Politica Internazionale

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lunedì 3 ottobre 2011

Gli USA preoccupati per la situazione yemenita

La situazione nello Yemen si sta sempre più aggravando. Il vuoto di potere apertosi per la lotta al presidente in carica, genera delle possibilità, nelle zone più remote, per i gruppi armati presenti sul territorio. In special modo si è mossa Al Qaeda, nella regione di Zinjibar, dove la città è sfuggita al controllo delle forze governative. Nei violenti combattimenti si sono registrati diversi morti. Anche nella capitale si sono sviluppati scontri, ma questa volta tra diversi reparti dello stesso esercito yemenita, in particolare tra i reparti corazzati della prima divisione guidati dal generale Ali Mohsen al-Ahmar dissidente , e le forze di sicurezza centrale, fedeli al presidente Ali Abdallah Saleh. La situazione preoccupa gli Stati Uniti, da lungo tempo impegnati nella lotta contro i terroristi islamici, che godono della protezione assicurata dal territorio per le loro basi, nelle zone più remote del paese.
L'alleanza con il regime yemenita è considerata fondamentale per il proseguimento della guerra alle formazioni integraliste, tuttavia la diplomazia sotterranea USA, cerca di favorire una transizione verso un governo comunque favorevole ai propri scopi, concordando, tra l'altro, una risoluzione, con altri paesi occidentali, al COnsiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in modo da aumentare la pressione internazionale sul presidente temenita Saleh, che, sebbene al potere da 33 anni, rifiuta le dimissioni, che permetterebbero un allentamento della tensione nel paese.

La tattica preventiva di Cameron

Le dichiarazioni del premier inglese Cameron sull'euro denotano l'ennesimo tentativo di gettare su altri le proprie responsabilità. Il livello del debito pubblico inglese è a livelli record, tanto che alcuni osservatori lo hanno paragonato a quello greco, ed una delle cause sono i massicci investimenti pubblici per salvare le banche inglesi, sull'orlo della bancarotta per azioni finanziarie speculative spericolate ed andate molto male. Londra è il centro della finanza europea, il motore borsistico del continente, sentire delle critiche sull'euro da chi dovrebbe governare il sistema, preservandolo da speculazioni dannose per il sistema ed i risparmiatori non può che fare sorridere. Ma la mossa di Cameron pare un gridare al lupo ancora prima che la bestia sia arrivata. L'impressione è che il premier inglese stia preparando il terreno a qualcosa che sta per avvenire. Per la sterlina fino ad ora l'euro è stato uno scudo, seppure involontario, la speculazione ha attaccato la divisa comune tralasciando di focalizzarsi su altre divise, ma l'accordo favorito dalla Germania per il salvataggio della Grecia e la creazione del fondo salva stati ha smorzato la pressione speculativa sulla moneta unica europea. Con questo non è che i movimenti speculativi si sono arrestati e la sterlina potrebbe entrare nel mirino, proprio a causa degli alti valori del debito pubblico e dell'esposizione ancora consistente del sistema bancario, tra l'altro con una struttura ed una importanza ben maggiore di quello italiano o, addirittura, francese. Se la sterlina dovesse entrare nell'orbita speculativa in maniera massiccia per il premier inglese sarebbe difficile uscirne senza pagare un tributo elevato, sia in costi economici che sociali. Il Regno Unito è però già attraversato da tensioni sociali elevate, frutto di una politica economica che ha colpito in maniera indiscriminata i ceti medi, abbassandone sostanzialmente il reddito in maniera consistente; questo fattore si unisce alla elevata diseguaglianza sociale, percepita in modo molto netto dalle giovani generazioni. Il piano di risanamento messo in piedi dal governo ha destato, quindi molto scontento nell'opinione pubblica inglese e pare avere dato fondo a tutte le possibilità previste per non forzare ulteriormente le situazione. Ma il piano è stato elaborato prima dell'attacco speculativo all'euro ed il pericolo di un eventuale speculazione sulla sterlina non era minimamente contemplato. Se la situazione dovesse mutare per Cameron sarebbe un grosso problema affrontare la situazione, ed ecco, quindi la tattica preventiva di gettare la croce addosso all'euro. La manovra, oltre ad essere irresponsabile dal lato della ripercussioni che può avere sulle borse, rimarca lo strisciante anti europeismo del governo inglese in carica. Sarebbe opportuno che Bruxelles facesse sentire la propria voce per smorzare certe voci, con sanzioni di richiamo. Inoltre occorrerebbe avviare una nuova fase dell'Unione Europea, che preveda una ridiscussione dei principi di adesione, chi non sta nell'euro non dovrebbe stare neanche nell'unione politica, non ha, infatti, alcun senso proseguire su questa via poco chiara che non produce che confusione e conflitti che danneggiano sia l'unione monetaria che quella politica.

venerdì 30 settembre 2011

Il Parlamento europeo chiede ai 27 un'azione unitaria per la Palestina

Il Parlamento europeo ritiene legittima la richiesta della Palestina di essere riconosciuta come uno stato sovrano. Pur individuando la necessità di tutelare Israele, il Parlamento europeo ritiene una necessità ed uno sbocco naturale la nascita dello stato palestinese, anche in ottica della necessaria pacificazione internazionale, intesa come risultato della ripresa delle trattative. La dignità di stato da riconoscere ai palestinesi, per il parlamento europeo deve comunque rientrare nel naturale alveo negoziale presso l'Assemblea Generale dell'ONU. Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza una mozione in cui viene espressamente chiesto ai ventisette governi che compongono la UE, di tenere una posizione comune, che eviti divisioni di fronte al panorama internazionale, rispetto a quanto più volte ribadito dalla UE, attraverso la rappresentante per la politica estera Catherine Ashton, circa la legittimità del principio che prevede i due stati sulla base dei confini del 1967, con capitale Gerusalemme. Il testo elaborato dal Parlamento europeo contiene una indicazione importante circa la necessità dell'autodeterminazione del popolo palestinese ed afferma l'indiscutibilità del diritto di avere un proprio stato sovrano. In quest'ottica rientra anche la richiesta al governo israeliano di bloccare nuovi insediamenti nei territori palestinesi, per facilitare il processo di pacificazione. La richiesta di unitarietà di azione fatta ai governi UE, rientra anche nel tentativo di fare riprendere quota alla stessa UE nei negoziati di pace, anche alla luce degli sviluppi portati dalla primavera araba. In conclusione l'intenzione del Parlamento europeo è quella di consentire, grazie ad una azione compatta e condivisa, di sfruttare l'occasione della richiesta per il riconoscimento dello stato di Palestina, per potere incidere da protagonista nel processo di pace.

giovedì 29 settembre 2011

USA e Pakistan ai ferri corti

I rapporti tra USA e Pakistan subiscono un peggioramento. Gli USA hanno esplicitamente accusato Islamabad di avere contati con la rete Haqqani, terroristi islamici legati ai talebani, attraverso i quali il Pakistan cerca di estendere la propria influenza verso l’Afghanistan. Al di la delle dichiarazioni di rito, che parlano di rincrescimento per la posizione di Washington, Islamabad è stata chiara, gli USA non devono toccare i membri della rete Haqqani, pena la messa in discussione dell’alleanza. L’atteggiamento USA va, però, nella direzione contraria, senza un intervento pakistano gli USA procederanno in modo unilaterale. La minaccia è da considerarsi reale, già nell’occasione dell’eliminazione fisica di Bin Laden, le forze armate americane hanno operato, senza avvertimento e senza consenso, sul suolo pakistano, proprio perchè non si fidavano dei servizi segreti di Islamabad. La questione tra i due paesi si trascina da tempo, tanto che le posizioni ufficiose degli alti gradi militari sono diventate ormai note, l’affidabilità del governo pakistano è per le forze armate americane ai minimi storici. Il sospetto più grave di Washington è che il Pakistan ritenga il governo afghano ed il sistema democratico costruito dagli USA molto deboli e su cui graverebbe il pericolo di una caduta nel momento in cui le forze NATO abbandoneranno il terreno.
Nel verificarsi di questa evenienza il Pakistan potrebbe estendere la sua influenza sul paese afghano mediante l’alleanza con i talebani. Dietro a tutto sembra stagliarsi il profilo della Cina, che ha di fatto, sostituito gli USA come partner comerciale e forse anche politico. Il Pakistan ha già parlato più volte in dichiarazioni ufficiali di Pechino come amico principale della nazione. L’espansionismo cinese dettato dalla fame di nuovi mercati, ma anche di nuova manodopera ha individuato nelle zone di Pakistan ed Afghanistan dei territori strategici, sopratutto nell’ottica della competizione con l’India. La Cina punta così a circondare il suo più pericoloso concorrente cercando di fargli terra bruciata attorno. Con l’alleanza con Pechino, Islamabad si sente più forte nei confronti degli USA e si permette anche sgarbi diplomatici come non presenziare a riunioni sul tema del terrorismo. Nonostante tutto gli USA tengono a freno l’irritazione, giacchè ritengono che la lotta al terrorismo internazionale si vince proprio tra Afghanistan e Pakistan, tuttavia, se possono contare sulla lealtà del governo di Karzai, nel tempo i sospetti sul Pakistan si sono, forse, troppo acuiti tanto da fare diventare Islamabad più che un potenziale avversario. Se l’attuale situazione tra i due stati non vedrà progressi nella distensione, con fatti concreti da parte dal Pakistan, la situazione è destinata a peggiorare molto e gli eventuali sviluppi potrebbero fare rivedere i piani di rientro delle forze armate USA dall’Afghanistan. Infatti senza più l’appoggio del Pakistan, che a questo punto potrebbe diventare addirittura un nemico, gli Stati Uniti dovrebbero, per forza di cose, mantenere numerosi effettivi per presidiare la lotta al terrorismo islamico in maniera efficace.

Tra la Serbia e la UE c'è l'ostacolo Kossovo

Per la Serbia l'entrata nella UE appare sempre più difficile. Malgrado gli sforzi sostenuti dal governo di Belgrado, per assicurare alla giustizia internazionale i criminali serbi della guerra seguita alla dissoluzione della Jugoslavia, la questione del Kossovo rappresenta ora l'ostacolo più difficile da superare. La strategia degli estremisti serbi, che si richiama ad una anacronistica ricostruzione della grande Serbia, tiene in ostaggio lo sviluppo economico e diplomatico del paese. Per la verità sulla questione del Kossovo le ragioni degli estremisti riscuotono parecchio successo entro i confini legali serbi. La popolazione ritiene l'indipendenza del Kossovo una violazione del proprio territorio ed in parte giocano anche motivi di rivalsa contro l'occidente, verso cui, malgrado tutto, non sono del tutto cancellate le avversioni per l'embargo economico ed i bombardmenti NATO. Gran parte del paese vive come l'ennesima ingerenza negli affari interni dello stato, il riconoscimento, che gran parte dell'opinione pubblica internazionale, ha regalato al Kossovo. In questo gli estremisti serbi hanno gioco facile ha fomentare la piazza, così facendo, però, vanno contro le legittime aspirazioni del paese a fare parte dell'Unione Europea. Come ha detto la cencelliera tedesca Merkel, sempre più leader in pectore della UE, se la Serbia non muta atteggiamento verso la questione kosovara, l'ingresso a Bruxelles le è precluso. Tuttavia anche nella stessa UE non vi è unanimità nella direzione enunciata dalla Germania, infatti sono ben cinque i paesi UE che non riconoscono il Kossovo. La questione, insomma resta fluida, anche se, a ben vedere, il Kossovo è soltanto una questione accessoria nella pratica Serbia, quello che preoccupa ben di più è il peso, sempre importante, che la stessa idea nazionalista, ben rappresentata dai movimenti estremisti, ha all'interno del paese. La vera preoccupazione della UE è quella di non portare al suo interno un paese ancora attraversato da tensioni profonde, che non ha saputo superare i conflitti al suo interno e che potrebbe costituire un serbatoio consistente di potenziali fonti di destabilizzazione. Peccato perchè dal punto di vista economico, la Serbia rappresenta un affare da ambo i lati, il paese è in crescita e già costituisce un buon mercato, praticamente dentro l'Europa e dispone di manodopera ad un costo contenuto ma molto specializzata: i presupposti quindi, da questo lato, ci sono tutti per entrare nella UE; quello che manca è una stabilizzazione politica ed una convinzione, più che altro, verso l'Europa, da parte di tutto il corpo sociale del paese, ceh deve rebdersi disponibile ad accettare le regole comuni e la visione europea, superando di slancio ataviche convinzioni, ormai superate dalla storia.

mercoledì 28 settembre 2011

Il problema del lavoro nodo essenziale da sciogliere

Secondo l'OCSE i disoccupati nel mondo sono intorno a 200 milioni di persone, di cui almeno 30 milioni hanno perso il lavoro negli ultimi due anni. Le prospettive per il breve periodo sono altrettanto disastrose, la crisi economica che attanaglia il pianeta rischia di erodere ulteriori posti di lavoro, riducendo ancora la possibilità di impiego. Le implicazioni di questo dato allarmante rischiano di deprimere ancora di più l'economia soffocando i consumi. Quello che si può avverare, se non si inverte la rotta, è un avvitamento definitivo dei consumi in grado di affondare del tutto le speranze di ripresa. Questa analisi, pur essendo a livello macro economico, indica il bisogno di un intervento strutturale che corregga il dato della disoccupazione al più presto. Inoltre le conseguenze sociali, indotte da un regime di mancanza di lavoro giunte ad un profondo grado di diseguaglianza, rischiano di fare partire pericolosissime tensioni sociali, che una volta innescate potranno essere gravide di problematiche difficilmente gestibili. L'allargamento della forbice tra ricchissimi e poveri si è dilatato in maniera abnorme, anche in ragione dell'impoverimento dei ceti medi e medio bassi, su cui gravano le politiche fiscali, sempre più vessatorie degli stati, costretti a fare fronte a debiti sovrani sempre più alti e particolarmente colpiti dalla diminuzione dei posti di lavoro. Il problema va affrontato a livello mondiale, è necessaria una coordinazione che indirizzi le risorse opportunamente accantonate per lo sviluppo dei posti di lavoro. La sconfitta della disoccupazione deve essere pianificata attraverso obiettivi certi e raggiungibili, ad esempio con un solo incremento di 1,3 punti percentuali si potrebbe tornare al livello occupazionale pre crisi entro il 2015. Devono essere elaborate strategie comuni tra i governi, che diano la priorità al lavoro reale contro quello effimero della finanza, sulla quale devono agire leve fiscali per reperire le risorse che possano permettere l'incremento dell'occupazione. Ridurre l'importanza della finanza deve essere un obiettivo primario per dare la giusta importanza al lavoro tangibile, mediante il quale assicurare un livello stabile dell'occupazione. La sfida per il rilancio dell'economia non può non passare attraverso la sconfitta della disoccupazione.

Israele insiste con le colonie nei territori

L'idea di autorizzare nuove colonie presso Gerusalemme est, eletta a propria capitale dai palestinesi, costituisce l'ennesimo passo falso dello stato israeliano. Perfino gli Stati Uniti hanno rotto il loro, ormai tradizionale riserbo, che stanno tenendo per le questioni israelo palestinesi, manifestando profonda contrarietà, attraverso le parole di Hillary Clinton. Benjamin Netanyahu insiste nella politica del doppio binario: parole misurate di fronte all'opinione pubblica internazionale, che propongono il riavvio degli eterni negoziati, ma fatti discordanti con quanto pronunciato, concedendo ai coloni sempre nuove opportunità di ampliare gli insediamenti. Obama fino ad ora ha tenuto un atteggiamento prudente, pur non condividendo intimamente l'attuale politica del governo israeliano, ha dovuto mantenere un atteggiamento di facciata per tutelare l'alleanza con Tel Aviv, anche in ottica elettorale. Tuttavia è evidente che la freddezza caratterizza l'attuale fase dei rapporti tra USA ed Israele. Nonostante queste cautele, caratterizzate dai profondi silenzi americani, la reazione USA al benestare per i nuovi insediamenti, segna un punto di svolta nell'atteggiamento americano. L'impressione è, che questa volta Israele abbia tirato troppo la corda, generando una reazione chiaramente inconsueta. Non si capisce, specialmente in questa fase cruciale, caratterizzata dalla richiesta del riconoscimento dello stato palestinese all'ONU, quale sia la strategia di Tel Aviv. Israele, infatti, è rimasto isolato nella regione e le simpatie che riscuote sul piano internazionale sono sempre meno; se l'attrito strisciante con l'amministrazione USA dovesse prendere una via più marcata, il problema per Tel Aviv sarebbe gestire un isolamento ancora più marcato. Netanyahu, probabilmente da per scontato che gli USA non abbandoneranno mai Israele e questo dovrebbe essere certo, ma anche in un quadro di alleanza vi sono gradi diversi. Se gli USA si stancano di vedere vanificati i propri sforzi, sotterranei per non urtare la suscettibilità degli israeliani, a causa del comportamento scorretto del governo di Tel Aviv, possono adottare un diverso atteggiamento, con una gamma estesa di conseguenze che possono andare ad esercitare una pressione, anche consistente su Israele. E' chiaro che la tattica del governo israeliano, che gran parte della popolazione non condivide, è di impiantare la maggior parte di insediamenti possibili sui territori palestinesi, per poi trattare, se mai si tratterà, da posizioni di forza, ancorchè illegali. La valutazione sulla bontà di questa tattica tiene conto di soli elementi interni, tralasciando gli effetti diplomatici che verranno e vengono provocati. Ma a questo punto devono essere gli USA e l'ONU a prendere in manola situazione e costringere, per il suo stesso interesse, Israele a cambiare atteggiamento sopratutto con i fatti.