Politica Internazionale

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venerdì 7 ottobre 2011

La Russia preoccupata per i missili USA in Europa

La Russia guarda con preoccupazione agli sviluppi tattici dello scudo spaziale che gli USA stanno incentrando in Europa. L'episodio che ha fatto innalzare la tensione è l'accordo tra USA e Spagna per l'uso della base navale di Rota da parte di quattro navi da guerra della marina statunitense. La Russia vive come un accerchiamento gli impianti missilistici americani presenti in Europa e giudica un pericolo per la stabilità continentale la mancanza di accordi condivisi tra tutti i paesi interessati dal raggio di azione dello scudo spaziale. L'aumento del potenziale missilistico degli USA in Europa, è il vero nodo della questione. Mosca vede variare gli equilibri a suo sfavore a pochi chilometri dalle sue frontiere e pur non essendo in corso con gli USA alcuna diatriba, vuole preservare la sua capacità offensiva ed anche difensiva, senza che queste siano messe in discussione da mutati rapporti di forza. In parte si può ascrivere questo timore ad un retaggio proveninente ancora dalla vecchia contrapposizione est-ovest, di cui l'URSS era uno dei due poli centrali. La nostalgia dell'impero sovietico, per lo meno sul tema della politica estera e della difesa, è sempre presente sia nella classe dirigente che nella popolazione russa ed è una leva da usare quando si è in crisi di consensi. Tuttavia ciò non basta a spiegare l'allarmismo russo, occorre anche considerare la situazione geopolitica di Mosca, che si trova un poco al margine delle grandi decisioni internazionali. Sorpassata dal crescente attivismo cinese, che usa l'espansione economica come vettore per aumentare il proprio peso politico, e fuori dall'asse decisionale USA-UE, Mosca non riesce a riprendere il ruolo che aveva negli anni '80 dello scorso secolo, pur avendo ancora potenzialità da grande potenza. Ma la Russia paga la scarsa influenza che può vantare sul resto del mondo, non ha saputo mantenere gli stretti legami con le repubbliche nate dalla disgrgazione dell'URSS, se non per pochi stati satelliti e non ha saputo neppure allargare la propria influenza verso quei paesi emergenti, che potevano avere bisogno di un alleato forte per portare avanti le proprie politiche. La Russia si trova così a dovere soffrire per un senso di inferiorità sul proprio continente, tuttavia è pur vero che la capacità dei missili americani presenti in Europa sarebbe in grado di garantire di colpire in maniera significativa il territorio russo. Sarebbe questa una occasione per ridiscutere degli armamenti presenti sul suolo del vecchio continente, per ripensare un diverso approccio, che preveda un sempre minore impiego di questi armamenti di dissuasione.

L'UNESCO riconosce il diritto alla Palestina di essere uno stato

L'UNESCO riconosce a maggioranza, 40 voti su 58, il diritto della Palestina ad essere riconosciuto dall'ONU come 194° stato delle Nazioni Unite. Dei diciotto mancati consensi, soltanto quattro paesi hanno votato espressamente contro: USA, Germania, Romania e Lettonia, mentre quattordici sono state le astensioni, tra cui si contano Francia e Spagna. L'Europa, quindi, continua a non avere una posizione univoca sulla questione, se non quella della necessità di riprendere i negoziati. E' una posizione pilatesca, che rimanda ad altri la gestione della questione e non favorisce quel ruolo di preminenza internazionale che la UE vuole darsi. Del resto sono proprio posizioni come quella europea e di molti paesi che compongono la stessa UE, ad avere costretto i dirigenti palestinesi a muoversi autonomamente verso la richiesta del riconoscimento internazionale, quale extrema ratio del blocco dei negoziati, di fatto imposti dal governo israeliano ed avallati dalla pochezza della diplomazia USA. Con il riconoscimento dell'UNESCO, agenzia ONU per l'educazione, la scienza e la cultura, la Palestina continua la sua manovra di accerchiamento diplomatico di Israele, costretto a mandare giù bocconi sempre più amari sul piano internazionale. Gli USA, sempre più in ostaggio dell'elettorato ebraico, contestano con fermezza, per mezzo di Hillary Clinton, la decisione dell'UNESCO, e continuano nella loro linea che non prevede uno stato palestinese senza negoziazione, ma di fatto, non esercitano la loro influenza sul governo israeliano per la ripresa delle trattative, che Tel Aviv, peraltro, vuole solo a parole, continuando ad permettere l'instaurazione di nuove colonie in Cisgiordania. Per come si sta evolvendo la situazione non si può non dare ragione ad Abu Mazen per la sua tattica pacifica ed efficace capace di portare all'attenzione del mondo il problema palestinese, alla fine è palese che per i palestinesi è l'unica soluzione praticabile.

mercoledì 5 ottobre 2011

Per Erdogan Israele ha l'arma atomica

Erdogan sceglie di tenere alta la tensione tra il suo paese ed Israele. Infatti ha dichiarato che lo stato israeliano rappresenta una minaccia per la regione, dato che possiede la bomba atomica. Israele non ha mai confermato ne smentito di essere una potenza nucleare, tuttavia è ragionevole credere che le sue forze armate siano dotate di testate atomiche. L'assetto geopolitico della regione, da sembre in bilico e poco stabile ha senz'altro favorito, nel quadro dell'alleanza con gli Stati Uniti, la dotazione di testate atomiche, anche alla luce dei progressi iraniani sulla ricerca nucleare e delle ripetute minacce di Teheran verso Israele, divenute oramai caposaldo della politica estera del paese degli ayatollah. La denuncia di Erdogan ha una sua logica, sia nei modi, che nei tempi. Sulla veridicità della dichiarazione del primo ministro turco non paiono esserci dubbi: la Turchia è un componente fondamentale della NATO per la regione e fino a poco tempo prima era uno dei maggiori alleati di Israele, con il quale intratteneva e sviluppava rapporti militari, sia strategici che tecnologici, quindi Erdogan parla con cognizione di causa sulla presenza di testate atomiche nel paese della stella di David. Fare in questo momento questa affermazione pone Israele in una ulteriore cattiva luce che potrebbe accentuarne l'isolamento e le difficoltà generate dal processo di riconoscimento dello stato palestinese alle Nazioni Unite. Erdogan con questa dichiarazione schiaccia il piede sull'acceleratore della battaglia diplomatica contro Israele, innescata dalla vicenda della flottiglia per gli aiuti a Gaza e crea non pochi problemi alla diplomazia USA, impegnata a ricucire, peraltro senza successo, il grave strappo.

La complicata situazione afghana verso la pace

La pace in Afghanistan diventa un problema sempre più complicato. Il governo Karzai ha rotto le trattative con i talebani, questa decisione apre nuovi scenari, con nuove implicazioni ed anche nuovi attori che si muovono dietro le quinte. Intanto questa decisione potrebbe provocare un ritardo nel ritiro delle forze NATO, con ricadute negative sulle possibilità di rielezione del Presidente Obama, in programma nel 2012. La complicazione per gli USA, aggrava una situazione già difficile con il Pakistan, colpevole secondo Washington di proteggere i terroristi della rete Haqqani, fortemente sospettati, oltre che dell'assassinio del mediatore ed ex presidente afghano Rabbani, anche di altre azioni terroristiche avvenute al confine tra Afghanistan e Pakistan contro le forze NATO. Il problema di fondo, rilevato sia da Washington che da Kabul, è che le azioni terroristiche principali partono dal territorio pakistano, da cui deriva il sospetto che l'infrastruttura statale di Kabul, se non, almeno in parte, collusa, non eserciti il dovuto controllo sulle organizzazioni terroristiche, che usano il territorio pakistano. Tuttavia, l'abbandono della trattativa con il movimento talebano obbliga il governo afghano a volgere lo sguardo verso Islamabad, nonostante le premesse di cui sopra non siano affatto positive. La mossa di Karzai è rischiosa perchè pare difficile ottenere stabilità per lo stato senza coinvolgere, almeno, la parte moderata dei talebani e costringe l'Afghanistan a puntare tutte le sue carte verso il Pakistan. Questo, però, potrebbe riavvicinare i due paesi, appunto ultimamente divisi, non soltanto per le questioni del terrorismo, ma anche perchè dietro a ciacuno dei due stati si staglia l'ombra di due soggetti tra loro in feroce competizione. Infatti se la Cina ha puntato sul Pakistan, riuscendo anche ad incrinare ulteriormente il rapporto tra Islamabad e Washington, l'India si è mossa in Afghanistan per guadagnarlo alla propria causa. Questa manovra ha avuto un duplice effetto negativo sui pakistani da sempre storici nemici dello stato indiano ed in più influenzati dal giudizio negativo dei cinesi. D'altra parte la strategia indiana è comprensibile, nella guerra commerciale con i cinesi è obbligatorio ribattere colpo su colpo all'occupazione degli stati, sia in ottica di sviluppo di mercato commerciale, che di possibile incremento di mano d'opera. Ma questo sviluppo della battaglia commerciale tra i due colossi della crescita rischia di complicare il processo di pace afghano e la stessa lotta ai gruppi terroristici. Per gli USA, il Pakistan, sia dal punto di vista strategico che politico, dovrebbe essere un alleato fondamentale e per altro lo è stato, fin quando non sono venuti a galla tutti i dubbi sulla lealtà di alcuni suoi apparati statali, ora il rapporto sempre più stretto con la Cina rappresenta un elemento di ulteriore raffreddamento dei rapporti. Ma la posizione geografica del Pakistan è essenziale per la stabilità dello stato afghano, questo è l'elemento di fondo dal quale ogni analisi ed ogni direzione che si vuole intraprendere non può prescindere. Il groviglio che si è creato, sia dal punto di vista politico, diplomatico ed anche commerciale pare difficilmente districabile e forse l'unica opzione praticabile senza troppi ostacoli è un intervento esterno, ad esempio l'impegno di un mediatore internazionale sopra le parti e senza secondi fini che non siano la pace nella regione.

martedì 4 ottobre 2011

Il Senato USA contro la svalutazione della moneta cinese

Il senato degli USA sta per aprire un dibattito sulla presentazione di un disegno di legge che possa permettere di imporre sanzioni commerciali contro la Cina a causa del mantenimento della sotto valutazione della moneta cinese operata da Pechino. La bilancia commerciale americana nel 2010 ha registrato un deficit con la Cina di 273.000 milioni di dollari. La Cina ha espresso, attraverso il proprio governo, il profondo rincrescimento per la possibile misura restrittiva, che viene vista come una chiara violazione delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e che può pregiudicare le relazioni commerciali tra i due paesi. In realtà la questione del deprezzamento artificiale dello yuan è una questione sul tappeto da tempo, la strategia cinese di mantenere una svalutazione artificiale rientra nel più ampio piano per favorire le esportazioni di prodotti cinesi sui mercati più ricchi. La pratica cinese, in effetti, rappresenta un chiaro episodio di concorrenza sleale ed inoltre se si pensa alle condizioni di lavoro e di salario della manodopera, la posizione commerciale di Pechino non può che essere letta in maniera scorretta. Fino ad ora sia gli USA, che la UE, non hanno fatto passi ufficiali tali da pretendere un allineamento della moneta cinese al suo effettivo valore. Se il disegno di legge al Senato USA, dovesse andare in porto, sarebbe una svolta nella guerra commerciale tra Cina ed Occidente, che potrebbe innescare una pericolosa escalation di ritorsioni da ambo le parti, sopratutto nel caso americano, vi sono implicazioni legate ad aspetti più ampi della sola diatriba commerciale, come la grossa fetta di debito pubblico USA in mano a Pechino. Tuttavia la posizione degli Stati Uniti pare compatta di fronte al problema dello yuan, infatti intorno al disegno di legge c'è l'accordo pressochè unanime sia di democratici che di repubblicani. Il parere dei politici, in questo caso, riflette il comune sentire della popolazione americana, che ormai vive ogni occasione in contrasto con gli USA come un attentato verso la nazione, specialmente nel campo economico, dove la situazione si fa sempre più delicata.

Putin propone una unione che vada da Lisbona a Vladivostock

Putin illustra il suo programma internazionale per superare l'attuale fase di crisi economica globale. Sul quotidiano Izvestia, il primo ministro russo, espone le sue tesi, in un articolo che propugna l'integrazione euro asiatica, creando un mercato che comprenda il territorio da Lisbona a Vladivostock. La ricetta di Putin è ambiziosa, ma anche condivisibile nella sua visione, forse un poco utopica, ma certamente carica di significati sia economici, che politici ed anche sociali. La necessità di cercare sempre nuove soluzioni in ambito geopolitico, al fine di aggregare sempre più soggetti, per creare organismi sempre nuovi, anche attraverso il rafforzamento di unioni già esistenti, sembra per Putin, l'unica soluzione per superare gli ostacoli imposti dal processo di globalizzazione mondiale e le sue evidenti patologie. L'integrazione si rende necessaria per sommare forze, che da sole non sono più sufficienti, per contrastare le difficoltà sempre crescenti in materia economica e politica. La Russia e la UE sono già legate dal rapporto creato dal mercato degli idrocarburi e del petrolio, dove la prima è il maggiore fornitore della seconda. Ciò rappresenta una ottima base di partenza per sviluppare ulteriori contatti capaci di ampliare i legami già presenti, vantaggiosi sopratutto per Mosca, che finanziariamente ha una grossa dipendenza dal mercato sopra citato. La necessità di sottolineare questa esigenza è data anche dal fatto che il processo di ingresso della Russia nell'Organizzazione mondiale del commercio ha subito forti ritardi; inoltre alla Russia non basta più l'integrazione che ha sviluppato nell'area dell'ex URSS, dove Mosca gioca un ruolo preminente. Nonostante l'importanza riconosciuta al modello seguito alla disgregazione dell'impero sovietico, quello della formazione della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), che ha permesso di continuare i legami storici e sociali, quello che più preme alla Russia è di sviluppare organizzazioni che possano contrastare la crisi economica. L'eliminazione delle dogane dovuta alla creazione allo spazio economico unico tra Russia, Kazakistan e Bielorussia rappresenta un punto di partenza dell'integrazione ma Mosca deve guardare necessariamente ad occidente per potere contare su di un mercato capace di assorbire i suoi prodotti in maniera consistente. Lo sbocco naturale non può che essere la UE, anche se nello spazio dell'ex URSS, l'aggregazione con altri stati deve ancora progredire. Infatti occorre coinvolgere l'Ucraina ed il Tagikistan. Ma la UE resta l'obiettivo di fondo, nelle intenzioni di Putin. In effetti una organizzazione, per lo meno basata sugli scambi economici, che abbracci l'intero continente europeo avrebbe una facilità di sviluppo di fondo grazie alle comuni radici storiche e per la contiguità territoriale, quasi una evoluzione naturale della stessa Unione Europea. Il progetto di Putin appare così non una novità, ne una intuizione rivoluzionaria, ma ha il merito di riportare all'attenzione, sia dell'opinione pubblica, che dei governi, un tema ricco di possibilità e di sviluppi. Non è da poco nell'impasse del momento.

lunedì 3 ottobre 2011

La bomba cinese

La bomba economica più pericolosa per il mondo intero è innescata e se dovesse esplodere le conseguenze sono difficilmente immaginabili. Se si paragona, infatti la situazione cinese a quella greca, si capisce che quest'ultima, pur essendo grave ed avendo provocato parecchi problemi al mondo economico finanziario, è niente di fronte alla potenziale crisi del dragone. Primo aspetto: l'elevato indebitamento delle amministrazioni locali cinesi ha raggiunto il 27% del totale dell'economia e sopratutto l'80% di questi debiti sono ritenuti dagli analisti economici inesigibili. Sarebbe il default per molte amministrazioni locali, ripianabile soltanto con un corposo intervento centrale mediante una massiccia immissione di liquidità. Ciò sarebbe già difficile con condizioni ottimali dei valori fondamentali ma la situazione attuale di Pechino, malgrado i tanti tentativi del governo per mascherare la reale condizione del paese, non è tale da consentire una cura del genere senza ripercussioni. Secondo aspetto: anche in Cina si ritiene che stia per scoppiare a bolla speculativa immobiliare sia per ragioni finanziarie che per ragioni sociali, tanto che gli esperti del settore ritengono il mercato immobiliare cinese non più attraente per gli investitori, da cui ne sta già derivando un mancato afflusso di capitali da immettere sul mercato cinese degli investimenti. Terzo aspetto: l'alta inflazione cinese sta già determinando un rallentamento della produzione, che rappresenta soltanto un primo effetto del fenomeno inflattivo, che è andato a pesare in maniera maggiore sui generi alimentari, alimentando il già presente ed elevato scontento della popolazione. Quarto aspetto: pur essendo una dittatura, che basa la propria stabilità su di un controllo ferreo, il che non dispiace al mondo della finanza, le mutate condizioni sociali del paese hanno fatto emergere un malcontento di fondo, che viene contenuto a stento dall'amministrazione statale. Le smaccate diseguaglianze economiche, l'alto grado di corruzione giunti ai problemi ambientali, peggiorati dalla massiccia industrializzazione ed alla esigenza sempre più pressante di allargamento dei diritti civili e politici, fondamentali per partecipare al processo decisionale del paese, creano una situazione che mette potenzialmente a rischio, il pur radicato sistema politico cinese. Per l'economia basta anche il solo sentore di una possibile instabilità per abbassare il rating; d'altra parte non è possibile credere ad un perdurare di tale stato di cose ragionando sul lungo periodo, ma è la potenzialità che può spaventare le borse. Questi aspetti di problematica sociale potrebbero acuirsi velocemente se si dovesse verificare un calo considerevole dell'occupazione, che andasse a colpire il grosso della forza lavoro. L'aumento esponenziale del malcontento, mitigato dal salario, potrebbe esplodere anche in maniera violenta qualora venissero a mancare i requisiti occupazionali, che in questi anni, hanno anche svolto da ammortizzatore politico. Come si vede i presupposti per una crisi cinese ci sono tutti e non è necessario che si verifichino tutti, è sufficiente che anche uno solo di questi aspetti problematici si verifichi per avere riflessi negativi importanti sul sistema economico mondiale. In più la Cina non è all'interno di alcuna organizzazione come la Grecia, che può intervenire in aiuto, anche perchè il colosso cinese non è inquadrabile in una organizzazioni in termini paritari; la Cina ha una grandezza sproporzionata, elemento che si può trasformare, in caso di crisi, da vantaggio a svantaggio enorme, perchè il fattore moltiplicativo dell'elemento negativo può consentire un effetto a catena travolgente. Sarebbe opportuno che la finanza e l'economia occidentali si preparassero all'evenienza di una crisi cinese, ed anche dal lato politico non è da sottovalutare il possibile movimento di masse in fuga dal dragone cinese.