Politica Internazionale

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lunedì 12 marzo 2012

I paesi del Golfo Persico di fronte alla possibilità di un conflitto Israele-Iran

La possibile guerra tra Israele ed Iran agita tutto il mondo arabo. Specialmente tra i paesi del Golfo Persico, che si affacciano sulla sponda opposta alla costa iraniana, la preoccupazione è palpabile. Il pericolo di essere trascinati in una guerra santa all'interno dell'Islam, tra i rappresentanti delle due principali dottrine, sciti e sunniti, è concreto, come è concreta la volontà di di costringere l'Iran a rinunciare alla bomba atomica, ma le posizioni rispetto a Teheran non sono omogenee. Malgrado il pensiero comune è che una guerra avrebbe conseguenze catastrofiche, per alcuni paesi potrebbe essere l'occasione per sbarazzarsi di un vicino scomodo per l'equilibrio geopolitico della regione, cancellandone la pericolosa influenza. E' questo il pensiero dei governi di Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait, mentre l'atteggiamento di Emirati Arabi Uniti ed Oman resta più cauto, rispettivamente, infatti, i due paesi hanno un approccio più morbido verso l'Iran, che vede gli Emirati Arabi Uniti propendere per le sanzioni, come mezzo di dissuasione, mentre l'Oman è totalmente contrario ad un impegno bellico. L'atteggiamento più duro è quello dell'Arabia Saudita perchè coinvolge motivazioni religiose, geopolitiche ed anche economiche. Dal punto di vista religioso tra i due paesi si gioca la partita più dura per la supremazia religiosa all'interno della religione islamica, la teocrazia nata dalla fine del dominio dello Scià, ha messo in discussione l'autorità religiosa saudita sui luoghi santi de la Mecca e di Medina ed ha usato questo confronto ripetutamente per influenzare le minoranze scite presenti nella sponda del Golfo Persico prospiciente alla costa iraniana. Secondo i sauditi sarebbe stato infatti l'Iran ha fomentare le rivolte scite che si verificate nello scorso anno in corrispondenza della fase più acuta della primavera araba, nei paesi confinanti con Riyad, che hanno determinato l'invio di truppe dell'esercito dell'Arabia Saudita per proteggere la monarchia del Bahrain. Si arriva così al paradosso che l'Arabia Saudita e lo stesso Bahrain, vedrebbero favorevolmente un attacco israeliano capace di indebolire l'Iran, tuttavia i due stati, per ora stanno alla finestra perchè la sicura risposta iraniana viene valutata come elemento capace di coinvolgere direttamente i due paesi in una ritorsione militare, sopratutto per la presenza di basi americane sui loro territori. Tuttavia l'atteggiamento dei due paesi, pur restando di attesa, è chiaramente ostile a Teheran, lo dimostra anche il fatto dell'attività saudita nel caso siriano, dove Riyad sarebbe favorevole ad un intervento militare, che non viene però appoggiato dagli altri paesi del Golfo e quindi opta per un rifornimento continuo di armi ai ribelli schierati contro Assad. Non si deve pensare che l'Arabia Saudita, stato dove vige un regime profondamente illiberale, faccia questo per favorire un processo democratico a Damasco, la ragione riguarda esclusivamente valutazioni geopolitiche, infatti lo scopo è togliere dall'influenza iraniana il territorio chiave siriano. Ma gli altri paesi del Golfo hanno un atteggiamento più prudente, perchè devono valutare l'impatto di un eventuale confronto con l'Iran che ripercussioni avrebbe sulle minoranze scite, che compongono il loro stato sociale e che sono fondamentali per il funzionamento delle loro economie. Fornire un nuovo pretesto di agitazione sociale, non è il massimo per i governi di Oman ed Emirati Arabi Uniti. Anche l'aspetto economico non è secondario: una guerra altererebbe la produzione del greggio con evidenti ripercussioni sulle economie dei paesi produttori, oltre che dei consumatori. Ma esiste un ulteriore aspetto da non sottovalutare: le posizioni più o meno radicali contro l'Iran dei governi non sono condivise dalla popolazione, che vedono Israele e gli USA come una minaccia per il mondo arabo, al contrario di una piccola minoranza che invece percepisce Teheran pericoloso. E' pur vero che non siamo in paesi dove vige la democrazia, ma se anche i sunniti continuano a vedere meno pericolosi gli sciti, perchè in fondo di questo si tratta, rispetto agli israeliani, cosa forse scontata, ma anche agli americani, fattore non del tutto ovvio per le lunghe alleanze sia politiche che militari presenti, la valutazione che devono fare i governi contro l'Iran, deve tenere necessariamente conto di questa tendenza. In ogni caso con questa analisi, alla questione si aggiungono ulteriori elementi di incertezza, che ancora meno consentono previsioni precise sugli sviluppi futuri.

Gli scenari possibili di un attacco di Israele all’Iran

Se si analizzano le opzioni militari per un eventuale attacco israeliano all’Iran, occorre partire dalla assoluta mancanza del fattore sorpresa, spesso determinante per l’esito di una azione bellica. Ciò non è da ritenere una mancanza dello stato maggiore di Tel Aviv, ma una precisa strategia politica elaborata per tenere sotto pressione, con le sanzioni americane ed europee lo stato iraniano. Tuttavia i progressi della ricerca nucleare di Teheran sono stati solo rallentati ma non fermati. Secondo alcuni analisti se l’Iran doveva essere colpito, il momento era intorno al 2002 o 2003, quando il programma nucleare era all’inizio, per stroncarlo sul nascere. Adesso la situazione è peggiorata perchè i dieci anni trascorsi hanno dato tempo a Teheran, oltre che per procedere con la ricerca, anche di organizzarsi nascondendo i suoi siti ed evolvere la propria strategia di difesa. Per Israele la minaccia è però insostenibile e all’interno dello stato cresce la volontà di azione, sopratutto nel governo. Guardando alla dotazione aerea israeliana, l’arma con cui Tel Aviv intende agire contro l’Iran, si evince la difficoltà di portare avanti questo progetto da solo come ha più volte minacciato Benjamin Netanyahu. L’aviazione militare israeliana, infatti è dotata di velivoli pensati per un conflitto di difesa e non di attacco, che non hanno la grande autonomia di volo necessaria per coprire i 1.600 chilometri che separano Israele dall’Iran. Oltre il fattore distanza, è da prendere in considerazione che il volo dei bombardieri con la stella di David non sarebbe lineare sull’obiettivo, in quanto la forza aerea iraniana opporrebbe una resistenza capace di impedire l’accesso ai cieli di Teheran. La necessità del rifornimento in volo diventa fondamentale, senza i grandi aerei cisterna, di cui Israele non disporrebbe, l’attacco aereo rimane una minaccia impraticabile. Per superare questa difficoltà tecnica insormontabile, esistono diverse opzioni, la prima delle quali è la partecipazione degli USA al conflitto. Con gli Stati Uniti impegnati con i propri mezzi, almeno nella fase logistica, per Israele il problema sarebbe superato, ma per il momento Obama non vuole forzare la mano, almeno prima di arrivare alle elezioni, ed anche un impiego obbligato delle forza armate americane, dettato da un’entrata in guerra di Israele non concordata, avrebbe delle ricadute diplomatiche tra i due stati con conseguenze fortemente negative. Per ovviare a questa causa ostativa, se Israele continuasse nel suo proposito di attaccare da solo potrebbero aprirsi nuovi scenari. Il coinvolgimento della Giordania, dove sono appena state costruite installazioni missilistiche in grado di proteggere Israele, potrebbe essere una opzione, ma occorre valutare una ritorsione iraniana contro un paese sunnita, il che potrebbe innescare una guerra santa in seno all’Islam, un regolamento di conti più volte minacciato tra sciti e sunniti, con l’Arabia Saudita in prima fila contro Teheran. Si tratta di un’opzione terribile per le conseguenze possibili e probabili, che gli USA, verosimilmente avversano, temendo un coinvolgimento in grande scala del proprio esercito. Un’altra possibilità è il passaggio degli aerei israeliani da altri paesi per potere effettuare percorsi più brevi. Una possibilità è offerta dall’Iraq, che non è dotato di difese antiaeree, ma che non darebbe mai il benestare al passaggio per bombardare un paese scita, con cui sta intessendo rapporti. Il sorvolo non autorizzato verrebbe condannato dall’opinione pubblica internazionale, perchè effettuato in dispregio del diritto internazionale. Vi sono ancora due opzioni, una è usare basi turche, ma i pessimi rapporti attuali tra i due stati non danno la minima possibilità a questa evenienza e neppure pare possibile convincere uno stato confinante con l’Iran dal lato europeo come Gerogia o Armenia ad ospitare le basi degli attacchi, per non essere coinvolto in una spirale di guerra e terrorismo che ne potrebbe minare la stabilità. Se queste considerazioni sono vere l’attacco israeliano in solitaria appare soltanto una minaccia impossibile da portare a termine se non con l’aiuto USA, ma il sentimento di paura crescente potrebbe portare a pessime determinazioni. Tuttavia nell’attesa della fine delle elezioni americane, quello che sembra più probabile è la ripresa in grande scala della guerra segreta, che Tel Aviv sembra avere interrotto. Per il momento è l’unica strada praticabile per contrastare la ricerca nucleare iraniana.

venerdì 9 marzo 2012

Siria: le ragioni del non intervento

Mentre continuano i massacri della repressione siriana, è lecito interrogarsi sul perchè del mancato intervento internazionale, come accaduto ad esempio in Libia. Pur essendo vero il fatto che in questa occasione Cina e Russia tengono bloccata, con il loro veto in sede di Consiglio di Sicurezza, una possibile azione della Nazioni Unite, risulta essere altrettanto veritiero il fatto che nessuna nazione osa mettersi contro il regime di Assad, come fu fatto con Gheddafi, quando Francia ed Inghilterra iniziarono i bombardamenti su Tripoli in anticipo sulla decisione dall'ONU. Per ora la tendenza di USA ed UE, i soggetti che più probabilmente potrebbero agire in difesa della popolazione siriana, è di esercitare una pressione diplomatica sempre più forte su Damasco, tramite sanzioni che stanno diventando sempre più aspre, ma che non ottengono alcun risultato. La ragione principale dell'immobilità occidentale, in special modo americana, è il rischio di un'accelerazione del conflitto con l'Iran, sul quale Obama sta prendendo tempo. Questa motivazione gioca a favore di Assad, ben conscio che se la Siria fosse messa sotto attacco, Teheran non esiterebbe a rispondere in sua difesa. Anche il belligerante atteggiamento israeliano, tenuto a freno a stento da Washington, gioca a favore del regime siriano, perchè alza la temperatura nella regione e costituisce un elemento di distrazione dalla repressione. Per Obama, forse più che per gli USA, il momento è il meno propizio per imbarcarsi in una nuova operazione militare, alla vigilia delle elezioni, infatti, un nuovo impegno bellico potrebbe spostare un buon numero di voti da uno schieramento all'altro. In quest'ottica va forse letta la dichiarazione del senatore Mc Cain, sfidante repubblicano di Obama alle scorse elezioni presidenziali, in favore di bombardamenti dal cielo sulle forze regolari siriane per fermare i massacri. Va però detto che le difese militari di cui dispone la Siria sono ben più avanzate di quelle di Gheddafi ed in un'azione contro Damasco va messo in conto un potenziale numero di perdite maggiore. Resta il fatto che secondo le Nazioni Unite il numero di morti oltrepassa le 7500 unità ed il mondo non può continuare ad ignorare una qualche forma di intervento ben più pesante delle sanzioni. I paesi arabi, dal canto loro continuano a perseguire l'idea di armare i ribelli, soluzione però già manifestamente insufficiente per la forza e la qualità delle truppe siriane, che, inoltre, dispongono dell'appoggio di milizie iraniane ed Hezbollah; inoltre l'estrema divisione dell'opposizione siriana, che abbraccia un vasto panorama che va da movimenti democratici ad integralisti islamici, non facilita il compito di trovare un interlocutore univoco per un'eventuale operazione militare. Anche trovare una sponda favorita da eventuali defezioni dall'apparato di regime, per combatterlo dal suo interno, risulta molto difficile per la ramificazione estesa fin dentro i più piccoli centri di potere, costruita dalla setta alawita di Assad. Tuttavia ormai il presidente siriano risulta ormai non più presentabile agli occhi del mondo, anche per i pochi alleati importanti che gli sono rimasti. La stessa Russia, pur mantenendosi ferma nelle proprie posizioni, ha più volte richiesto, non ascoltata, la fine della repressione, segno di profondo disagio di fronte al panorama internazionale. Soltanto Ahmadinejad continua ad appoggiare Assad ed a sposarne le tesi che giustificano la repressione, come legittima difesa contro attacchi terroristici. Ma l'isolamento del mondo e la sua avversione, per il momento non consentono una caduta rapida e la fine delle violenze. In queste condizioni pur potendo prevedere anche una certa resistenza, la vittoria finale sullo scenario siriano è tutta per Assad, anche se le previsioni sulla sua permanenza al potere sul lungo periodo non possono che essere negative. Intanto occorre stare a vedere cosa farà Israele: se dovesse attaccare l'Iran, per la Siria verrebbe meno una delle ragioni che gli hanno permesso di agire impunemente con la repressione. Se l'intenzione sarà di cancellare il regime iraniano, anche per quello siriano sarebbe la fine, perchè a quel punto sarebbe più facile intervenire anche per altri paesi. Ma anche senza conflitti non pare praticabile una permanenza di Assad al potere, la situazione è irrimediabilmente compromessa e non è peregrina la possibilità di una incriminazione alla Corte dell'Aja, in quel caso una via di uscita potrebbe essere un esilio dorato in Russia per il dittatore ed il suo gruppo di potere.

I fatti del Kerala, pericoloso precedente per il diritto internazionale

Il fatto dei soldati italiani, impegnati come scorta contro la pirateria in mare di una nave mercantile, imprigionati in India con l'accusa di avere ucciso due pescatori, rischia di creare un pericoloso precedente nel diritto internazionale. I fatti si sono svolti nel mare di fronte allo stato del Kerala, in una zona di passaggio delle navi mercantili ma anche dove operano, con le loro reti, i pescherecci indiani; una pratica di questi pescherecci è di deviare la rotta delle grandi navi cargo, per evitare che queste rompano le reti da pesca durante il loro passaggio. Questa pratica viene attuata avvicinando le navi con piccole barche, la pratica ricorda l'azione dei pirati, che usano mezzi piccoli e veloci per abbordare i grandi mercantili e prenderli in ostaggio. Dopo i ripetuti casi di pirateria, che hanno obbligato diversi stati a schierare navi militari nelle acque internazionali del Mare Arabico, gli armatori civili hanno scelto di ingaggiare militari professionisti, con l'avvallo del proprio stato, a bordo delle navi per difenderle dagli attacchi. Se nell'episodio di cui si parla si sia trattato di tragico errore o di effettivo attacco di pirati, non è ancora stato chiarito del tutto, anche perchè le autorità indiane hanno immediatamente cremato i corpi delle vittime, senza neppure effettuare l'autopsia di rito. Quello che importa è che il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali, come stabilito dalle misurazioni effettuate attraverso i satelliti. Nel Kerala, stato dove sono imminenti le elezioni, si registra una ampia ostilità verso l'Italia, dovuta alle origini di Sonia Gandhi, leader del Congresso Nazionale Indiano, uno dei principali partiti del paese. In questo stato, come in altre zone dell'India non è mai stato accettato che una straniera diventasse una delle figure più potenti del paese, cosa che si può anche comprendere in una nazione che è uscita in tempi relativamente recenti dalla dominazione coloniale. Ma questa è una questione interna, che va ad interferire con le norme che regolano il diritto tra gli stati. Un caso del genere è destinato a fare da scuola per il diritto internazionale e forse anche creare un pericoloso precedente in grado di generare questioni, conflitti e ritorsioni in una materia che deve essere, al contrario sempre più sicura ed affidabile. La prassi dice che per un fatto del genere, cioè l'episodio potenzialmente delittuoso, accaduto in acque internazionali, la giurisdizione spetta al paese per il quale batte bandiera la nave. Lo stato del Kerala, facendo intervenire le proprie forze armate e facendo pressione sull'armatore, con il ricatto di vietare alle sue navi l'approdo nei porti dello stato, ha interrotto questa norma riconosciuta dal diritto internazionale, soltanto per una questione interna, riguardante la propria competizione elettorale. Se i militari italiani, ora detenuti nelle carceri dello stato indiano, dovessero essere anche solo giudicati, cosa che in parte è già avvenuta, dalla corte del Kerala si verrebbe a creare un precedente pericolosissimo in grado di bloccare, potenzialmente, i commerci marittimi. E' singolare che intorno alla questione la disputa continui ad essere circoscritta alle diplomazie di Italia ed India, senza che dall'ONU si levi voce alcuna. Quello che appare è che non si voglia disturbare una potenza emergente come l'India anche in presenza di una violazione palese del diritto internazionale per cui, anzi, dovrebbe essere sanzionata. La speranza è che tutto si chiuda dopo le elezioni del Kerala e si arrivi ad una ricomposizione della questione. Tuttavia quello accaduto segnala una pericolosa deriva verso cui si muove il mondo. Ancora una volta particolari interessi locali vanno oltre l'applicazione delle regole comuni sovranazionali, esercizio necessario necessario per governare un mondo dove i confini nazionali vengono sempre più superati, sia per fattori economici, che tecnologici, che politici. Il nuovo assetto mondiale ha bisogno sempre più di leggi sovra statali il più possibile condivise, che tutelino l'universalità dei rapporti. Purtroppo il fatto del Kerala è l'ennesima spia di una tendenza sempre più presente che cerca di anteporre l'interesse particolare al generale, anche quando questo interesse è palesemente interesse di parte, distorcendo così la visione del rapporto internazionale stesso.

giovedì 8 marzo 2012

Hamas garantirà l'appoggio all'Iran in caso di conflitto

La notizia riportata dalla BBC, dove si affermava che Hamas non avrebbe preso parte ad una ritorsione armata contro Israele, nel caso quest'ultimo avesse attaccato l'Iran è priva di fondamento. D'altronde non pareva possibile, nonostante le speranze, che uno dei maggiori alleati iraniani, geograficamente posizionato in modo strategico, nel caso di un conflitto fra Tel Aviv e Teheran, negasse il proprio aiuto dopo anni di collaborazione ed aiuti. Quello che mancava era solo l'ufficialità ma l'appoggio era dato per scontato dall'inizio della questione; anche se si pensava che non fosse un appoggio così esplicito ed impegnativo. Così le parole di smentita su quanto detto dalla BBC, pronunciate da Mahmoud al-Zahar, fondatore di Hamas, non sono giunte inattese, ma hanno destato comunque una grande sorpresa negli ambienti diplomatici. Hamas oltre a ribadire il suo appoggio al fianco dell'Iran ha anche dato la sua disponibilità a combattere anche contro chi affiancherà Israele. E' una minaccia diretta agli USA, che pur tentando tutte le vie diplomatiche possibili, saranno sicuramente al fianco di Tel Aviv nel sempre più probabile confronto militare. Se non bastavano le previsioni di una profonda destabilizzazione della regione, la dichiarazione di Hamas coinvolge direttamente la questione palestinese nel confronto con l'Iran
ed azzera i tentativi portati avanti da diverse parti per la creazione di uno stato autonomo della Palestina. Ciò fornisce anche ad Israele la giustificazione di portare avanti i metodi repressivi e la colonizzazione condannata dagli stessi USA. Quella di Hamas è una posizione ingenua che vanifica anni di sforzi e di negoziati e rende anche più debole l'OLP, che a questo punto non potrà che smarcarsi dall'avversario politico, con il quale aveva firmato una tregua, per portare avanti le trattative sia con l'ONU che con Israele. La scontata rottura tra hamas ed OLP che seguirà questa dichiarazione di appoggio all'Iran, potrebbe portare come estrema conseguenza il distacco della Striscia di Gaza, dove Hamas ha la maggioranza, dal progetto della creazione dello stato palestinese e comunque comporta un indebolimento sostanziale di tutto il movimento palestinese. Anche se, come sperato, non dovesse esserci il confitto la posizione di Hamas, con queste dichiarazioni, risulta definitivamente compromessa e ne fa un interlocutore ormai inattendibile. Difficile interpretare una dichiarazione di tale portata effettuata in questo momento, anche se non è possibile che tale presa di posizione, troppo esplicita, non sia stata studiata nei tempi e nei modi nei quali è avvenuta. Potrebbe esserci Teheran dietro la minaccia di Hamas, che, forse, nei pensieri iraniani, può costituire un elemento di pressione, certamente di ulteriore caos nel divenire della situazione, ma certamente per l'Iran la dichiarazione di Hamas ha più un impatto mediatico da riscuotere nel mondo arabo, dove la questione palestinese gode sempre di una grande presa.
Militarmente Hamas può poco contro l'esercito israeliano, ma può, mediante i suoi kamikaze, mettere Israele nel più completo terrore ed incertezza, attraverso l'uso intensivo di attentati. Non è poco se unito ad una situazione di guerra come potrebbe essere quello che accadrebbe in caso di conflitto con l'Iran, con la popolazione civile in ostaggio di uno stato permanente di paura. Inoltre risorse militari israeliane potrebbero essere impegnate ancor più stabilmente contro la striscia di Gaza, sottraendole dal conflitto. Ma forse l'effetto maggiormente cercato è di chiamare a raccolta tutto il mondo arabo, perlomeno la parte più oltranzista, per trasformare il conflitto in guerra santa definitiva contro l'invasore sionista, probabilmente con l'appoggio di religiosi islamici più radicali. Se questo aspetto è vero non è da escludere una deriva non limitata al teatro regionale, ma estesa, anche con azioni spettacolari, come attentati in luoghi simbolo, in paesi alleati di USA ed Israele, in modo da coinvolgere più stati possibili nel clima del conflitto.

La richiesta ingiusta di pagare il debito pubblico generato dalla speculazione

Mentre quello che affligge l'economia è il debito pubblico delle nazioni, sempre maggiore è la domanda di quanto sia legittimo fare ricadere sulla totalità della popolazione di uno stato questo costo. Se può essere giusto contribuire alla copertura del prestito per la costruzione di opere sociali, come le infrastrutture, che migliorano la vita della comunità, pare evidentemente assurdo caricare su contribuenti già tassati pesantemente, la rifusione per debiti contratti per scopi oscuri o peggio deleteri. Il meccanismo della democrazia, che prevede nel mandato elettorale la piena e libera azione governativa degli eletti di maggioranza, ha, in questo particolare caso, quello che gli informatici chiamerebbero un buco di sistema. In Italia, ad esempio, si è cercato di tamponare la falla mettendo al governo un gruppo di cosidetti tecnici, sommando un errore all'altro. Il mancato rapporto con il corpo elettorale ha creato un mostro giuridico che governa senza che il suo programma sia stato vagliato ed eventualmente approvato con il voto. Ma anche questa è un'obiezione facile sa smentire: in nessuna parte dl mondo alcuna forza partitica presenta presenta un programma così dettagliato da potere essere contestato nei particolari, che, però, fanno spesso la differenza. Inoltre non esiste una forma sanzionatoria, in nessuna nazione, per quei governanti che non raggiungono gli obiettivi proposti. Se questo è vero a livello politico, cioè quando le decisioni non sono ancora entrate nei confini dell'operatività pura, con tutte le conseguenze relative, nel momento in cui si deve fare un consuntivo, numeri alla mano, ogni responsabilità è assente. Questo fatto è intimamente legato al problema del debito pubblico, che viene caricato sulla collettività e spesso addirittura sulle generazioni future, senza che vi sia una sanzione per chi ha contratto questo impegno economico senza che vi sia almeno un beneficio tangibile. Impossibile non fare rientrare nel discorso la deriva partita dagli anni ottanta, quando si è cominciato a virtualizzare il valore, spostandolo da quello reale a quello fittizio, rispondendo alla richiesta del mondo della finanza e delle banche. Non è un caso che proprio a quegli anni, caratterizzati dalla premier inglese detta la Lady di ferro e dall'attore presidente degli USA, si sia iniziato a cumulare il debito pubblico che ora non è più sostenibile, per i mutati assetti produttivi e geopolitici. L'affermazione della concezione ultra liberista ha spostato gli obiettivi dell'azione di governo che sono diventati non più a lungo periodo ma si sono stabilizzati su obiettivi di breve e brevissimo periodo, con la conseguenza di elaborazione di politiche che necessitavano di sempre maggiore denaro da spendere velocemente. L'abuso di queste pratiche ha favorito, accrescendone a dismisura l'importanza, istituzioni finanziarie e creditizie, non più operanti per il bene collettivo, con il giusto guadagno si intende, ma che hanno incentrato la loro azione sulla più totale speculazione. Oggi siamo al paradosso che una azienda che possiede brevetti, impianti e prodotti reali, è spesso quotata con minore valore di una start up senza alcun bene materiale. L'ingresso nel mondo produttivo di paesi in grado di portare una manodopera a basso costo ha abbassato verso il basso la qualità del lavoro e della vita dei lavoratori, generando differenze sociali ormai non più colmabili e la globalizzazione ha fatto il resto. Spesso si è parlato della globalizzazione come evento non evitabile, dato dal fatto nell'ingresso del mondo industriale di nuovi soggetti, con appunto grande disponibilità di manodopera, ma ciò è stato solo una conseguenza non il motivo scatenante, perchè la globalizzazione è il sovvertimento studiato a tavolino per favorire la speculazione. Torniamo così all'inizio: è legittimo chiedere alla totalità della popolazione di pagare debiti contratti in questa maniera? Se si guarda all'evoluzione degli ultimi trenta anni non è possibile accettare questa imposizione. Se si pensa alla Grecia, che rappresenta un possibile futuro di diversi paesi europei, dove si è addirittura persa la sovranità nazionale e si è ridotto un intero popolo in povertà, non si può che essere mossi da indignazione. Le ripercussioni sociali potenziali tremende ed i disordini sociali fin qui accaduti non sono che poca cosa di fronte a ciò che potrebbe accadere potenzialmente. I governi hanno scelto di difendere le banche, quali detentrici e dispensatrici ormai istituzionali del credito, il ragionamento è coerente fintanto che si vuole mantenere gli istituti bancari al centro del sistema economico, appunto come collettori del credito attraverso il quale favorire la crescita. Ma le banche sono uno dei massimi punti deboli del sistema, in quanto hanno operato, salvo poche eccezioni, per il proprio esclusivo guadagno, speculando con l'acquisto e la rivendita di titoli spazzatura ed accumulando un credito molte volte non più esigibile, proprio per avere messo nel portafogli titoli che nel brevissimo periodo assicuravano dividendi vertiginosi.
Per sopravvivere le banche devono ricevere aiuto dalle banche centrali, ma non assolvono più il loro ruolo istituzionale e non forniscono credito all'economia che non può crescere, perchè il denaro ricevuto serve esclusivamente a coprire i loro debiti e quindi la loro sopravvivenza. Ma il sistema economico attuale è fondato sulla crescita, senza di questa manca il gettito fiscale e lo stato è costretto a nuovi debiti da contrarre soltanto per sopravvivere, senza più dare quei servizi che dovrebbero essere forniti grazie al pagamanto delle imposte. A questo punto il cerchio è chiuso ed il sistema economico si avvita su se stesso in una spirale sempre più stretta che non può che concludersi con il fallimento. Perchè non saranno certo gli interventi tampone dei diversi governi a risolvere la questione, ma soltanto a prolungarne l'agonia. Una soluzione sarebbe una moratoria di una gran parte, almeno, del debito pubblico totale di uno stato, cioè di quella parte sicuramente legata a speculazioni che nulla hanno avuto a che fare con il benessere della collettività, sarebbe un modo di ripianare enormi differenze sociali create con la speculazione, che hanno penalizzato il lavoro e sopratutto sarebbe una nuova partenza per un sistema più equo. Se questa soluzione sembra utopica, e per certi versi lo è senz'altro, si pensi all'alternativa che si potrà presentare quando intere nazioni saranno messe sull'orlo della miseria per assenza di provvedimenti efficaci: a quel punto sarà compromessa ogni stabilità sociale, nazionale e sovranazionale e si sfiorerà una nuova età della pietra.

mercoledì 7 marzo 2012

La Cirenaica si dichiara autonoma: Libia verso lo stato federale

Iniziato già prima della fine di Gheddafi, per la Libia si acuisce il problema della divisione territoriale e tribale, che mina alle fondamenta il già precario equilibrio dello stato. Per quanto riguarda l'organizzazione territoriale dello stato si confrontano due visioni diametralmente opposte: stato unitario e federalismo, quest'ultimo è stato abbandonato nel 1963 e comprendeva tre regioni amministrative: Cirenaica (est), la Tripolitania (ovest) e Fezzan (sud). Il governo di Gheddafi ha sempre discriminato la Cirenaica a favore delle altre regioni, in special modo la Tripolitania, ed infatti proprio da Bengasi, capitale della parte est del paese, è partita la rivolta che ha rovesciato il regime. Le pulsioni autonomiste sono state sempre motivo di repressione da parte delle forze di Gheddafi nella Cirenaica ed il sentimento indipendentista non si è mai sopito nella maggioranza della popolazione. Nella giornata del 6 marzo 2012 a Bengasi è stata ratificata, indipendentemente dalla volontà del Consiglio Nazionale di Transizione, con una cerimonia ufficiale, alla presenza di comandanti delle milizie e rappresentanti delle tribù, l'indipendenza della regione dalla Libia anche attraverso la creazione di un congresso regionale indipendente e di una propria forza armata. Tale decisione non disconosce l'autorità nazionale del Consiglio Nazionale di Transizione, a cui è riconosciuta la guida della nazione, ma ratifica la creazione di uno stato autonomo unito alla Libia in maniera sostanzialmente federale. Tripoli, anche nella nuova veste di capitale libica sede del Consiglio Nazionale di Transizione, è sempre stata contraria ad una ripartizione federale dello stato, preferendo una nazione maggiormente unita; nella capitale si è consci che favorire un processo in senso federativo dei territori sia la potenziale anticamera della disgregazione nazionale. Del resto storicamente la Libia non è mai esistita e non è stato certo il governo di Gheddafi a sviluppare un sentimento nazionale unitario in una società arcaica dove tuttora l'elemento tribale, non certo fattore aggregativo, è l'unico organismo sociale presente di un certo rilievo. Ma se Gheddafi aveva interesse a mantenere uno stato diviso in modo da avere maggiore facilità a dominarlo, l'interesse dei politici del Consiglio Nazionale di Transizione va nella direzione opposta. Nella loro visone, molto comprensibile, soltanto una forte unità dello stato può permettere la costruzione di una nazione stabile. In questa fase storica, dare spazio a tendenze separatiste può effettivamente portare alla divisione dello stato ben oltre l'assetto federativo. La regione è ben chiara lo stato libico, come è ora sistemato, poggia su fondamenta tutt'altro che solide, proprio per la totale assenza di spirito nazionale nei diversi clan tribali, che è bene sottolinearlo ancora, restano l'elemento fondante della struttura sociale libica. Anche il fatto che non si è voluto dare da subito una costruzione di tipo federale allo stato, fin dalla sconfitta di Gheddafi, significa che tale soluzione è stata scartata perchè troppo destabilizzante per il processo post bellico che stava per intraprendere il paese. Tuttavia queste differenze sostanziali esistono e sono le fessure che possono permettere ad agenti stranieri di infiltrarsi nella costruzione della nuova Libia. E' quanto ha espressamente dichiarato Moustapha Abdeljalil, capo del Consiglio Nazionale di Transizione, accusando i paesi arabi di alimentare la volontà indipendentista della Cirenaica, regione notoriamente petrolifera e quindi dotata di una ricchezza fondamentale per il nascente stato libico. Se ciò fosse vero l'ingerenza potrebbe giustificare la volontà di dividere un potente concorrente economico nel mercato del greggio. Del resto i finanziamenti ai ribelli provenienti dai paesi arabi sono stati ingenti, anche se pare obiettivamente difficile che siano stati pianificati per arrivare ad un tale risultato. Questo elemento, rappresentato dalla creazione di una entità autonoma nella Cirenaica, rappresenta un ulteriore elemento di disturbo nel cammino della formazione dello stato, che nonostante la scomparsa di Gheddafi, presenta numerosi segnali contrari al percorso democratico, come le ripetute segnalazioni da parte delle organizzazioni dei diritti umani per episodi di violenze perpetrate dalle milizie ai danni dei presunti seguaci del colonnello, che vanificano la pacificazione nazionale necessaria per stabilire un clima sereno nel paese. Risulta difficile ipotizzare le conseguenze del gesto dei dirigenti di Bengasi, ora il Comitato Nazionale di Transizione deve fare in modo di fare cambiare idea alla Cirenaica, impresa che pare difficile, in modo diplomatico e non pare possibile che Tripoli intraprenda una azione militare a guerra appena conclusa. Del resto l'atteggiamento di Bengasi, che riconosce sia la Libia unita, che l'autorità del Comitato Nazionale di Transizione chiude la porta ad azioni violente, che aprirebbero, allora si, la creazione di una entità statale separata. Più facile che Tripoli accetti la decisione di Bengasi e modifichi, anche se di malavoglia, i propri convincimenti sull'assetto dello stato verso la forma federale. Del resto questa è la tendenza dominante nel mondo, la valorizzazione delle piccole patrie, attraverso distacchi dall'organismo centrale di tipo morbido ed entro binari comunque ben definiti, se succede in Europa può accadere anche in Africa.