Politica Internazionale

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venerdì 28 dicembre 2012

Se Londra esce dalla UE

La tendenza dell'euroscetticismo esce dalle stanze del potere britannico per diffondersi tra la popolazione. Un recente sondaggio, tenuto quasi contemporaneamente alla ricorrenza dei quarant'anni di partecipazione di Londra alla Comunità europea, parla di un 51% di favorevoli ad abbandonare l'unione, vista sempre meno come un'opportunità, ma piuttosto interpretata come un insieme di vincoli e regole che soffocano la tradizionale liberalità inglese. Va detto che Cameron ultimamente è stato scavalcato a destra, in questa tendenza, dal Partito dell'indipendenza del Regno Unito, che, seguendo la tendenza continentale dell'affermazione dei partiti populisti, fa dell'abbandono della UE il proprio cavallo di battaglia. La paura dei conservatori di perdere consensi proprio a causa di un argomento sviluppato dal loro partito, potrebbe accelerare il processo verso il tanto proclamato, ma mai indetto, referendum popolare per uscire ufficialmente da Bruxelles. Cameron ed il suo partito hanno costruito una strategia intorno a questo tema, con il chiaro intento di prendere soltanto i lati positivi dell'appartenenza all'Unione e, nel contempo, ricattarla con minacce di uscita, sopratutto nei momenti più difficili della lotta alla crisi. Ora se si verificasse ciò che sembra voglia il popolo britannico la soddisfazione potrebbe essere duplice, almeno in apparenza. In realtà per la Gran Bretagna, e sopratutto per Cameron, si aprirebbe un periodo pieno di incognite e di difficoltà senza il paracadute dell'Unione. Viceversa, finalmente, per Bruxelles sarebbe sgravata da un grosso ostacolo al proprio sviluppo, sopratutto nell'ottica del percorso dell'unione politica. L'Unione Europea non deve avere paura dei contraccolpi, che possono essere di esclusiva natura di immagine, l'eventuale uscita di Londra può liberare enormi energie capaci di velocizzare un'unione incompleta nel lato economico e fortemente indietro nell'integrazione politica, elemento essenziale per permettere al continente di mettersi al pari dei competitor internazionali. Londra può andare incontro al suo magnifico isolamento, che la conformazione geografica mai ha aiutato a superare, potrà insistere nelle proprie speculazioni finanziarie, ma finalmente sotto la propria esclusiva responsabilità e tanti auguri per il vessillo di San Giorgio (peraltro mutuato dalla Repubblica di Genova). A quel punto Bruxelles non avrà più pesi a rimorchio perchè si scatenerà un effetto domino che costringerà all'allineamento, pena l'esclusione, i membri più riottosi alle rinuncie di porzioni di sovranità nazionali e locali. Se Londra uscirà dell'Unione, magari nel breve periodo potrà conseguire vantaggi, ma già nel medio e sicuramente nel lungo periodo gli aspetti positivi saranno tutti per l'Unione Europea.

venerdì 21 dicembre 2012

L'ONU interverrà nel Mali

Il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite ha approvato all'unanimità una risoluzione che prevede l'utilizzo di una forza militare internazionale, con lo scopo di fornire aiuto al Mali, sia sul piano militare, attraverso la ricostruzione del suo esercito, sia sul piano del controllo della parte settentrionale del suo territorio, occupata attualmente da gruppi armati vicini ad Al Qaeda. La proposta, di matrice francese, prevede una presenza militare nel paese, per almeno un anno; i soldati che comporranno questa forza dovranno appartenere a nazioni confinanti, con il chiaro intento di favorire una maggiore integrazione con gli effettivi nazionali senza fare sentire una matrice neocolonialista per l'operazione, mentre i paesi europei forniranno un sostegno logistico e di assistenza per la ricostruzione materiale dell'esercito del paese. Il ruolo di questa forza internazionale sarà quindi duplice, effettuare la ripresa della sovranità sui territori in mano agli estremisti islamici attraverso operazioni militari che riducano la forza degli occupanti ed ottenere, attraverso una fornitura adeguata di armi ed un apposito addestramento, rendere autosufficiente l'esercito nazionale del Mali. Queste operazioni sono propedeutiche ad una azione più politica, che permetta di fare ripartire il dialogo per ristabilire l'ordine costituzionale, in vista della consultazione elettorale per l'elezione del Presidente, prevista per aprile 2013. La finalità della decisione delle Nazioni Unite, non è solamente quella di aiutare il Mali a riprendere la sua sovranità ed il suo percorso politico, ma riguarda anche il diretto interesse delle nazioni occidentali, che guardano con apprensione a quella porzione di territorio del paese in mano a movimenti vicini ad Al Qaeda e che, potenzialmente, può costituire una base importante per la ripresa del movimento, ad una distanza relativamente vicina all'Europa. Sulla decisione, finalmente a maggioranza assoluta, del Consiglio di sicurezza si registra come l'unità d'intenti dei membri sia pervenuta soltanto relativamente ad una zona più defilata dalle contese più rilevanti e politicamente significative, una ragione in più per sostenere con ancora più forza la necessaria riforma tanto auspicata da diverse nazioni, ma osteggiata da quelli che, dalla fine della seconda guerra mondiale, detengono il potere sovradimensionato del diritto di veto.

giovedì 20 dicembre 2012

In Asia si può sviluppare una nuova guerra fredda

Con l'elezione della conservatrice Park Geun-hye alla presidenza della Corea del Sud, si chiude il trittico dei rinnovi di governo nell'area destinata a diventare centrale nelle analisi delle questioni internazionali. Il Sud-Est asiatico aveva già visto la salita la potere di Xi Jinping in Cina e di Shinzo Abe in Giappone. Si tratta di tre leader che hanno in comune una visione che pare eccessivamente nazionalista e, forse, poco propensa al dialogo; non sono le qualità più indicate per affrontare l'evoluzione della situazione di una regione sempre più caratterizzata da potenziali instabilità a causa di molteplici fattori di contrasto. A questo si deve aggiungere la mutata strategia statunitense, che ha messo al centro della propria azione l'area meridionale dell'Oceano Pacifico. Essenzialmente le cause di conflitto potenziale risiedono nel confronto per il possesso di piccoli arcipelaghi tra Cina e Giappone, tra Giappone e Corea del Sud, la già citata strategia americana che irrita i cinesi e la minaccia nucleare della Corea del Nord. Come si vede un complesso di situazioni capace di scatenare quella che, non a torto, è stata definita come la nuova guerra fredda dell'Asia. L'equilibrio già fortemente instabile e destinato a peggiorare ulteriormente, proprio grazie ai risultati elettorali o, comunque, ai diversi cambi di potere, ha già scatenato una preoccupante corsa agli armamenti, che pare dirigersi verso il già sperimentato equilibrio del terrore. Xi Jinping, il primo leader a salire al potere, ha presentato un volto falsamente conciliante, propugnando una crescita cinese nel rispetto degli altri paesi. Questa premessa, tuttavia, aveva solo lo scopo di rendere meno preoccupante il resto del suo programma. In realtà ciò non è bastato ad allarmare i vicini e gli USA: la volontà cinese di migliorare le forze armate più grandi del mondo nella capacità di combattere guerre regionali, spiega ampiamente quale sia l'intendimento della nuova leadership di Pechino. Il budget cinese per gli armamenti nell'ultimo decennio ha avuto un incremento costante e soltanto nel 2012 sono stati stanzianti 80.423.000 di euro, spesi per costruire la prima portaerei cinese e migliorare generalmente tutta la struttura della marina militare, col chiaro significato che l'elemento acqueo acquisterà sempre maggiore centralità nella strategia complessiva della Cina. Ciò ha preoccupato subito il Giappone che è parte in causa sulla disputa delle isole con il governo cinese. Shinzo Abe, nuovo premier giapponese, ha fatto del nazionalismo una delle sue bandiere elettorali ed a poco sono valse le sue parole, dopo l'elezione, verso la Cina, che sottolineavano come Pechino rappresentasse il più grande partner economico del Giappone. Una delle intenzioni del nuovo premier è però quella di continuare la linea della spesa degli armamenti, talmente ingente da porre il budget di Tokyo al sesto posto nel mondo dei bilanci militari. Le intenzioni di Abe sono di fare pressione sugli USA affinchè limitino la crescente potenza cinese sia dal punto di vista militare che economico. Pechino individua nell'atteggiamento USA una ingerenza nella sua volontà di sviluppo pacifico, le continue critiche di Washington alle spese militari cinesi provengono da una nazione che destina ben il 2% del suo PIL, contro l'1,8% cinese e rappresentano, agli occhi della Cina, una volontà imperialista sulla regione, che si sta attuando con la fitta rete di alleanze sviluppata da Washington in chiave anti cinese. Gli accordi stretti con Filippine, Vietnam, India e Myanmar, paesi relativamente vicini al territorio cinese, danno a Pechino la sensazione di essere circondata e generano, in una nazione in forte espansione, sentimenti di grande sospetto. Ma anche gli Stati Uniti hanno le loro rimostranze verso Pechino, che sono legate sopratutto, all'azione non sempre univoca della Cina nei confronti della Corea del Nord. Per gli americani i cinesi non fanno molto affinchè Pyongyang interrompa i propri esperimenti nucleari ed il sospetto nell'amministrazione a stelle e strisce è che la Corea del Nord sia uno strumento di pressione verso l'Occidente. Ma anche nella stessa orbita americana vi sono dispute che possono mettere in pericolo i rapporti di alleanza; è il caso della contesa tra Giappone e Corea del Sud per le isole Takeshima, anche se a preoccupare maggiormente Seul è il comportamento sempre imprevedibile di Pyongyang; l'argomento è particolarmente sensibile anche per la politica interna della Corea del Sud, in quanto esiste un movimento di opinione molto consistente che auspica un miglioramento sensibile delle relazioni tra i due paesi, con il fine, in un futuro non si sa quanto prossimo, di unificare la penisola coreana. Le diverse situazioni concorrono a rendere sempre più incerto l'equilibrio di un'area sempre più importante per l'economia del pianeta, sia dal punto di vista della produzione delle merci, che del loro trasporto. Non è azzardato dire che le possibilità di superamento dell'attuale crisi economica globale, passano, in gran parte, dagli sviluppi che prenderanno le diverse situazioni che compongono lo scenario della regione, sia a livello singolo, che globale.

La Corea del Sud ha eletto, per la prima volta, un presidente donna

Park Geun-hye, sessanta anni, è la prima donna a diventare presidente della Corea del sud. Di orientamento conservatore, la nuova presidentessa del paese che vanta la quarta economia asiatica, è la figlia del dittatore Park Chung-hee, che prese il potere con un colpo di stato nel 1961 e fu assassinato nel 1979. Per i crimini del genitore, Park Geun-hye, ha espresso le scuse al popolo coreano, durante la campagna elettorale. Il risultato della consultazione ha dato la maggioranza, alla vincitrice con il 51, 6% dei voti, rispetto al 48% del suo rivale, il progressista Moon Jae-in. Anche in Corea del sud, malgrado una crescita positiva, ma più contenuta rispetto al passato, il tema centrale delle contesa elettorale è stata l'economia e la gestione della crisi. Il cosiddetto miracolo coreano sembra ormai un ricordo a causa della crisi delle esportazioni, per altro per ragioni più che altro esterne alle dinamiche coreane, il cui calo ha prodotto una contrazione della crescita del PIL, salito appena del 2% dall'inizio dell'anno. Il rilancio dell'economia è stata, quindi, la promessa che ha determinato la vittoria alle elezioni della neo eletta presidentessa; la quale ha anche promesso di migliorare la sicurezza dei luoghi di lavoro e di volere promuovere condizioni di maggiore equità. Il rilancio economico è individuato nella promozione della piccola e media impresa, piuttosto che un rafforzamento dei grandi gruppi del paese, che in realtà hanno trasferito la maggior parte della loro produzione in altri paesi, a causa del minor costo della manodopera. Questo fattore, della delocalizzazione produttiva, è stato individuato come una delle cause dell'indebolimento della classe media e per la sempre maggiore mancanza di posti di lavoro qualificati, sopratutto per i giovani. La nuova presidentessa della Corea del Sud, intende, invece, attraverso una politica di incentivi promuovere le aziende minori, rispetto alle multinazionali, per la creazione di nuovi posti di lavoro sul territorio nazionale. In politica estera il paese non dovrebbe subire grandi variazioni: le relazioni bilaterali principali saranno sempre con gli Stati Uniti, con i quali saranno rinforzate le relazioni commerciali ma sopratutto militari, in un'ottica di protezione dalle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dal profilarsi del possibile peggioramento con la Cina.

mercoledì 19 dicembre 2012

Egitto: per Mursi sempre più problematico il rapporto con la magistratura

In Egitto la questione della costituzione si complica: il vantaggio dei si, cioè il voto favorevole alla promulgazione della nuova carta fondamentale, ha riscosso un margine ben più basso che quello previsto e ciò determina un valore meno rilevante del risultato della consultazione per il Presidente Mursi. Questo risultato aumenta la pressione delle opposizioni, che continuano a mettere in dubbio la legittimità del procedimento, anche in relazione alle molteplici segnalazioni di irregolarità, che avrebbero condizionato l'esito della votazione. La sensazione generale che una consultazione così importante sia stata viziata da diversi episodi non conformi, getta molto discredito su quello che Mursi voleva fare apparire un processo limpido proveniente dal popolo, per accreditarlo come una via islamica alla democrazia. Va detto che se esistevano forti dubbi sulle reali intenzioni e sull'effettivo senso della democratico del Presidente egiziano, gli ultimi interrogativi sulla regolarità del voto, non fanno che aggravare il giudizio sulla transizione egiziana. Quello a cui si trova davanti l'opinione pubblica internazionale pare essere tutto tranne uno stato che possa definirsi democratico, l'Egitto sembra passato da un regime dittatoriale laico ad uno confessionale, con l'unica differenza che quest'ultimo vuole darsi una patina di democrazia, con tentativi, peraltro maldestri. Nell'attesa della seconda fase del plebiscito, si segnala la forte opposizione della magistratura, che in quanto custode del diritto non può sottrarsi ad esprimere la sua contrarietà allo sviluppo della questione. Perfino il nuovo procuratore generale, nominato dallo stesso presidente egiziano e fortemente sospettato di parzialità, ha rassegnato le dimissioni dalla sua carica, lanciando un chiaro segnale del malessere presente nel potere giudiziario. Quello con tra magistratura e presidente, peraltro, è un rapporto molto deteriorato, praticamente alla pari con quello dell'opposizione dei partiti laici. Mursi combatte con il potere giudiziario una partita sulle regole e la contesa è diventata ancora più aspra dopo la promulgazione della legge che consegnava alla massima carica del paese poteri addirittura superiori a quelli di Mubarak. Se questa mossa ha smascherato la profonda avversione alla democrazia di Mursi, ne ha svelato anche la profonda ingenuità e l'avventatezza sul piano politico: infatti soltanto uno sprovveduto, oppure un personaggio totalmente manovrato dai partiti usciti vittoriosi dalle elezioni, poteva credere che un tale provvedimento sarebbe passato con facilità dopo tutta la lotta combattuta dal popolo egiziano contro Mubarak. Ma il confronto con la magistratura rischia di peggiorare ancora a causa del boicottaggio annunciato da gran parte dei giudici del Consiglio di Stato per la seconda tornata referendaria, che complica l'effettivo svolgimento, dal punto di vista pratico, della consultazione. Resta, poi, ancora lo scoglio maggiore per Mursi e l'approvazione della Costituzione: i tanti probabili ricorsi per le irregolarità in sede di voto, annunciati dalla opposizione, che, se accertati, costituiranno reati di ordine penale e che possono andare a creare un cortocircuito istituzionale con l'organo di presidenza, capace di portare il sistema ad un blocco.

martedì 18 dicembre 2012

L'offensiva diplomatica della Palestina

Il recente trionfo diplomatico dei palestinesi all'ONU, deve essere valorizzato al massimo attraverso una nuova offensiva diplomatica, che costringa Israele a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. Sarebbe questo l'intendimento dei dirigenti palestinesi per combattere lo stato di crescente nervosismo presente in Cisgiordania come nella striscia di Gaza, portato a livelli pericolosi dalle ritorsioni israeliane per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, con dignità di stato indipendente. Il tentativo di edificare nella zona E1, con il chiaro intento di interrompere la continuità territoriale palestinese, elaborato in dispregio del diritto internazionale e poi bloccato sotto lo sdegno delle cancellerie occidentali unito alla disposizione di confiscare il denaro da destinare all'Autorità Palestinese proveniente dalle tasse riscosse da Tel Aviv, sta creando concretamente il pericolo che si verifichi una terza intifada. Se, in teoria, entrambe le parti dovrebbero avere interesse che ciò non si verifichi, in realtà per Israele potrebbe tradursi in un'occasione per mostrare ancora di più i muscoli, come la politica dell'esecutivo in carica ha fino ad ora fatto, costruendo una linea politica, nei confronti dei palestinesi, niente affatto basata sul dialogo. La risposta palestinese, viceversa, vuole vertere su armi di tipo diplomatico, che si basano, innanzitutto sulla simpatia registrata nella sede delle Nazioni Unite, proveniente da diverse nazioni del pianeta. In effetti non si tratta di un sentimento fine a se stesso, ma la consapevolezza, ormai diffusa a livello mondiale, della necessità di mettere fine all'annosa questione della creazione dello stato palestinese, che costituisce sempre una potenziale minaccia, anche solo come pretesto, alla stabilità regionale e con ampi riflessi sul vasto panorama delle relazioni internazionali. La proposta palestinese verso Israele, che dovrebbe essere presentata nel prossimo gennaio, si articolerebbe sulla ripresa delle trattative dal punto in cui furono interrotte nel 2008, alla condizioni dello stop agli insediamenti di Tel Aviv nei territori arabi ed il rilascio dei prigionieri della Palestina. La durata massima delle trattative dovrebbe essere fissata in sei mesi, durante i quali si cercherà di raggiungere un accordo, che preveda, finalmente, la creazione dello stato di Palestina e la relativa definizione certa dei confini. Se questa proposta dovesse essere formalizzata Israele non avrebbe scusanti per sottrarsi alle trattative, che sono viste, anche se non in forma ufficiale, con favore da Obama sempre impaziente di chiudere la partita. Va detto, ancora, che su Israele grava la minaccia, molto temuta a Tel Aviv, di essere citato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra, se la richiesta palestinese di adesione all'organismo internazionale verrà accettata. Non è però detto che questa arma, letteralmente puntata su Israele, venga usata, sembra, piuttosto, una opzione di riserva, nel caso il governo israeliano non accetti di sedersi al tavolo delle trattative. Il leader dell'ANP ha, intanto,intrapreso un tour diplomatico, che toccherà i principali paesi europei per perorare la causa della creazione dello stato palestinese.

lunedì 17 dicembre 2012

L'Italia alla prese con l'incertezza elettorale

Il futuro dell'Italia, probabilmente a due mesi dalle elezioni, si fa sempre più incerto. Se fino a poco tempo fa la vittoria del principale partito di opposizione al governo Berlusconi, il Partito Democratico, era fortemente probabile, la ridiscesa in campo del presidente del Consiglio che ha preceduto Mario Monti, ha avuto l'effetto di scompigliare le carte. Berlusconi in un estremo tentativo di tenere uniti quelli che lui stesso definisce moderati, ha offerto al dimissionario premier in carica, la leadership dello schieramento di centro destra, ma in maniera alquanto confusa e maldestra. In realtà ciò è stato solo in apparenza, Berlusconi, in base ad un preciso piano politico, ha fatto a Monti una offerta irricevibile perchè partita da un settore politico che lo aveva appena sfiduciato, inserendo nell'ipotetica coalizione anche la Lega Nord, partito che ha fortemente fatto opposizione alla politica rigorista del governo in carica. Ciò ha provocato la compattazione delle formazioni che stanno al centro ed invece, si riconoscono nell'azione, sopratutto economica, del rettore dell'Università Bocconi: Mario Monti. Forti del consenso espresso in campo internazionale, sopratutto europeo e della benedizione della Chiesa Cattolica, da sempre molto influente nella penisola, i partiti di centro, sia di ispirazione cristiana, che le nuove formazioni che si richiamano ad una politica liberista inquadrata in un rigore europeo, cioè fuori dalla concezione di Berlusconi favorevole ad un liberalismo più propenso ad una spesa pubblica finanziata dal debito, hanno fatto pressing su Mario Monti per coinvolgerlo fino a farlo diventare il leader di un movimento che auspica la continuazione dell'esperienza del governo dei tecnici. Il Presidente del Consiglio, che fino ad un mese prima dichiarava di non volere prolungare l'esperienza alla guida del paese, pare ora concretamente tentato di prolungare la sua carica. Questa mossa pare dettata dalla consapevolezza che una eventuale vittoria del Partito Democratico, che lo ha lealmente sostenuto anche contro il proprio elettorato, possa determinare una virata della politica del paese, in favore del ceto medio, quello che ha sostenuto fino ad ora il costo imposto dal governo in carica. Il Partito Democratico, una versione molto annacquata di qualunque forza definita di sinistra, è alleato con il movimento del Governatore della regione Puglia, Vendola, più propenso ad una politica che mira a rinforzare il welfare, incentivare politiche di redistribuzione e penalizzare gli aiuti alle banche, in sostanza una direzione contraria da quella intrapresa da Monti. Va detto che il Partito Democratico, secondo i sondaggi più recenti, il maggiore partito italiano, ha sempre considerato la fase del governo tecnico come transitoria ma necessaria per rimediare al malgoverno di Berlusconi; infatti per Monti prefigurava la massima carica super partes quale è quella del Presidente della Repubblica, che nel 2013 dovrà essere eletto per sostituire Napolitano, giunto alla scadenza del proprio mandato. Anche se per ora Monti non ha sciolto la riserva di presentarsi alla candidatura di Presidente del Consiglio, il solo fatto che questa eventualità possa verificarsi, ha generato all'interno del Partito Democratico parecchio nervosismo per due principali ragioni: la prima è che la candidatura di Monti, che ha un indice di gradimento molto alto per le politiche restrittive praticate, potrebbe erodere voti, la seconda è che, oltre ai voti, potrebbero andare a confluire verso le formazioni di centro, tutti quei componenti del partito che non si riconoscono in un'alleanza con la sinistra più radicale, ritrovando quell'affinità che avevano perso con il centro politico dalla morte della Democrazia Cristiana. A ciò si deve aggiungere che il principale partito del centro: l'Unione Cristiano Democratica, che ha avuto un rapporto privilegiato con il Partito Democratico durante l'esperienza del governo Monti e che pareva l'alleato più naturale per un futuro programma di governo, si è invece distaccata proprio in occasione dell'alleanza del Partito Democratico con Sinistra Ecologia e Libertà, che ritiene incompatibile con i suoi programmi. Berlusconi, che ha i sondaggi peggiori è riuscito così a dividere i suoi nemici politici in previsione della tornata elettorale, che sarà regolata dalla discussa legge in vigore, che dovrebbe dare una maggioranza certa alla camera ma non al senato e quindi bloccare la vita istituzionale del paese. Tuttavia nel centro destra, all'interno del Partito delle Libertà, la formazione fondata proprio da Berlusconi, che ha guidato il paese negli ultimi anni, vi sono divisioni profonde, acuite dal ritorno del leader, al quale sembrava destinato un ruolo di padre nobile, ma senza incarichi di primo piano. Molti, ma non tutti, consideravano finita l'esperienza di Berlusconi, per trovare una formazione più moderna e meno fondata sulla personalità del leader, che andasse a seguire le orme dei partiti di destra di Francia, Germani ed Inghilterra; una sostanziale rifondazione, insomma. Ma il grande potere finanziario di Berlusconi ha impedito questa evoluzione, se si eccettua pochi temerari, piuttosto, quello che sta accadendo è un fenomeno analogo al centro sinistra che consiste in una fuga verso il centro per dare sostegno, da destra, ad un nuovo esecutivo Monti. Il panorama politico italiano, quindi, torna ad essere segnato da incognite profonde che non ne favoriscono la stabilità; dalle urne infatti, come già detto, con questa legge elettorale ed una offerta politica così frammentata, a cui si deve aggiungere il pesante pronostico dell'astensionismo, non potrà uscire un paese facilmente governabile a meno di evoluzioni, per ora inaspettate e difficili da pronosticare.