Politica Internazionale

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lunedì 5 settembre 2011

Per la NATO ancora lontano il momento di lasciare la Libia

La NATO non ha ancora in vista il ritiro dalla Libia. Il segretario generale dell'organizzazione atlantica, ha ribadito che il mandato è stato quello di proteggere i civili e la cattura di Gheddafi non costituisce l'elemento determinante per la fine della missione; anzi, nonostante l'ormai certa vittoria del CNT, la pericolosità per i civili non è cessata, data la ancora attiva presenza dei lealisti del rais. Rasmussen ha affermato che la NATO finirà il suo compito quando la popolazione civile non sarà più soggetta alla minaccia della violenza e quando un riesame completo della situazione consentirà di accertarne la sicurezza. Quello che il segretatio della NATO non ha detto che se la guerra libica seguirà lo schema iraqeno non serviranno più gli aerei ma le forze di terra. Quella che rischia di scatenarsi, infatti è una forma di guerriglia che può logorare il fragile potere del CNT. Risulta difficile credere che i lealisti si facciano da parte in modo subitaneo alla fine della guerra, non fosse altro che per proteggersi mediante il ricercare di mandare il paese nel caos. Gli interessi che ruotano intorno ai ricchi giacimenti del petrolio libico, inoltre rappresentano un fattore di potenziale destabilizzazione fin tanto che il CNT non avrà raggiunto un grado di penetrazione amministrativa sufficiente a controllare, non solo militarmente, la gran parte del territorio libico. Esiste poi la concreta possibilità da parte degli insorti di instaurare un clima di vendetta, che andrebbe, inevitabilmente ad intaccare la sicurezza dei civili. A sostegno di questa tesi esiste, peraltro, la preoccupazione dell'ONU, che ha pensato addirittura ad un impiego dei caschi blu come forza di polizia, per la grande diffusione delle armi leggere tra la popolazione, che costituisce un fattore aggravante dei pericoli potenziali per i civili. Verosimilmente per la NATO, ma non con l'aviazione, occorrerà aspettare l'esito elettorale in programma tra circa venti mesi e verificare gli assetti che ne risulteranno. Anche l'atteggiamento delle tribù, che fino ad ora ha costituito l'unico elemento di aggregazione sociale, sarà fondamentale per capire il momento dell'abbandono definitivo del paese.




Le navi militari turche potrebbero forzare il blocco di Gaza

Se il proposito della Turchia di fare affiancare le proprie navi umanitarie, dirette alla striscia di Gaza, dalle navi militari della propria marina, dovesse concretizzarsi, il pericolo di uno scontro armato con Israele avrebbe grandi probabilità di diventare concreto. Mai come ora Israele è davanti ad un bivio tanto pericoloso, o ricomporre la diatriba con Ankara o perseverare nella propria posizione. Va anche detto che alla Turchia potrebbe non bastare la sola ricomposizione diplomatica, ma potrebbe anche pretendere comunque, la rimozione del blocco navale dalla striscia di Gaza, come contropartita per la riparazione al precedente incidente. Se Israele, ormai di fatto isolato nella regione, dovesse restare arroccato sulle posizioni che prevedono il blocco navale di Gaza, è difficile prevedere le conseguenze del possibile scontro armato. Dal punto di vista militare occorre ricordare che la Turchia è membro NATO, quindi se attaccata tutta l'alleanza deve rispondere a fianco di Ankara, ma gli USA sono anche i principali alleati di Israele, ed entrerebbero in un delicato dilemma. L'ONU, che ha grande responsabilità sulla rottura diplomatica, per avere emesso una risoluzione pilatesca sui fatti della flottiglia, dove condannava l'azione israeliana, ma nello stesso tempo ne avvalorava la scelta di avere messo il blocco navale di fronte alla striscia come proprio diritto, è entrato in fibrillazione, e sta cercando in tutti i modi di scongiurare lo scontro. Tuttavia l'azione delle Nazioni Unite non sembra credibile alla Turchia proprio per non avere saputo dirimere la questione. Infatti il governo turco si è mosso verso la Corte di giustizia dell'Aja, dove ha presentato il quesito sulla legittimità, per il diritto internazionale, del blocco navale di Israele. D'altro canto la Turchia ha affermato che accetterà, quale sarà, il giudizio della corte. La probabilità di un giudizio favorevole ad Israele non appaiono, tuttavia, consistenti. Come sarà la reazione di Tel Aviv in caso sfavorevole? Esistono notevoli perplessità sulla flessibilità di Nethanyau, che rischia di trascinare il paese in un conflitto assurdo e che sta provando anche problemi notevoli di politica interna, peraltro già avezzo alle violazioni del diritto internazionale. L'unico intermediario valido per risolvere in qualche modo la questione, sembrano gli Stati Uniti, che già da tempo stanno monitorando la situazione. Washington non può perdere un alleato strategico come la Turchia, contro il quale non può agire militarmente per il vincolo NATO, ma non può agire neppure contro Israele. Una soluzione potrebbe essere appoggiare la richiesta turca di liberare Gaza dal blocco navale, rimettendo, ad esempio il controllo del contenuto degli aiuti per evitare il rifornimento di armi, ai caschi blu dell'ONU per un certo periodo e nello stesso tempo pressare Tel Aviv per accelerare il riconoscimento dello stato palestinese. Viceversa lo staff di Obama può cercare di convincere la Turchia a rinuciare ai suoi propositi, ma senza contropartite da offrire è praticamente l'impresa è praticamente impossibile. Si ritorna quindi al punto di cui sopra, senza un passo indietro di Israele si va incontro ad un destino pericoloso.

sabato 3 settembre 2011

Il mancato protagonismo della politica estera della Russia

La Russia contesta le sanzione della UE alla Siria. La politica estera russa fatica a trovare una via per essere di nuovo protagonista, come ai tempi del regime comunista e resta arroccata su posizioni poco flessibili. Il caposaldo della diplomazia di Mosca è la non intromissione negli affari interni dei paesi esteri, fattore che l'accomuna alla Cina, che peraltro risulta, invece molto attiva sul piano internazionale, grazie alla sua politica economica notevolmente espansionista. La Russia pare prigioniera dei vecchi fasti sovietici e non trova una via concreta per riaffermarsi. Persi i paesi del patto di Varsavia che hanno puntato ad ovest, la politica estera non ha più trovato una dimensione da grande potenza, restando per lo più confinata nei territori dell'ex impero sovietico. Anche sui grandi temi la Russia appare come attore marginale, sempre dietro gli USA, alla UE ed alla stessa Cina. Anche l'intervento sui fatti siriani non fornisce una impronta decisa in una direzione specifica. Tradizionale alleata della Siria, la Russia non approva le sanzioni al regime di Assad, che paiono, invece una risposta dovuta da parte della comunità internazionale alle violenze sui manifestanti, che hanno gettato il paese in un clima di terrore e repressione. Anzichè adoperarsi per un clima più disteso ed anche una eventuale transizione, proprio in virtù dell'influenza su Damasco, Mosca si limita a denunciare le sanzioni, che definisce unilaterali, perchè raramente risolvono qualcosa. In effetti, per ora, le sanzioni UE, non hanno prodotto una diminuzione dell'uso della forza da parte del regime, ma hanno avuto comunque il merito di focalizzare le violenze di Assad e ne sono l'esplicita condanna da parte di un soggetto internazionale. Il caso siriano rappresenta il chiaro esempio della decadenza dell'influenza di Mosca, che non riesce ad assumere una posizione di primo piano nell'agone internazionale, limitandosi ad interventi che sfiorano quelli di circostanza. A rafforzare questa visione vi è una assenza di importanza strategica del regime siriano per Mosca, per cui la mancata condanna di Assad denuncia una chiara volontà di mantenere un basso profilo. Una motivazione potrebbe essere quella di cercare una sorta di dialogo per favorire una fine della repressione, ma ciò non sembra essere vero, giacchè non si tratta di mediare tra due stati nemici, ma tra opposti schieramenti dello stesso stato. Un'altra ipotesi potrebbe essere approcciare il problema in maniera morbida per potere prevenire sviluppi come quello libico, soluzione peraltro meno probabile, per non essere coinvolti con un voto del Consiglio dell'ONU, dove l'astensione russa e cinese, data controvoglia, ha consentito l'intervento in favore dei ribelli. Questa soluzione potrebbe sembrare più verosimile perchè permette alla diplomazia russa una sorta di riorganizzazione, ipotesi supportata dalla sorpresa con cui Mosca si è accorta dei sommovimenti arabi. In effetti il fatto che la politica estera russa non stia vivendo i tempi attuali da protagonista genera più di una domanda ed una delle risposte più probabili è che la velocità della primavera araba, abbia colto di sorpresa la diplomazia di Mosca, obbligandola ad un ripensamento ed una riorganizzazione necessaria per affrontare le prossime sfide.

venerdì 2 settembre 2011

La Turchia espelle l'ambasciatore israeliano

La decisione di espellere l'ambasciatore israeliano ad Ankara da parte del governo turco segna il picco negativo delle relazioni tra i due stati. Questo fatto apre alcune questioni che si rifletteranno sul panorama diplomatico internazionale. Il primo riguarda la virata turca verso l'area araba; dopo il mancato ingresso nella UE, la Turchia si è ritagliata una posizione di primo piano, innazitutto, nella regione, con prospettive di espansione ulteriore. Recidere del tutto gli accordi con Israele significa dare una accelerata significativa a questo processo; pur non pronunciandosi mai contro Tel Aviv per la questione palestinese, la Turchia, con questa mossa, generata dall'episodio della flottilla, si schiera apertamente contro lo stato israeliano ed implicitamente a fianco dei palestinesi. La fine della cooperazione, sopratutto militare tra i due stati, determina un ancora maggiore isolamento dello stato israeliano, che ormai non può contare nemmeno più sull'Egitto, dei paesi confinanti i rapporti normali sono ormai solo con la Giordania. Il secondo fattore riguarda la NATO, dalle basi turche sono spesso partiti aerei per colpire i nemici di Israele, con queste premesse è difficile che Ankara conceda ancora il proprio territorio per missioni aventi come obiettivo la protezione, preventiva o no, dello stato della stella di David. Non si tratta di un impedimento da poco, in caso di emergenza il quadro tattico previsto per eventuali conflitti su Israele deve essere totalmente rivisto e riorganizzato. Il terzo fattore riguarda ancora la NATO e gli USA: pur non essendo Israele membro dell'Alleanza atlantica, il rapporto privilegiato con gli USA, principale membro della NATO, mette in difficoltà Washington, che, tra l'altro, premeva da tempo per una riconciliazione tra i due stati, giudicati fondamentali per la politica internazionale degli Stati Uniti. Il progressivo deterioramento delle relazioni bilaterali non potrà coinvolgere anche la diplomazia USA, che dovrà, giocoforza, essere sottoposta a forti pressioni, per uscire dalle quali potrebbero non bastare i soliti equilibrismi politici. Infine, se la Turchia ha trovato una propria dimensione puntando verso est, Israele si sta condannando sempre più all'isolazionismo, un alleato come la Turchia non è solo difficile da rimpiazzare è impossibile e non avere fatto di tutto per recuperare il rapporto rappresenta un errore politico da dilettanti. Purtroppo non è il solo, la politica del governo israeliano in carica sta condannando il paese ad un futuro prevedibilmente sempre più difficile, insistendo su di una rigidità assolutamente improduttiva e pericolosa per la pace nella regione.

Un nuovo ruolo per l'ONU

L'assemblea dell'ONU ha risolto con una decisione pilatesca la questione delle flottilla turca, conclusasi tragicamente, davanti a Gaza. Israele è stato ammonito per il proprio comportamento violento, ma il blocco navale della striscia è stato ritenuto legittimo. Ancora una volta le Nazioni Unite hanno perso una buona occasione per legittimare la propria funzione, non assumendo una posizione chiara neanche in una occasione come questa dove la violenza è stata un dato di fatto. L'ambiguità della condotta dell'ONU non porta valore aggiunto ad ogni interrogativo che si presenta sulla sua strada. Senza scelte nette ed una politica definita lo strumento Nazioni Unite perde tutto il suo valore diventando soltanto un ulteriore orpello alle situazioni più intricate. Il caso israeliano è esemplificativo, il mancato contributo dell'ONU, come organo imparziale, ha una grossa parte della responsabilità della mancata definizione del problema. La vecchia legislazione conseguente alla fine della seconda guerra mondiale non permette più risposte adeguate ai tempi; le regole che possono bloccare il Consiglio di sicurezza devono essere superate perchè, di fatto, paralizzano l'attività delle Nazioni Unite. Il primo punto su cui agire è creare una indipendenza effettiva dell'intera organizzazione, dotandola di strutture diplomatiche e militari proprie; ma l'indipendenza funzionale è niente senza un nuovo regolamento che ne sancisca l'autonomia politica dagli stati. Infatti quello che deve essere ripensato e ricostruito deve essere proprio il rapporto con gli stati che deve diventare alla pari e super partes. I vincoli con le nazioni sono troppo pressanti e troppo condizionanti e non permettono il giusto esercizio per cui le Nazioni Unite sono state create. Peraltro la definizione dei ruoli e dei compiti deve essere ricodificata in risposta alle mutate esigenze della nazione mondiale. Ma senza un accordo tra gli stati percorrere queste soluzioni è impossibile, i singoli interessi paiono un ostacolo insormontabile ad una riforma che punti a benefici generali. Il problema è definire questi interessi, e riconoscersi con essi: la pace mondiale, la diffusione del benessere, l'istruzione e la conoscenza, la sanità e la salute, il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo e delle collettività. Senza avere una comune idea sulla necessità per il mondo intero di questi valori l'esistenza stessa dell'ONU è un dubbio non chiarito.

giovedì 1 settembre 2011

Il petrolio dietro alla guerra libica

Esisterebbe la prova tangibile che la Francia ha condotto la guerra libica per accapparrarsi il 35% della produzione totale, circa 44 milioni di barili, del greggio di Tripoli. Si tratterebbe di un accordo risalente al 3 aprile, scritto in arabo ed arrivato al governo del Qatar, che ha fatto da intermediario tra le forze estere avverse a Gheddafi e gli insorti. Si è parlato più volte di guerra del petrolio, una replica in scala minore della guerra iraqena, tuttavia le ragioni addotte più volte sono state la necessità di una Libia libera e democratica, con un regime stabile ed affidabile con il quale trattare in modo leale. La necessità, in effetti, di un paese con queste caratteristiche sulla sponda sud del Mediterraneo si era resa necessaria da tempo, a causa dei comportamenti sempre più arroganti e bizzarri del colonnello, invero mai osteggiati e sempre consentiti, se non favoriti. Ma nonostante queste ragioni, peraltro evidenti e pienamente condivisibili, il sospetto che dietro il dispiegamento, partito proprio da Parigi, ci fossero grandi interessi petroliferi. Non che la Francia sia la sola ad essersi mossa da questi presupposti, probabilmente, per ora, è la sola ad essere scoperta. Meglio sarebbe stato non nascondersi dietro l'intervento umanitario ma coniugarlo apertamente con le necessità politiche ed anche quelle economiche. In fondo la Libia è un esportatore di petrolio, la Francia ed anche l'Italia ne sono consumatori e Tripoli è il venditore più vicino. I due stati hanno anche l'interesse ad avere un vicino stabile, la decisione di appoggiare i ribelli sarebbe stata pienamente condivisibile mettendo nelle ragioni dell'intervento anche le cause economiche. Anche dal punto di vista del diritto internazionale scegliere di appoggiare i ribelli, in quanto rappresentanti della popolazione oppressa, mettendo in chiaro gli accordi non avrebbe costituito una infrazione. Invece l'ipocrisia della diplomazia e dell'agire diplomatico hanno, alla fine, scoperto il segreto di Pulcinella: un normale do ut des che è convenuto a tutti.

Dall'Austria venti di scisma per la chiesa cattolica

Arriva dalla mitteleuropa la contestazione alla chiesa cattolica. In Austria si sta sviluppando un movimento che richiede di variare alcune norme che regolano la vita del clero. Ben 329 preti hanno lanciato una vera e propria "chiamata alla disobbedienza", con la quale si rivendica il matrimonio dei sacerdoti, l'ordinazione femminile, una revisione sulla posizione della chiesa sul tema dei divorziati, fino alla possibilità per i laici di guidare le parrocchie.
Secondo un sondaggio effettuato nei gironi scorsi in Austria circa il 76 % degli interpellati vede con favore le rivendicazioni dei ribelli cattolici. Questo movimento crea profonda apprensione nelle gerarchie cattoliche, tanto che il teologo Zulehner ha richiesto alla chiesa cattolica di dare risposte in breve tempo, per evitare un eventuale scisma. La questione è delicata, la chiesa non può non tenere conto delle istanze modernizzatrici provenienti sia dai fedeli, che dallo stesso clero. Quello messo sul piatto dai "ribelli" austriaci è probabilmente troppo per la chiesa romana guidata da Ratzinger, tuttavia non può che avviare una discussione su temi che stanno diventando sempre più attuali per tutto l'insieme del cattolicesimo caratterizzato, ormai, da una struttura gerarchica e sociale ingessata ed ormai inadatta a fornire risposte sia al clero che ai fedeli. La crisi delle vocazioni, del seguito dei fedeli, che normalmente non sono i festanti ragazzi delle giornate della gioventù, che non si riconoscono più in una forma esteriore e talvolta falsa, il distacco delle gerarchie dai problemi sociali ed infine il problema della pedofilia hanno generato un malcontento diffuso, che in Austria ha preso una piega che non pare facilmente risolvibile. In casi del genere le risposte del Vaticano sono di rigida chiusura, ma in questo caso non proporre qualche apertura potrebbe rivelarsi controproducente. Le argomentazioni del leader dei sacerdoti rivoltosi Helmut Schuller, sono, per molti versi inappuntabili, in quanto le richieste, per lo meno su diverse questioni, sono solo di ratificare dei dati di fatto ben conosciuti alle gerarchie. Non è un mistero che la politica della chiesa cattolica su casi giudicati spinosi, come relazioni affettive o sessuali da parte di sacerdoti, sia quella di ridurre la cosa al silenzio per non destare scandalo nei fedeli, trattando la cosa in modo ipocrita. Mentre in altre confessioni cristiane l'adeguamento ai più moderni usi sociali non è stato un problema, nella chiesa cattolica si è insistito su di una via ormai anacronistica, che, tra l'altro, non tiene conto della funzione femminile nella struttura, se non in modo marginale; mentre in altre confessioni la donna è parificata all'uomo nel servizio alla chiesa, Roma, pur affermando dichiarazioni di principio, vuote nel loro significato pratico, insiste nel tenere un ruolo subordinato alle donne nelle funzioni e nella gerarchia. Non vi è dubbio che se la protesta dovesse uscire dai confini austriaci potrebbe venirsi a creare una spaccatura in seno al cattolicesimo tra chi è maggiormente sensibile alle istanze di modernizzazione della chiesa e la parte più conservatrice; quello che potrebbe avvenire è in sostanza una divisione tra alto clero ed una parte minoritaria dei fedeli e basso clero ed una parte maggioritaria dei fedeli, sopratutto quelli proiettati verso una chiesa più attuale.
Mai come in questo momento, con le grandi masse di popolazione, che si dicono cattoliche, che subiscono le ingiustizie dei mercati finanziari ed hanno sempre più sete di giustizia sociale, una proposta come quella austriaca potrebbe fare breccia. Per il Vaticano una sfida da non sottovalutare assolutamente pena una consistente perdita di importanza e di influenza.