uno degli effetti della caduta del muro di Berlino, poco indagato dagli specialisti è stata la relazione tra questo fatto ed il crollo dei partiti politici tradizionali, che con tutti i loro difetti, assicuravano un controllo nei confronti di eventuali sbandamenti dei loro iscritti, mantenendo anche un potere di indirizzo sui loro elettori. Anche dal punto di vista degli ordinamenti statali si è fatto ben poco per prevenire lo scenario attuale, senza intuire la portata degli effetti che poteva avere la sottovalutazione e la successiva mancata regolamentazione del fenomeno. In altre parole non si è dotata la società degli anticorpi necessari, mediante leggi e sufficienti ammortizzatori sociali, cioè un mix di misure di tipo politico e pratico, per prevenire la deriva verso una frammentazione sociale basata su territorio, religione ed in molti casi censo. L'assenza di norme, agli albori dei fenomeni migratori, che sapessero regolamentare gli accessi e l'integrazione ha poi rotto definitivamente il piccolo diaframma che collegava i nascenti movimenti localistici alla società nazionale. L'affermazione di questi movimenti, che si incentrano sul rifiuto dell'integrazione e del diverso, ha spesso inglobato elementi culturali estremi, giustificanti visioni di razzismo e xenofobia, molto pericolosi dal punto di vista sociale. Quello accaduto ad Oslo è sicuramente una delle punte massime che possano accadere, ma sottovalutarne l'impatto ed anche la possibile emulazione sarebbe da incoscenti. Oltre all'innalzamento dei dispositivi di polizia, occorre produrre una radicale conversione delle coscenze attraverso tutti le possibili strade, trascurate fino ad ora. E' ormai improcrastinabile una azione degli enti nazionali e sovranazionali che regolino con normative ad hoc e programmi di sostegno adeguati che determino la scomparsa, o almeno l'attenuazione delle cause della proliferazione dei fenomeni che costituiscono l'incubazione della xenofobia.