Politica Internazionale

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lunedì 19 marzo 2012

Nel mondo sale la spesa per gli armamenti

Nel mondo cresce il commercio e quindi la produzione delle armi. Quello militare si rivela ancora un mercato florido grazie ad un incremento del 24% nel periodo tra il 2007 ed il 2011. I movimenti dei prodotti bellici
offrono una lettura della situazione geopolitica che si sta sviluppando. Mentre i maggiori esportatori, USA, Russia, Germania, Francia e Regno Unito, mantengono invariate le loro posizioni, tra gli acquirenti si registra la notevole attività dell'India, che è la nazione che più ha investito in armamenti. Resta sempre singolare come paesi che hanno problemi di alimentazione, in India vi è il più alto tasso di denutrizione tra i bambini, impieghino gran parte del loro bilancio per scopi militari. Ma il caso indiano è particolare, perchè denota una volontà di dotarsi di una forza armata particolarmente equipaggiata, non certo per farne sfoggio in parate, ma per prepararsi a scenari futuri che potranno essere potenzialmente pericolosi. La crescente rivalità economica con la Cina si riflette anche sul piano delle alleanze diplomatiche, i contatti sempre più frequenti tra Pechino ed Islamabad, preoccupano non poco Nuova Delhi. Peraltro la stessa Cina continua la sua politica di armamenti, compiendo addirittura un salto di qualità da paese compratore ad esportatore, arrivando addirittura a diventare la sesta nazione al mondo nella classifica dei venditori di armi. Uno dei motivi dell'escalation cinese è proprio lo speciale rapporto che la lega al Pachistan, diventato il primo cliente di Pechino nel mercato bellico. Si tratta, quindi, di segnali pericolosi per l'India, che risponde con un investimento capace di creare un potere di dissuasione per evitare che eventuali nemici possano attaccarla. Quello che si sta creando nella regione è una sorta di equilibrio del terrore tra le due più grandi potenze emergenti. Analizzando invece la direzione, verso Corea del Sud, Australia ed Emirati Arabi Uniti, degli armamenti, che gli USA producono, si evince la volontà americana di rafforzare la propria strategia di protezione dei propri alleati e delle vie di comunicazione di Oceania, penisola coreana e Giappone e consolidare la propria presenza nel Golfo Persico, dove si è anche registrata una vendita massiccia di aerei da combattimento all'Arabia Saudita.
Particolarmente significativo è l'aumento degli acquisti di armamenti nei paesi attraversati dalla primavera araba, un mercato dove gli USA sono molto attivi, quasi che il risveglio democratico abbia sollecitato la volontà di dotarsi di adeguati strumenti per difenderlo. Ma anche in aree che sembrano più tranquille si è registrato l'incremento della spesa militare; infatti nei paesi sudamericani, in special modo Cile, Venezuela e Brasile l'importazione degli armamenti si è impennata in modo considerevole. In una valutazione globale occorre rilevare che non esistono, alla fine, grandi differenze tra paesi che si avviano a standard più elevati, come la Cina, il Brasile e la stessa India, che grazie alle loro economie hanno compiuto passi da gigante e stati che restano arretrati, su tutti il Pachistan, nei capitoli di bilancio destinati alle spese militari. L'importo della spesa è sempre molto ingente ed il fatto non può che confermare che la pace nel mondo non sia così stabile come si può credere, ma che anzi, si basi proprio sull'equilibrio degli armamenti, che hanno sostanzialmente una funzione dissuasoria dell'atto bellico attivo. Questo fattore rappresenta una estensione di quello che già succedeva negli anni della guerra fredda, con la variazione sostanziale che gli attori coinvolti nel processo non sono più soltanto due. Ciò crea una situazione di maggiore incertezza perchè lo scenario militare si è allargato, comprendendo anche stati dove il meccanismo di potere e quindi di esercizio della forza, non è più così sicuro e codificato come per USA ed URSS. Di fronte a questo proliferare pericoloso degli armamenti, occorrerebbe una moratoria internazionale gestita dall'ONU, ma il grande movimento di denaro generato dall'industria bellica rende vana questa speranza.

sabato 17 marzo 2012

Afghanistan: errori ed evoluzione della politica estera USA

La situazione afghana rischia di arrivare ad un punto di non ritorno, che potrebbe mettere in seria difficoltà sia Obama, che Karzai. Il tragico avvenimento della strage dei civili da parte di un militare americano, inquadrato nella fredda contabilità dei rapporti internazionali, rappresenta soltanto un ulteriore elemento a favore di chi spinge per il ritorno del paese ad una situazione simile a quella vigente con i talebani al governo. D'altronde la sequenza temporale dell'abbandono del tavolo delle trattative in Qatar da parte proprio dei talebani, appena dopo la strage, non fa altro che dimostrare che essi non attendessero un qualunque pretesto per lasciare l'approccio diplomatico. Ma con i talebani svincolati dal processo di pace la prima conseguenza oggettiva è il fallimento della politica di Obama e di Karzai e quindi per l'Afghanistan il destino è quello di ritornare nel caos più completo. Sopratutto a perdere è la politica estera americana, ma non soltanto quella di Obama, anche quella precedente; infatti l'approccio essenzialmente militare, stemperato soltanto negli ultimi tempi da Obama, nal lungo periodo si è rivelato perdente perchè non ha saputo dare al paese asiatico la necessaria stabilità politica attraverso il presidio del territorio. Proprio su questo versante è stata la mancanza più grossa: puntare sull'esclusiva azione bellica, sopratutto nella prima fase, non ha permesso di debellare le formazioni talebane, molto radicate nel territorio, che sono rimaste a presidiare zone chiave da cui fare ripartire l'offensiva. Occorre riconoscere la suprema difficoltà che si erano dati gli USA fin dall'inizio delle operazioni militari: storicamente nessuno è mai riuscito vincitore dal confronto militare con le popolazioni afghane, ma proprio questo assunto doveva fare impostare diversamente la strategia, che doveva essere accompagnata fin dalla partenza da azioni alternative, sia dal punto di vista sociale che diplomatico. Non è azzardato dire che se Obama avesse avuto il comando dall'inizio i risultati potevano essere differenti, ma avendo ereditato una situazione da subito compromessa abbia operato aggiustamenti risultati insufficienti. Nel conto occorre mettere anche l'atteggiamento del Pachistan, che ha ondeggiato troppo spesso tra collaborazione ed ostruzionismo, praticando un doppio gioco che ha favorito essenzialmente le milizie talebane. Ciò a beneficio di quei settori politici presenti ad Islamabad che nutrono ambizioni di portare Kabul entro la propria sfera di influenza. In questo la diplomazia americana ha fatto diversi errori di valutazione, dovuti alla convinzione, in parte giustificata da necessità di equilibri di geopolitica, che il Pachistan fosse l'alleato chiave nella questione afghana. Su questa convinzione assoluta si è basata l'azione della politica estera USA, che non ha saputo elaborare strategie alternative in grado di potere praticare altre vie, ciò neppure quando è stato palese che Islamabad non era affidabile perchè tollerava sul suo territorio Bin Laden. Ben peggiore, però del fatto di avere il massimo simbolo del terrorismo internazionale all'interno dei propri confini, è la protezione che il Pachistan offre alle basi delle milizie talebane, dalle quali partono gli attacchi verso le truppe NATO. Di fronte a questa serie di fattori lo stesso Karzai, per non perdere consensi in patria, si deve dimostrare ostile agli americani, pressato da un lato dall'indignazione popolare, peraltro montata ad arte dagli estremisti islamici, e dall'altro lato, della sempre crescente influenza ed importanza dei talebani. Si inquadra nell'attuale scenario, che deriva da questi presupposti, la necessità della richiesta di tenere le truppe USA all'interno delle proprie caserme in Afghanistan, praticamente soltanto pronte ad essere impiegate in situazioni di emergenza. Se questo nuovo elemento può favorire il piano di rientro elaborato da Obama, nel contempo, ne fa registrare l'ennesimo sintomo del fallimento americano. Per analizzare obiettivamente la situazione che si è creata, occorre stabilire se l'Afghanistan può ancora rappresentare un problema sul palcoscenico del terrorismo internazionale, innazitutto per il mondo occidentale ed in ultima istanza per gli USA. La risposta è complessa perchè deve tenere conto di più elementi difficilmente prevedibili, che non riguardano soltanto l'aspetto essenzialmente del terrorismo, ma anche l'evoluzione delle nuove alleanze economiche che si stanno delineando nella regione. Se si può, se non considerare conclusa, almeno fortemente ridimensionata la minaccia di Al Qaeda, che poteva partire dalle zone afghane, non bisogna dimenticare che intorno a queste zone c'è sempre in ballo il difficile rapporto tra Pachistan ed India, con la Cina che sta percorrendo una strategia di incremento della propria influenza. Perdere il controllo per gli USA potrebbe volere dire abdicare all'uso di un potere di indirizzo che, inevitabilmente, andrebbe a beneficio di qualche altra grande potenza. Senza contare che venendo a mancare l'effetto stabilizzatore di Washington, pur con tutte le sue lacune, potrebbero aprirsi nuovi fronti capaci, con i loro effetti, di portare conseguenze destabilizzanti, ben oltre la regione. Il grande elemento che blocca una soluzione di qualsiasi tipo sono le incombenti elezioni americane, che obbligano Obama a temporeggiare, senza intraprendere soluzioni più drastiche per non causare risultati inattesi in grado di cambiare la percezione della politica estera del Presidente uscente sul corpo elettorale USA. Per ora la politica estera, rappresenta un punto di forza, ma le troppe questioni in bilico rischiano di invertire la rotta, con conseguenze negative per il voto a favore di Obama. Tuttavia la tattica eccessivamente temporeggiatrice del Presidente USA in Afghanistan rischia di essere deleteria per l'equilibrio del paese, senza una scossa che permetta a Karzai di riaffermare la propria autorevolezza, anni di guerra con vittime e notevoli costi economici potrebbero essere stati inutili.

giovedì 15 marzo 2012

Per Pechino la necessità di riformare il proprio sistema politico

Per il sistema poltico cinese è arrivata la resa dei conti? La storia potrebbe presentare per la prima volta la riforma di un sistema politico di tipo rigido, come è il regime di Pechino, non con una rivoluzione violenta, ma per ragioni di economia. Il grande slancio economico cinese, con percentuali di crescita altissime, è nato dall'abbondanza di manodopera a basso prezzo, che ha favorito la delocalizzazione di industrie europee, americane e giapponesi, unito alla grande abbondanza di infrastrutture. Va anche detto che, l'assenza di molte regole sindacali, che potevano rallentare i processi produttivi in patria, ha rappresentato una ragione altrettanto valida per spostare la produzione sul territorio cinese. Tuttavia queste ragioni stanno venendo sempre meno, da un lato la grande crisi economica rallenta la produzione per mancanza di ordini, dall'altro la necessità di alzare il livello della merce prodotta impone un cambio di rotta, che prevede non solo un produzione orientata alla quantità ma necessita anche di aumentare il livello qualitativo dei beni. La Cina ha bisogno di non rallentare la crescita per non avvitarsi su se stessa e per non incorrere in una diminuzione della capacità di acquisto dei cinesi, fattore che ha contribuito non poco a contenere il senso di disagio già di per se elevato. Uno dei punti di debolezza del sistema economico cinese è la troppo elevata partecipazione statale nelle imprese, che blocca la concorrenza ed alimenta il pericoloso divario di diseguaglianza tra città e campagna, fonte di pericolosa instabilità sociale. Per fare ciò è però necessaria una fase di riforme politiche che permetta alla crescita economica di proseguire. In questo senso sembra andare il discorso del premier cinese Wen Jiabao, che ha ammesso la necessità e l'urgenza di riforme politiche. Occorre però non dimenticare che si parla pur sempre della Cina, e quindi le riforme annunciate non possono riguardare un completo sovvertimento dell'ordine presente. Tuttavia le esigenze dell'economia, aggravate dallo stato di crisi internazionale, premono per maggiori liberalizzazioni in senso strettamente politico, sarà quindi per i dirigenti cinesi un vero e proprio esercizio di equlibrismo, elaborare nuove soluzioni che si concilino con il partito unico e la necessità di dare maggiore concorrenza al mercato. Il premier cinese, d'altronde è un fautore di una trasformazione dei meccanismi elettorali interni al partito ed una soluzione sarebbe sottoporre al vaglio del corpo elettorale diversi candidati, di orientamento differente, sempre sotto il simbolo unico del Partito Comunista. Sarebbe già un avanzamento epocale per la rigida struttura di potere cinese, segnata da procedure ferree. Ma forse ciò andrebbe a costituire una variazione troppo traumatica per la stessa maggioranza dei cinesi, non abituati ad esercitare scelte del genere. Forse è più probabile, nell'immediato, un allargamento dei delegati chiamati ad esprimersi su un ventaglio più ampio di questioni, sarebbe una scelta più in linea con i comportamenti del potere cinese, anche se ciò rischia di essere insufficiente per ridare slancio all'economia. In ogni caso queste riforme non riguarderanno i dissidenti, che Pechino ha sempre il medesimo interesse a limitare: troppa libertà non aiuterebbe comunque la crescita economica.

lunedì 12 marzo 2012

I paesi del Golfo Persico di fronte alla possibilità di un conflitto Israele-Iran

La possibile guerra tra Israele ed Iran agita tutto il mondo arabo. Specialmente tra i paesi del Golfo Persico, che si affacciano sulla sponda opposta alla costa iraniana, la preoccupazione è palpabile. Il pericolo di essere trascinati in una guerra santa all'interno dell'Islam, tra i rappresentanti delle due principali dottrine, sciti e sunniti, è concreto, come è concreta la volontà di di costringere l'Iran a rinunciare alla bomba atomica, ma le posizioni rispetto a Teheran non sono omogenee. Malgrado il pensiero comune è che una guerra avrebbe conseguenze catastrofiche, per alcuni paesi potrebbe essere l'occasione per sbarazzarsi di un vicino scomodo per l'equilibrio geopolitico della regione, cancellandone la pericolosa influenza. E' questo il pensiero dei governi di Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait, mentre l'atteggiamento di Emirati Arabi Uniti ed Oman resta più cauto, rispettivamente, infatti, i due paesi hanno un approccio più morbido verso l'Iran, che vede gli Emirati Arabi Uniti propendere per le sanzioni, come mezzo di dissuasione, mentre l'Oman è totalmente contrario ad un impegno bellico. L'atteggiamento più duro è quello dell'Arabia Saudita perchè coinvolge motivazioni religiose, geopolitiche ed anche economiche. Dal punto di vista religioso tra i due paesi si gioca la partita più dura per la supremazia religiosa all'interno della religione islamica, la teocrazia nata dalla fine del dominio dello Scià, ha messo in discussione l'autorità religiosa saudita sui luoghi santi de la Mecca e di Medina ed ha usato questo confronto ripetutamente per influenzare le minoranze scite presenti nella sponda del Golfo Persico prospiciente alla costa iraniana. Secondo i sauditi sarebbe stato infatti l'Iran ha fomentare le rivolte scite che si verificate nello scorso anno in corrispondenza della fase più acuta della primavera araba, nei paesi confinanti con Riyad, che hanno determinato l'invio di truppe dell'esercito dell'Arabia Saudita per proteggere la monarchia del Bahrain. Si arriva così al paradosso che l'Arabia Saudita e lo stesso Bahrain, vedrebbero favorevolmente un attacco israeliano capace di indebolire l'Iran, tuttavia i due stati, per ora stanno alla finestra perchè la sicura risposta iraniana viene valutata come elemento capace di coinvolgere direttamente i due paesi in una ritorsione militare, sopratutto per la presenza di basi americane sui loro territori. Tuttavia l'atteggiamento dei due paesi, pur restando di attesa, è chiaramente ostile a Teheran, lo dimostra anche il fatto dell'attività saudita nel caso siriano, dove Riyad sarebbe favorevole ad un intervento militare, che non viene però appoggiato dagli altri paesi del Golfo e quindi opta per un rifornimento continuo di armi ai ribelli schierati contro Assad. Non si deve pensare che l'Arabia Saudita, stato dove vige un regime profondamente illiberale, faccia questo per favorire un processo democratico a Damasco, la ragione riguarda esclusivamente valutazioni geopolitiche, infatti lo scopo è togliere dall'influenza iraniana il territorio chiave siriano. Ma gli altri paesi del Golfo hanno un atteggiamento più prudente, perchè devono valutare l'impatto di un eventuale confronto con l'Iran che ripercussioni avrebbe sulle minoranze scite, che compongono il loro stato sociale e che sono fondamentali per il funzionamento delle loro economie. Fornire un nuovo pretesto di agitazione sociale, non è il massimo per i governi di Oman ed Emirati Arabi Uniti. Anche l'aspetto economico non è secondario: una guerra altererebbe la produzione del greggio con evidenti ripercussioni sulle economie dei paesi produttori, oltre che dei consumatori. Ma esiste un ulteriore aspetto da non sottovalutare: le posizioni più o meno radicali contro l'Iran dei governi non sono condivise dalla popolazione, che vedono Israele e gli USA come una minaccia per il mondo arabo, al contrario di una piccola minoranza che invece percepisce Teheran pericoloso. E' pur vero che non siamo in paesi dove vige la democrazia, ma se anche i sunniti continuano a vedere meno pericolosi gli sciti, perchè in fondo di questo si tratta, rispetto agli israeliani, cosa forse scontata, ma anche agli americani, fattore non del tutto ovvio per le lunghe alleanze sia politiche che militari presenti, la valutazione che devono fare i governi contro l'Iran, deve tenere necessariamente conto di questa tendenza. In ogni caso con questa analisi, alla questione si aggiungono ulteriori elementi di incertezza, che ancora meno consentono previsioni precise sugli sviluppi futuri.

Gli scenari possibili di un attacco di Israele all’Iran

Se si analizzano le opzioni militari per un eventuale attacco israeliano all’Iran, occorre partire dalla assoluta mancanza del fattore sorpresa, spesso determinante per l’esito di una azione bellica. Ciò non è da ritenere una mancanza dello stato maggiore di Tel Aviv, ma una precisa strategia politica elaborata per tenere sotto pressione, con le sanzioni americane ed europee lo stato iraniano. Tuttavia i progressi della ricerca nucleare di Teheran sono stati solo rallentati ma non fermati. Secondo alcuni analisti se l’Iran doveva essere colpito, il momento era intorno al 2002 o 2003, quando il programma nucleare era all’inizio, per stroncarlo sul nascere. Adesso la situazione è peggiorata perchè i dieci anni trascorsi hanno dato tempo a Teheran, oltre che per procedere con la ricerca, anche di organizzarsi nascondendo i suoi siti ed evolvere la propria strategia di difesa. Per Israele la minaccia è però insostenibile e all’interno dello stato cresce la volontà di azione, sopratutto nel governo. Guardando alla dotazione aerea israeliana, l’arma con cui Tel Aviv intende agire contro l’Iran, si evince la difficoltà di portare avanti questo progetto da solo come ha più volte minacciato Benjamin Netanyahu. L’aviazione militare israeliana, infatti è dotata di velivoli pensati per un conflitto di difesa e non di attacco, che non hanno la grande autonomia di volo necessaria per coprire i 1.600 chilometri che separano Israele dall’Iran. Oltre il fattore distanza, è da prendere in considerazione che il volo dei bombardieri con la stella di David non sarebbe lineare sull’obiettivo, in quanto la forza aerea iraniana opporrebbe una resistenza capace di impedire l’accesso ai cieli di Teheran. La necessità del rifornimento in volo diventa fondamentale, senza i grandi aerei cisterna, di cui Israele non disporrebbe, l’attacco aereo rimane una minaccia impraticabile. Per superare questa difficoltà tecnica insormontabile, esistono diverse opzioni, la prima delle quali è la partecipazione degli USA al conflitto. Con gli Stati Uniti impegnati con i propri mezzi, almeno nella fase logistica, per Israele il problema sarebbe superato, ma per il momento Obama non vuole forzare la mano, almeno prima di arrivare alle elezioni, ed anche un impiego obbligato delle forza armate americane, dettato da un’entrata in guerra di Israele non concordata, avrebbe delle ricadute diplomatiche tra i due stati con conseguenze fortemente negative. Per ovviare a questa causa ostativa, se Israele continuasse nel suo proposito di attaccare da solo potrebbero aprirsi nuovi scenari. Il coinvolgimento della Giordania, dove sono appena state costruite installazioni missilistiche in grado di proteggere Israele, potrebbe essere una opzione, ma occorre valutare una ritorsione iraniana contro un paese sunnita, il che potrebbe innescare una guerra santa in seno all’Islam, un regolamento di conti più volte minacciato tra sciti e sunniti, con l’Arabia Saudita in prima fila contro Teheran. Si tratta di un’opzione terribile per le conseguenze possibili e probabili, che gli USA, verosimilmente avversano, temendo un coinvolgimento in grande scala del proprio esercito. Un’altra possibilità è il passaggio degli aerei israeliani da altri paesi per potere effettuare percorsi più brevi. Una possibilità è offerta dall’Iraq, che non è dotato di difese antiaeree, ma che non darebbe mai il benestare al passaggio per bombardare un paese scita, con cui sta intessendo rapporti. Il sorvolo non autorizzato verrebbe condannato dall’opinione pubblica internazionale, perchè effettuato in dispregio del diritto internazionale. Vi sono ancora due opzioni, una è usare basi turche, ma i pessimi rapporti attuali tra i due stati non danno la minima possibilità a questa evenienza e neppure pare possibile convincere uno stato confinante con l’Iran dal lato europeo come Gerogia o Armenia ad ospitare le basi degli attacchi, per non essere coinvolto in una spirale di guerra e terrorismo che ne potrebbe minare la stabilità. Se queste considerazioni sono vere l’attacco israeliano in solitaria appare soltanto una minaccia impossibile da portare a termine se non con l’aiuto USA, ma il sentimento di paura crescente potrebbe portare a pessime determinazioni. Tuttavia nell’attesa della fine delle elezioni americane, quello che sembra più probabile è la ripresa in grande scala della guerra segreta, che Tel Aviv sembra avere interrotto. Per il momento è l’unica strada praticabile per contrastare la ricerca nucleare iraniana.

venerdì 9 marzo 2012

Siria: le ragioni del non intervento

Mentre continuano i massacri della repressione siriana, è lecito interrogarsi sul perchè del mancato intervento internazionale, come accaduto ad esempio in Libia. Pur essendo vero il fatto che in questa occasione Cina e Russia tengono bloccata, con il loro veto in sede di Consiglio di Sicurezza, una possibile azione della Nazioni Unite, risulta essere altrettanto veritiero il fatto che nessuna nazione osa mettersi contro il regime di Assad, come fu fatto con Gheddafi, quando Francia ed Inghilterra iniziarono i bombardamenti su Tripoli in anticipo sulla decisione dall'ONU. Per ora la tendenza di USA ed UE, i soggetti che più probabilmente potrebbero agire in difesa della popolazione siriana, è di esercitare una pressione diplomatica sempre più forte su Damasco, tramite sanzioni che stanno diventando sempre più aspre, ma che non ottengono alcun risultato. La ragione principale dell'immobilità occidentale, in special modo americana, è il rischio di un'accelerazione del conflitto con l'Iran, sul quale Obama sta prendendo tempo. Questa motivazione gioca a favore di Assad, ben conscio che se la Siria fosse messa sotto attacco, Teheran non esiterebbe a rispondere in sua difesa. Anche il belligerante atteggiamento israeliano, tenuto a freno a stento da Washington, gioca a favore del regime siriano, perchè alza la temperatura nella regione e costituisce un elemento di distrazione dalla repressione. Per Obama, forse più che per gli USA, il momento è il meno propizio per imbarcarsi in una nuova operazione militare, alla vigilia delle elezioni, infatti, un nuovo impegno bellico potrebbe spostare un buon numero di voti da uno schieramento all'altro. In quest'ottica va forse letta la dichiarazione del senatore Mc Cain, sfidante repubblicano di Obama alle scorse elezioni presidenziali, in favore di bombardamenti dal cielo sulle forze regolari siriane per fermare i massacri. Va però detto che le difese militari di cui dispone la Siria sono ben più avanzate di quelle di Gheddafi ed in un'azione contro Damasco va messo in conto un potenziale numero di perdite maggiore. Resta il fatto che secondo le Nazioni Unite il numero di morti oltrepassa le 7500 unità ed il mondo non può continuare ad ignorare una qualche forma di intervento ben più pesante delle sanzioni. I paesi arabi, dal canto loro continuano a perseguire l'idea di armare i ribelli, soluzione però già manifestamente insufficiente per la forza e la qualità delle truppe siriane, che, inoltre, dispongono dell'appoggio di milizie iraniane ed Hezbollah; inoltre l'estrema divisione dell'opposizione siriana, che abbraccia un vasto panorama che va da movimenti democratici ad integralisti islamici, non facilita il compito di trovare un interlocutore univoco per un'eventuale operazione militare. Anche trovare una sponda favorita da eventuali defezioni dall'apparato di regime, per combatterlo dal suo interno, risulta molto difficile per la ramificazione estesa fin dentro i più piccoli centri di potere, costruita dalla setta alawita di Assad. Tuttavia ormai il presidente siriano risulta ormai non più presentabile agli occhi del mondo, anche per i pochi alleati importanti che gli sono rimasti. La stessa Russia, pur mantenendosi ferma nelle proprie posizioni, ha più volte richiesto, non ascoltata, la fine della repressione, segno di profondo disagio di fronte al panorama internazionale. Soltanto Ahmadinejad continua ad appoggiare Assad ed a sposarne le tesi che giustificano la repressione, come legittima difesa contro attacchi terroristici. Ma l'isolamento del mondo e la sua avversione, per il momento non consentono una caduta rapida e la fine delle violenze. In queste condizioni pur potendo prevedere anche una certa resistenza, la vittoria finale sullo scenario siriano è tutta per Assad, anche se le previsioni sulla sua permanenza al potere sul lungo periodo non possono che essere negative. Intanto occorre stare a vedere cosa farà Israele: se dovesse attaccare l'Iran, per la Siria verrebbe meno una delle ragioni che gli hanno permesso di agire impunemente con la repressione. Se l'intenzione sarà di cancellare il regime iraniano, anche per quello siriano sarebbe la fine, perchè a quel punto sarebbe più facile intervenire anche per altri paesi. Ma anche senza conflitti non pare praticabile una permanenza di Assad al potere, la situazione è irrimediabilmente compromessa e non è peregrina la possibilità di una incriminazione alla Corte dell'Aja, in quel caso una via di uscita potrebbe essere un esilio dorato in Russia per il dittatore ed il suo gruppo di potere.

I fatti del Kerala, pericoloso precedente per il diritto internazionale

Il fatto dei soldati italiani, impegnati come scorta contro la pirateria in mare di una nave mercantile, imprigionati in India con l'accusa di avere ucciso due pescatori, rischia di creare un pericoloso precedente nel diritto internazionale. I fatti si sono svolti nel mare di fronte allo stato del Kerala, in una zona di passaggio delle navi mercantili ma anche dove operano, con le loro reti, i pescherecci indiani; una pratica di questi pescherecci è di deviare la rotta delle grandi navi cargo, per evitare che queste rompano le reti da pesca durante il loro passaggio. Questa pratica viene attuata avvicinando le navi con piccole barche, la pratica ricorda l'azione dei pirati, che usano mezzi piccoli e veloci per abbordare i grandi mercantili e prenderli in ostaggio. Dopo i ripetuti casi di pirateria, che hanno obbligato diversi stati a schierare navi militari nelle acque internazionali del Mare Arabico, gli armatori civili hanno scelto di ingaggiare militari professionisti, con l'avvallo del proprio stato, a bordo delle navi per difenderle dagli attacchi. Se nell'episodio di cui si parla si sia trattato di tragico errore o di effettivo attacco di pirati, non è ancora stato chiarito del tutto, anche perchè le autorità indiane hanno immediatamente cremato i corpi delle vittime, senza neppure effettuare l'autopsia di rito. Quello che importa è che il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali, come stabilito dalle misurazioni effettuate attraverso i satelliti. Nel Kerala, stato dove sono imminenti le elezioni, si registra una ampia ostilità verso l'Italia, dovuta alle origini di Sonia Gandhi, leader del Congresso Nazionale Indiano, uno dei principali partiti del paese. In questo stato, come in altre zone dell'India non è mai stato accettato che una straniera diventasse una delle figure più potenti del paese, cosa che si può anche comprendere in una nazione che è uscita in tempi relativamente recenti dalla dominazione coloniale. Ma questa è una questione interna, che va ad interferire con le norme che regolano il diritto tra gli stati. Un caso del genere è destinato a fare da scuola per il diritto internazionale e forse anche creare un pericoloso precedente in grado di generare questioni, conflitti e ritorsioni in una materia che deve essere, al contrario sempre più sicura ed affidabile. La prassi dice che per un fatto del genere, cioè l'episodio potenzialmente delittuoso, accaduto in acque internazionali, la giurisdizione spetta al paese per il quale batte bandiera la nave. Lo stato del Kerala, facendo intervenire le proprie forze armate e facendo pressione sull'armatore, con il ricatto di vietare alle sue navi l'approdo nei porti dello stato, ha interrotto questa norma riconosciuta dal diritto internazionale, soltanto per una questione interna, riguardante la propria competizione elettorale. Se i militari italiani, ora detenuti nelle carceri dello stato indiano, dovessero essere anche solo giudicati, cosa che in parte è già avvenuta, dalla corte del Kerala si verrebbe a creare un precedente pericolosissimo in grado di bloccare, potenzialmente, i commerci marittimi. E' singolare che intorno alla questione la disputa continui ad essere circoscritta alle diplomazie di Italia ed India, senza che dall'ONU si levi voce alcuna. Quello che appare è che non si voglia disturbare una potenza emergente come l'India anche in presenza di una violazione palese del diritto internazionale per cui, anzi, dovrebbe essere sanzionata. La speranza è che tutto si chiuda dopo le elezioni del Kerala e si arrivi ad una ricomposizione della questione. Tuttavia quello accaduto segnala una pericolosa deriva verso cui si muove il mondo. Ancora una volta particolari interessi locali vanno oltre l'applicazione delle regole comuni sovranazionali, esercizio necessario necessario per governare un mondo dove i confini nazionali vengono sempre più superati, sia per fattori economici, che tecnologici, che politici. Il nuovo assetto mondiale ha bisogno sempre più di leggi sovra statali il più possibile condivise, che tutelino l'universalità dei rapporti. Purtroppo il fatto del Kerala è l'ennesima spia di una tendenza sempre più presente che cerca di anteporre l'interesse particolare al generale, anche quando questo interesse è palesemente interesse di parte, distorcendo così la visione del rapporto internazionale stesso.